Saggio su Giovanni Comisso
- Le mie stagioni -
A cinquantuno anni, certamente non sono più giovane ma nemmeno ancora anziana... eppure, rileggendo le pagine che seguono, mi pare sia passata un’eternità! E forse è proprio così: è passata un’eternità! Nuovo secolo, nuovo millennio da quando, al secondo anno del Liceo Classico, avevo partecipato al “Premio Comisso Ragazzi – 1986/87”. Ho fotografato la versione battuta a macchina del mio scritto, errori di battitura compresi, ma conservo tutte le mie minute a penna che testimoniano soprattutto la fatica di riuscire a contenere quello che avevo da dire nelle cinque cartelle che costituivano il limite massimo da osservare secondo il regolamento. A battere a macchina mi aveva aiutata una zia che ora non c’è più, una delle tante “cose” “serie” accadute in questa eternità, e a lei è andato il mio pensiero quando ho ritrovato quelle cinque pagine pinzate, così come va il mio pensiero a tutti coloro che non sono più in questo mondo e che erano parte del mio mondo di giovane liceale.
Sono cambiate anche tante “cose” un po’ meno serie, come il liceo che frequentavo e la scuola in generale, che ora mi appare come una bolgia terribile in cui tutti gli studenti vengono considerati meritevoli di voti alti e della promozione e in cui tutti o quasi sembrano imparare un bel niente, certo non ad amare lo studio.
E sono cambiata ovviamente io pur restando la stessa ragazza che scrisse il saggio su Comisso utilizzando correttamente il pronome “egli” come ormai non fa più nessuno (compresa la sottoscritta).
Buona lettura a chi vorrà!
Sardara, 20 ottobre 2020
SAGGIO SU GIOVANNI COMISSO
- - LE MIE STAGIONI –
Autobiografismo, amore per la natura, l’idea del fluire del tempo legato ad essa: sono questi i temi che ho immediatamente percepito in queste tre parole – Le mie stagioni – e che ho riscoperto nel corso della lettura.
Pubblicato nel 1951, quando Comisso aveva cinquantasei anni, “Le mie stagioni” è uno scritto in chiave autobiografica, in cui l’autore rievoca la sua vita come trascrizione memorialistica.
La narrazione investe un arco di tempo che va dal 1918 al 1944: pochi decenni in cui si verificarono grandi eventi che cambiarono la faccia del mondo e che vivono nel libro, più o meno indirettamente, attraverso le esperienze dell’autore.
È tutto il libro una rievocazione del passato ma, con notevole capacità artistica e d’immedesimazione nei fatti narrati, Comisso ha il potere di far rivivere situazioni e motivi, sensazioni e stati d’animo. È per questo che l’opera presenta la freschezza e la fedeltà quasi di un diario e, come leggendo un diario, gradualmente si scopre Comisso uomo e scrittore, la sua crescita, la sua evoluzione, la sua storia, la sua personalità.
La narrazione, infatti, si snoda con agilità e scioltezza e, con intensità e scorrevolezza allo stesso tempo, si susseguono i momenti della vita dell’autore: il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, l’impresa di Fiume, il tempo trascorso in Italia in un continuo desiderio di evasione e avventura; i viaggi in Europa, nell’Africa del Nord, in Cina, Giappone, Russia, Italia...; la stagione della vita in campagna. La molteplicità delle situazioni; degli ambienti, delle esperienze è già indice di una grande vitalità umana e di volontà di indipendenza, autonomia, libertà. Coerente con questa che è la sua sola norma di vita, egli rifiuta ogni artificiosità nella ricerca del piacere (“i godimenti veri e assoluti sono dati dalla conquista vera e diretta della bellezza con le proprie forze”); è incapace di sottomettersi a qualsiasi autorità; non ammette l’imitazione passiva nell’arte (così rimprovera Giulio Pacher); disprezza il sistema livellante della Russia (in cui “l’uomo non si muoveva da solo ma inquadrato”) e quello oppressivo e dittatoriale che si instaura in Italia (che impedisce ai giovani “di conquistarsi da soli una posizione attraverso lo studio e la lotta”); sottolinea sempre l’importanza e la bellezza di arrivare da sé alle proprie conquiste.
Nella sua formazione umana e artistica, ebbe peso considerevole la conoscenza di D’Annunzio: avvicinatosi con curiosità a colui che era allora un mito, ne subisce certamente il fascino – come gli altri giovani – ma non annulla la sua personalità, la sua individualità nel modello di vita trascinante e avvincente del Comandante. Già a Fiume ne mette in risalto alcuni difetti (la teatralità, la facilità ad essere influenzato, il volere avere “sempre egli solo... il movente di tutto”) e successivamente – pur vedendo in D’Annunzio e Eleonora Duse “due sublimi regnanti per un popolo d’artisti” – ne mette in luce l’eccessivo amore per la propria esteriorità e dice di volersi liberare “da una certa rettorica e da certo cattivo stile... anche per contagio dannunziano”. A dieci anni di distanza, ne ricorda l’aspetto poetico e marziale e, alla sua morte, ne da un giudizio disincantato e obiettivo sulla preziosità dello stile, la mancanza di profondità e analisi interiore, sull’influenza che ebbe nel gusto borghese italiano.
Alcuni elementi tipicamente dannunziani sopravvivono però in Comisso e si ritrovano nel libro: l’acceso sensualismo, l’edonismo, la sensibilità estremamente disponibile a ogni sollecitazione della natura (colori, profumi...), il culto del bello, l’estetismo (“corpi michelangioleschi”, “uno – attore – era delicato e bellissimo”, ragazzi e ragazze chirghisi “apparivano bellissimi e inattesi campioni di quella razza” etc.), l’esotismo (il desiderio di paesi lontani, l’ammirazione per il nuovo, l’insolito, il meraviglioso), una certa ideologia antidemocratica (“il popolo doveva pensare a lavorare e a vivere e a non occuparsi di politica che non era cibo per la sua bocca”), il disprezzo della morale borghese.
Molte di queste caratteristiche, a Fiume, avvicinano Comisso al suo primo amico: egli vive con Keller un legame che va al di là di quello che poteva essere semplice e naturale cameratismo e che, per lui, significa crescita, arricchimento interiore, consapevolezza di sé. Fuori dal contesto di Fiume, Keller gli appare però, un inutile tormentato e grottesche le sue idee – che pure aveva condiviso -, ma continua ad ammirarne il coraggio, la coerenza tra pensiero e azione, il disprezzo degli interessi terreni.
Quando termina l’avventura di Fiume, che era stato un prolungarsi del clima di guerra, Comisso – come altri giovani, come Keller, D’Annunzio (come Fausto Diamante) – vive la situazione di difficile reinserimento nella routine familiare e nella normalità della sua piccola città, stenta a trovare una giusta dimensione nella vita borghese, stimoli alla vita nella grettezza provinciale. La naturale irrequietezza, l’inclinazione al dinamismo, l’instabilità, la voglia di conoscere e vedere, il desiderio di fuggire, lo spingono a viaggiare continuamente, a non stabilirsi in nessun luogo. C’è, del resto, perfetta congenialità tra quello che diventa il suo lavoro di reporter e la sua personalità.
Quando decide di ripartire da zero, egli dice ne “La mia casa di campagna”: “avevo trentacinque anni vissuti sempre con la frenesia di muovermi, di vedere, di godere, anche la mia arte risentiva di questo cogliere la vita in superficie, tutto era per me paesaggio, anche l’essere umano. Fino allora potevo dire di avere soltanto goduto, non avevo sofferto per alcuna passione, perché mai ero rimasto fermo a un essere umano o a un paesaggio, ma sempre ero passato con avidità e indifferenza dall’uno all’altro”.
Il passaggio al nuovo tipo di vita non è facile e più volte si sente spinto a continuare a viaggiare. Non riesce a soddisfare la sua aspirazione alla tranquillità, alla pace, alla serenità: forse quello che gli manca è qualcosa di più solido e di meno labile cui appigliarsi che non siano effimere sensazioni, colori, ricordi, di un sentimento che lo coinvolga veramente e vada al di là delle sue “cordiali amicizie” e delle sue passeggere esperienze amorose. La vita in campagna, più stabile e meditativa, lo porta a fermarsi su di sé, a guardarsi dentro ma lo scoprire che una cosa è avere vent’anni e un’altra averne il doppio, l’irrimediabile fugacità del tempo, la consapevolezza della labilità della giovinezza e della vita, la nostalgia e il rimpianto del passato, la paura della solitudine si intensificano diventando più evidenti e acuti, acquistando dimensione dolorosa, di tormento angoscioso.
Il suo desiderio di conoscere e guardare, dall’apparenza e dalla esteriorità, si rivolge ad un’analisi più intima e profonda di ciò che lo circonda (i contadini, i loro lavori e i loro ragionamenti, il susseguirsi delle stagioni, il mutare della natura e del paesaggio, i lavori nei campi, la vita degli animali), ma soprattutto lo conduce ad una più ricca profondità interiore che raggiunge il suo culmine nel legame con Guido. Un legame fatto di gioia e tristezza, felicità e angoscia, tranquillità e tormento, un legame che porta, finalmente, Comisso a comprendere che se la mente si arricchisce col ricevere, il cuore si arricchisce col dare, Da un lato, la prorompente giovinezza di Guido gli fa sentire maggiormente il divario d’età (e per voler essere giovane tra giovani, per la capacità di cogliere il momento fuggente, per l’indifferenza verso gli altri... Comisso vorrebbe chiamarlo “l’assurdo”: assurdo Guido!? quando egli stesso aveva trascorso così la propria giovinezza!), dall’altro, è grazie a Guido che supera lo stadio di vita puramente istintiva: elimina il suo fiero egoismo, la sua anima si riversa in quella del ragazzo, vive per un altro, si sente consumare dal sentimento ma ciò gli “confermava l’anima dentro”.
C’è quindi, nel libro e nella vita dell’autore, una graduale evoluzione dal dinamismo alla staticità, dall’azione alla riflessione, dall’istinto al sentimento, dalla vita che si risolve in maniera sanamente e elementarmente edonistica alla vita che acquista valore solo in funzione di un altro.
C’è un certo cambiamento anche nel suo considerare la natura: da qualcosa di fisico, quasi come una matrice biologica che è fonte di ogni suo modo di essere, Comisso identifica la natura con la propria terra, come legame affettivo. Non scompare però una certa concezione animistica e panpsichistica che, se dapprima lo portava a comprendersi come parte integrante della natura, a perdersi e fondersi in essa (“selvaggio in pieno sole, mi facevo parlare da quel mare, col quale parlavo come fosse un dio vivente”; “sentivo di comunicare direttamente con la natura, non legato al fastidio delle lingue diverse degli uomini”; “mi sentivo accecare e disperdere”), successivamente lo induce ad un profondo rispetto per ogni forma vivente (tanto da tentare di eliminare la carne dai suoi menù) e a osservare la natura “come un metafisico curioso di ogni suo aspetto”.
Ciò che negli anni giovanili ha il potere di suscitare in Comisso emozioni non superficialmente sensoriali e che nel corso della sua vita sarà sempre il suo “amore senza tradimento”, è l’arte: egli la concepisce come strumento d’immortalità e di purificazione, come rifugio per i suoi tormenti, espressione di sé, creatività; arriva a dire che è l’arte “che plasma la vita”. Naturale quindi il suo interesse per la vita artistica e culturale dell’Italia (la corrente futurista, la notorietà di Guido da Verona, la storia di Italo Svevo, le riviste nascenti, il premio Bagutta – che riceve anche Comisso -; numerosi artisti più o meno noti; la perdita di effettivo valore della critica letteraria per l’influenza politica; la necessità di un’arte narrativa più profonda, scritta con sentimento etc.) e per ogni espressione d’arte dei paesi da lui visitati.
Pur se ciò che fondamentalmente emerge dall’opera, è l’individualismo autobiografico, non manca però la sensibilità verso i problemi storico-sociali da lui percepiti ma osservati con gli occhi del cronista. Il post-guerra, la crisi di valori, le lotte tra bianchi e rossi e la situazione dei contadini (cfr. “Storia di un patrimonio”), l’emigrazione (un quadro simile è presente ne “Il delitto di Fausto Diamante”), la situazione agricola del sud, la colonizzazione italiana, il regime fascista, la seconda guerra mondiale: è la situazione dell’Italia tra le due guerre che fa da sfondo alla narrazione. E Comisso considera gli Italiani ora “specchio di una natura mirabile” ora “un popolo fisico del tutto dominato dalla natura, negato a ogni idea”.
Egli, che aveva scoperto d’amare tanto l’umanità, che aveva trascorso buona parte della sua vita in paesi stranieri, a contatto con genti di razze diverse, in Africa si dimostra chiaramente razzista (“uguagliarli a noi nelle ricompense al valore dava ragione ai siciliani che andavano a coabitare con i negri”).
Comisso, uomo così dinamico e vitale, vive numerosissime esperienze erotiche non solo in Italia (la bella istitutrice, le tre sorelle padovane, la bellissima ragazza romana, la ragazza di Firenze, la folle e stranissima – perché prendeva lei l’iniziativa – figlia di Virgilio Gamba, la focosa contadina Elvira...) ma anche in tutti i paesi meta dei suoi viaggi, in cui visita, ogni volta, le case di piacere che, in Cina e Marocco, sono – a detta di Comisso – indimenticabili e insuperabili. Le donne, in ogni caso, sono viste in funzione del proprio godimento, del proprio piacere, nell’ottica della scoperta, dell’avventura; Comisso arriva a vedere in una donna, sua amante, il mezzo per risolvere i propri problemi economici. Del resto, parlando di Aminta – la ragazza malata di Siena – dimostra di confondere l’amore col sesso, l’amicizia con l’erotismo, e le persone con cui cerca di instaurare o instaura rapporti più profondi sentimentalmente, sono sempre individui di sesso maschile,
In una persona così vitale, così profondamente attaccata alla vita, coscientemente priva di scrupoli moralistici, che posto ha Dio? quale la morte? Per la prima volta l’idea di Dio compare nelle riflessioni di Comisso in campagna, come “Dio buono” che, con infinita generosità, interviene nella vita agricola (unico dubbio dell’esistenza di Dio è quella di uomini pazzi e malvagi, mandati forse per ridarci il senso della saggezza e quello della pace). Più frequente, durante la narrazione, è il ricordo della morte di amici e conoscenti di Comisso: quella del padre di Nevra Garatti e dle conte Nicolò Piccolomini, non sono che stimoli a godere più intensamente la vita, mentre nella morte di Keller e dei lebbrosi della Cina Comisso vede una liberazione.
Tutti questi elementi che formano insieme la vita di un uomo, sono fusi nel libro in un complesso armonico e organico grazie a una prosa libera, duttile (che va dal periodare lungo e aperto a quello netto e conciso), adatta a soddisfare l’esigenza di autobiografismo: suggestive immagini paesaggistiche, realistici quadretti di vita, evocazioni di stati d’animo, poetiche e delicate “fotografie” naturali, efficaci e fantasiose similitudini... tutto rivive in un’intensa varietà di toni e tinte, dosati efficacemente da Comisso.
Per la sua vitalità, per la sua volontà di godere, provare, conoscere, sperimentare, autonomamente, da sé e per sé, per questo mi piaciuto Comisso e, per la possibilità di averne un ritratto a tutto tondo, ho scelto di analizzare “Le mie stagioni” ma le pagine che più mi hanno toccato, con cui Comisso è stato veramente capace di sensibilizzarmi, sono quelle dell’intensa, coinvolgente e crescente tragedia nell’animo dell’autore dopo la morte di Guido.
DANIELA MARRAS
Classe II C
Liceo Ginnasio Statale “E.Piga”
Villacidro – CA -
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