Infanzia - Ricordi
La storia di mio padre e mia madre era cominciata in un piccolo paese dell’Isola-Piede nel Mediterraneo, S.
Un’isola che, dolce-amara, resta nel cuore di chi la lascia.
Un’isola di cui si parla soprattutto d’estate e che viene apprezzata quasi solo per le sue spiagge e il suo mare dalle mille sfumature.
Loro erano nati lì, nel piccolo paese del Campidano, ai piedi della collina de “Sa Cruxi de su Pibizziri” (La croce della cavalletta) e a valle del Castello di Monreale.
Il tempo scorreva lento all’epoca, nell’immediato dopoguerra.
Era il millenovecentoquarantasei e la popolazione conosceva la fame e la desolazione successive al conflitto mondiale.
“Sa fami ‘e su Qarantasesi!”, si dice ancora. “La fame del Quarantasei!”.
Mio padre era arrivato verdognolo alla nascita forse perché, così dicevano, sua madre aveva mangiato molte erbe lessate durante la gravidanza. Lei all’inizio un po’ lo nascondeva quando incontrava le altre donne che, curiose, volevano vedere il piccolo. Ma presto lui, nutrito dal latte materno, divenne un bel bambino roseo e paffuto e la sua mamma poté mostrarlo orgogliosa.
Mia madre era arrivata in una famiglia che aveva conosciuto il dolore e il dramma della perdita del primogenito per un’infezione da tifo nell’ospedale di C. Lei era quindi super accudita e super coccolata.
Sicuramente erano entrambi dei tesori per i loro genitori, come lo è, o dovrebbe essere, ogni figlio di uomo e donna sulla faccia della terra.
Una volta mio padre fu scoperto dalla madre mentre, in cortile, incurante, si portava alla bocca uno sporco scarafaggio. Lo avrebbe poi raccontato ai suoi figli un giorno e ne avrebbero riso assieme.
Mia madre, la prima volta che ricevette la visita di una bambina che sarebbe poi diventata sua amica del cuore, quella prima volta, la prese per i capelli perché le avevano dato le caramelle che riteneva spettassero a lei.
La prima amica di Maria Cristina era la nipotina delle signorine Pinu e, visto che la vita cuce per noi trame che sanno di romanzo, anche lei, come le sue zie, ebbe una morte tragica, lontana, lontanissima dal paese e dall’Italia.
Ormai in pensione, si recava abitualmente in Africa con suo marito. Ebbene, entrambi furono uccisi lì e ne venne data notizia anche nei telegiornali nazionali.
Ad oggi, non risulta essere stato individuato il colpevole.
La prima volta che mia madre vide e sentì mio padre fu al catechismo.
La suora andava dicendo che i bambini devono fare da buoni altrimenti vanno all’inferno dove c’è Lucifero.
Al che si era sentita una voce baldanzosa in fondo all’aula: “Ma deu ollu andai a s’Inferru! Aicci pigu u’ trebuzzu e infilzu Luciferu!”, “Ma io voglio andare all’Inferno! Così prendo un forcone e infilzo Lucifero!!!”.
Era babbo che aveva parlato in sardo, privo di alcun timore.
E mamma lo aveva sentito e aveva chiesto alla sua amichetta: “Ma chi è quello che ha parlato?!”,
“Non lo conosci? È Gigi Zappas, il fratello di Gianni Zappas!”
“Ah!”.
Il destino aveva cominciato a tessere la sua tela.
Per alcuni anni, la famiglia di babbo dovette lasciare il piccolo paese del Campidano e trasferirsi nel centro dell’isola perché lì suo padre doveva lavorare. Ma poi tornarono.
Tornarono perché il destino voleva così.
Il destino voleva che babbo e mamma si incontrassero.
Babbo giocava coi bambini e i ragazzi del suo rione, “Sa Trumba” ed era nella classe de su maistu Brundu, il maestro Brundu, che ricorreva spesso alla bacchetta per tenere la disciplina e non solo.
Mamma era in un’altra classe. Allora c’erano classi maschili e classi femminili. Anche la maestra di mamma usava la bacchetta.
Inizialmente la famiglia di mamma visse in quella che oggi è conosciuta come “Casa Pilloni”, l’antica casa dove lei era nata, situata presso la chiesa di Sant’Anastasia, e che poi è stata espropriata dal Comune e restaurata in modo barbaro dopo la demolizione di una intera ala.
Successivamente la famiglia si trasferì nella casa nuova in via Sardegna, vicino alla chiesa di Sant’Antonio e all’asilo delle suore del Cottolengo in quella che era stata l’abitazione dei Conti Orrù.
Mamma dormiva in una stanza grande, dove all’inizio c’era un solo piccolo letto che condivideva con la sua sorellina Lucia, un comodino e due sedie distanti sulle cui spalliere era stata sistemata in orizzontale una lunga canna dove appendevano i loro pochi vestiti. Eppure erano considerati una famiglia benestante. Ma era il tempo del post guerra e i soldi scarseggiavano per tutti e quei pochi che c’erano valevano poco o niente. Anche se nella famiglia di mamma c’erano tanti servitori e domestiche che si prendevano cura dei campi e della casa.
La bella casa di via Sardegna era un grande edificio su due piani con le murature in pietra, circondata da un esteso giardino con piante ornamentali e piante da frutto, con annessi l’orto e il cortile degli animali pavimentato con ciottoli, s’impedrau, dove vi erano anche il granaio, il pagliaio, le mangiatoie per le vacche e i vitelli, il magazzino per il vino, le casette dei maiali e quelle dei cavalli, mentre galline, oche, tacchini e anatre zampettavano liberi.
Del lussureggiante giardino sono sopravvissute le calle, le profumatissime fresie che sanno di primavera e che ornavano la palme intrecciate che si usava portare in chiesa per la benedizione la domenica delle Palme e l’acetosella coi fiori rosa. Vi erano anche tante arnie colorate dove venivano allevate le api con grande dedizione dal padre e dalla madre di mamma.
L’ingresso principale della casa immetteva su un atrio che dava accesso al salotto a destra e a sinistra alla sala. Vi era poi il disimpegno da cui si accedeva alla stanza da pranzo, a una cameretta, alla dispensa, a un cortile sul retro e alle scale per il piano superiore dove c’erano quattro ampie camere da letto, uno studiolo, il bagno e il solaio. L’ingresso secondario si praticava attraverso un bel loggiato che conduceva a una grande stanza dove c’erano un enorme camino e il forno a legna e poi alla stanza da pranzo, con la cucina anch’essa a legna, e al cucinotto.
La casa era sempre in fermento, dall’alba al tramonto, e non solo.
Una volta alla settimana si faceva il pane: ci si svegliava prestissimo, - fuori il buio, era notte fonda! - per poter lavorare debitamente l’impasto che poi veniva infornato a metà mattina diffondendo per tutta la casa, mentre cuoceva, l’inconfondibile odore di buono. Buono come il pane! Il coccoi veniva lavorato e decorato con perizia dalla madre di mamma che ne avrebbe conservato il ricordo per tutta la vita. Il ricordo di sua madre intenta in questa delicata operazione con una sorta di temperino e il ricordo del profumo del pane nel forno.
Quando c’era la vendemmia e si faceva il vino era una festa per tutti così come quando veniva ucciso il maiale.
Anche gli zii di Cs. si recavano a S. e tutti partecipavano all’evento, come si usava fare, pure i bambini. Mamma, sua sorella e suo fratello si divertivano a raccogliere le unghie del maiale e a utilizzarle come moneta nei loro scambi e giochi.
All'epoca ci si divertiva davvero con poco.
Zio Giulio, il piccolo dei Fabbris, raccontava ai suoi tre nipotini, cui era molto affezionato, che quando aveva quattro, cinque anni chiedeva al fratello maggiore Narciso, il loro padre, perché lui fosse nato per ultimo e Narciso allora, lo faceva gareggiare con lui correndo. Giulio, piccolino, arrivava sempre per ultimo: in questo modo il fratello maggiore rispondeva al quesito del suo fratellino.
Che la casa della famiglia di mamma fosse di pietra era indicativo di un certo benessere e di un elevato ceto sociale.
Le casette delle viuzze del centro del paese erano soprattutto di mattoni di “ladriri”, un impasto di argilla rossa e letame, al giorno d’oggi considerato “ecologico” e amico dell’ambiente. Allora erano di ladriri le case dei poveri, piccole abitazioni più che modeste dove vivevano famiglie numerose e che sono sparite al giorno d’oggi mentre la grande casa di pietra è sempre bella e imponente.
I genitori di mamma erano severissimi con le figlie, un po’ meno col loro figlio maschio.
Una volta, erano tutti vicino al camino, quella volta mia madre aveva esclamato: “Sapete cosa sono gli ormoni?!” e, slash, si era beccata un inaspettato potente ceffone dal padre senza sapere e capire perché e per come…
Lei voleva fare solo la battuta: “Sono le orme dei piedoni!”.
Ma, come avrebbe scoperto in seguito, “ormoni” era una parola proibita.
Sua madre poi forse sapeva essere ancora più severa.
Le facevano usare una crema per eliminare le efelidi sul suo viso chiaro perché la sua pelle potesse essere senza difetto alcuno, così pensavano. Ma era una pelle bellissima anche con le efelidi, ora considerate simpatiche, giovani e spiritose.
Dopo le elementari, mamma e zia, furono mandate in collegio a C.. Vi trascorrevano quasi tutto l’anno e vedevano i genitori solo raramente. Ne avrebbero sofferto. Erano bambine, ancora bisognose di sentire il loro affetto e la loro vicinanza.
In collegio non stavano bene. Il cibo era scadente e perfino scarso, non c’era il riscaldamento e non sempre c’era l’acqua calda per lavarsi. Eppure i genitori credevano di offrire loro il meglio perché potessero avere un futuro.
Erano molto affezionate anche allo zio. Era “zio” e basta. Gli altri erano “zio Nino” o “zio Tommaso”.
“Zio” era lui. Il fratello della loro madre. Alto, bello, raffinato.
Aveva iniziato gli studi universitari alla facoltà di medicina dell’Università di C., come risulta anche dall’annuario pubblicato negli scorsi anni on line, in cui è menzionato appunto Emilio P. C., coi cognomi di suo padre e sua madre. Si era però laureato a Pavia, specializzandosi in tisiologia. Era poi diventato vice direttore del Sanatorio dell’Abetina, a Sondalo, in Valtellina.
Nell’annuario dell’Università di Pavia lo si può ancora trovare nell’elenco dei laureati in medicina del millenovecentotrentasei con una tesi in tisiologia appunto.
Aveva fatto la guerra ed era stato partigiano, con un nome in codice, anche lui e poi era tornato nel suo paese, forse a seguito della fine di un amore impossibile.
Allevava vacche di qualità, per la carne, e ogni tanto, nel periodo della transumanza, passavano le sue mandrie per il paese.
Non si sarebbe mai sposato e sarebbe rimasto “zio” per i suoi amati e affezionati nipoti e pronipoti.
Una vecchia foto in bianco e nero, diffusa anche su Facebook, lo mostra bambino, seduto su una sedia e affiancato da due domestiche in piedi e da altri bambini.
All’epoca non era comune studiare e tantomeno specializzarsi in Continente eppure i suoi genitori vollero consegnargli un futuro diverso da quello di contadino anche se possidente, forse per allontanarlo da una giovane innamorata che non era gradita ai familiari.
Frequentò le scuole medie e il liceo classico a C..
Poi intraprese gli studi in Medicina a C. e dopo, come detto, si trasferì a Pavia.
Visse in un palazzo in via Sant’Agostino, una via del centro storico, proprio dietro Piazza Vittoria.
È una piccola via che parla di tempi lontani e sussurra voci di genti del passato.
Secoli addietro vi si trovava anche la locanda “Il Falcone” giudicata pessima dal filosofo Montaigne che vi si era fermato per la notte il venticinque ottobre millecinquecentoventuno.
Ci sono ancora locali dell’Università da un lato della strada.
Il sole arriva ai piani superiori dei palazzi e si ammirano scorci di cielo, guardando verso l’alto. La pavimentazione della strada è ancora con lastricato e, soprattutto, acciottolato, i ciottoli del fiume, a Pavia così comuni da essere utilizzati in passato anche per edificare i muri alternandoli ai mattoni. Alcuni palazzi sono stati ristrutturati ma erano lì anche durante il soggiorno di zio.
Come doveva essere la piccola città in quegli anni...
Le fitte nebbie autunnali e le nevicate d’inverno. L’acqua del Ticino assai più pulita di adesso. Le chiese che ci sono ora e che c’erano allora così come gli edifici dell’Università, del Comune e altri edifici storici. C’era sicuramente il vecchio ponte romano sul Ticino, prima che venisse distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e poi ricostruito come lo si può ammirare oggi. Il castello visconteo venne restaurato tra gli anni venti e trenta, quindi magari zio lo vide con le impalcature per i lavori in corso o già rimesso a nuovo. Non c’era la statua della Minerva che risale al periodo fascista ma c’era la Torre civica vicino al Duomo che è crollata il diciassette marzo millenovecentoottantanove.
Quale doveva essere il fermento degli studenti in una università antica e prestigiosa, più o meno lontani da casa.
Chissà come era arrivato zio a Pavia. Aveva preso la nave e poi il treno da Genova molto probabilmente o forse era arrivato direttamente da Roma.
Aveva circa diciotto anni. Un ragazzo bello, curato, con i capelli lunghi pettinati all’indietro, forse con la gelatina, lo immagino così. Penso a un bagaglio leggero e a un cuore pieno di entusiasmo e speranza. Forse, lasciando gli scampoli della lunga estate sarda, era arrivato in autunno inoltrato, le foglie gialle e rosse sui marciapiedi, ammesso che ci fossero, la nebbia, il freddo.
Avrà raggiunto, forse in calesse, o a piedi chissà, il suo appartamento in via Sant’Agostino.
Allora si stava a pensione in appartamenti privati; magari una anziana vedova o una attempata signorina faceva la spesa e cucinava per lui, faceva il bucato e si prendeva cura del suo abbigliamento. Zio studiava e sosteneva esami e sicuramente socializzava coi colleghi.
Chissà se tornava spesso a S., se sentiva la nostalgia della famiglia e della sua terra. Certo che doveva sentire la mancanza di casa ma allora non c’erano i collegamenti che ci sono ora e di sicuro non poteva tornare troppo di frequente.
Durante uno dei suoi rientri a S., esibì un elegante bastone da passeggio con aria un po’ dandy, immagino. Ma suo padre, il mio bisnonno, non approvò la novità portata dal Continente e gli fece abbandonare immediatamente l’uso del bastone da passeggio.
In Valtellina lavorava a fianco del suo amico medico, dottor Zorzoli che, tanti anni dopo, avrei conosciuto anche io.
Era il millenovecentoottantadue, circa, mia madre aspettava mio fratello che sarebbe nato di lì a poco. Io ero stata super felice della visita degli amici di zio. In quel periodo ero spesso di malumore: mi vedevo brutta, bruttissima e piangevo pressoché tutte le notti. All’inizio davo la colpa al mio naso che trovavo orribile, poi a tutto il viso, specie di profilo.
Ebbene il dottor Zorzoli mi aveva trovato somigliantissima a una sua nipote che viveva a Roma: disse che ero spiccicata a lei nei modi e nell’aspetto. Ed io ne ero stata felicissima! Lo scrissi nel mio diario e scrissi anche che sarei voluta andare a Roma a conoscere la mia “copia”.
Conserviamo una foto di quel giorno. Nel giardino dei nonni, davanti alla porta dell’ingresso principale. Zio tutto sorridente accanto a un albero di pere e vicino a mamma incinta. Babbo. I miei nonni materni. Zio Guido e zia Lucia. Zio Alberto e zia Maria. I due fratelli Zorzoli con le loro rispettive mogli naturalmente, una delle quali è “Signora Silvia”, la madrina albanese di mia madre, scampata allo schifo e all’orrore del regime comunista nel suo paese. E davanti le mie sorelle, io. E i miei cuginetti Giulio e Rinaldo. Tutti piccini. Anche io in fondo ero poco più che una bambina: indossavo una gonna blu plissettata e una maglia gialla e bianca nuove di zecca che mi piacevano un sacco.
Mentre era in Valtellina, stando ai racconti vaghi dei nipoti, zio visse una intensa storia d’amore. Mio zio prete, qualche anno fa, mentre mia sorella Milva ed io eravamo in visita a Parigi, dove lui viveva, ci disse che zio conservava un orologio a ricordo della donna che, ricambiato, aveva amato. Non ci raccontò granché di più.
Io non so romanzare. Sarebbe magnifico se ci riuscissi. Immaginare e descrivere in queste pagine un giovane uomo, bello, bellissimo, e una giovane donna, bella, bellissima. Il loro primo incontro, le loro emozioni, i loro baci e le loro trepidazioni. In un periodo difficile, gli anni della seconda guerra mondiale. Se ci riuscissi, descriverei i luoghi di quell’amore. La Valtellina che immagino incontaminata, i suoi boschi, le montagne a far da cornice, luoghi che ho visitato qualche anno fa, quando mi sono recata a Morbegno, e che avevo potuto ammirare rapita. I corsi d’acqua a valle, nel paese, i boschi non troppo lontani e le vette innevate. L’aria frizzante e pulita. Sicuramente per zio erano paesaggi assai diversi dalla pianura del Campidano dove era cresciuto. Sicuramente erano luoghi magici, come immagino siano magici per tutti i luoghi della gioventù e dell’amore.
Se ci riuscissi, descriverei una clinica d’avanguardia, per l’epoca. Una clinica in cui si curava un male che allora faceva paura. Un sanatorio.
Immagino le sedie a stradio nei loggiati e nei giardini, in cui far prendere il sole e respirare aria buona ai malati di tisi. Ho visto queste immagini nei film, le ho viste nella mia testa leggendo altri libri, libri di scrittori veri che sanno scrivere romanzi come si deve.
Il rimedio contro la tisi allora si basava sul riposo, la nutrizione e l’aria pura, e su quelle che sono chiamate “le tre l”: lana, letto, latte. Fino a quando gli antibiotici non furono efficaci contro l’infezione, il sanatorio infatti fu il principale strumento di cura.
Dell’epoca in Valtellina sono arrivate anche alcune foto che ritraggono zio in montagna, coi suoi amici, tutti coi pantaloni alla zuava secondo la moda del tempo, foto che io ho potuto vedere qualche anno fa a una esposizione a Casa Pilloni.
Il sanatorio dell’Abetina era all’epoca destinato a pazienti donne, abbienti e facoltose.
Una di queste giovani si era innamorata di zio e gli fece dono di un anello con una grossa pietra che zio accettò pensando che la pietra fosse un grosso e vistoso “culo di bottiglia”. Quando poi ebbe modo di recarsi in una gioielleria a M., fece esaminare la pietra e gli dissero che si trattava di un brillante di enorme valore. Zio allora restituì l’anello alla giovane paziente togliendole così ogni illusione e ogni sogno d’amore con lui.
Come già detto, io non riesco a romanzare, mi sono inaridita.
Non che sia sempre stata così. Da ragazza scrivevo pagine e pagine, nei compiti a scuola. Per il primo tema di italiano al ginnasio presi un sei perché era troppo lungo e la professoressa era andata a parlarne anche agli alunni della quinta ginnasio. Mah!
Fatto sta che non so affabulare e quindi anche la storia dell’amore di zio, i suoi luoghi, i suoi discorsi, restano nella penna, anche se non uso una penna per scrivere ma la tastiera di un portatile. E resta un orologio che immagino sia conservato da zia Pipina.
O forse no, forse zio non aveva vissuto una intensa storia d’amore, no.
Forse zio, stando ad un’altra voce, credo più fondata, aveva piuttosto evitato di vivere una storia d’amore, una storia d’amore impossibile, l’amore di una donna che non poteva essere sua.
Infatti, si fece recapitare una lettera scritta da sua sorella, mia nonna, il cui contenuto aveva definito lui stesso e in cui veniva comunicata la necessità che lui tornasse in Sardegna senza indugio. E così fu!
Quindi, dopo gli anni tra i partigiani, in cui non arrivavano sue notizie in famiglia, e dopo l’esperienza in Valtellina, zio tornò a S..
Deve aver spezzato così tanti cuori! Mia mamma e mia zia Lucia guardavano le tante cartoline che continuavano ad arrivare per lui dal Nord e fantasticavano su Zio e sul suo perduto amore.
Era un medico ed era un signore. A casa sua, per fare da governante, andò una delle sue nipoti, zia Pipina appunto.
Tanti anni dopo, i ragazzi più giovani che non conoscevano storie e famiglie credevano che Pipina fosse la moglie di zio, visto che viveva a casa sua.
La ricordo sempre seduta sul bracciolo di una poltrona vicino a zio, quando andavamo a trovarlo. Non si sedeva mai diversamente.
Zio era benvoluto in genere ma aveva pure i suoi detrattori.
Fu anche sindaco di S. e, come sempre, quando si entra in politica, sovente ci si crea dei nemici, non solo degli avversari.
Viale dei Platani nacque in quegli anni.
Zio non faceva solo il medico. Allevava anche le vacche per la carne. Ricordo quando la mandria attraversava le vie del paese, quando ero bambina. Era una tale emozione! Così come vedere i vitellini appena nati nel cortile di nonna, dove oggi sorge la nostra casa o nel cortile di Casa Pilloni.
Zio era bello anche in tenuta da campagna, portava sempre il cappello ed era elegantissimo anche a cavallo. Mi piaceva, e lo ricordo, il suo modo di sbottonare la giacca quando si sedeva su una sedia o una poltrona, e di riabbottonarla quando si alzava.
Una volta ci aveva visto raschiare muschio da un muretto a casa di nonna per il nostro Presepe e allora lui andò in campagna e ci portò il muschio lussureggiante con le felci che allora si poteva ancora prendere liberamente.
Una volta ci portò un riccio che dapprima si nascose tra i nostri giochi e poi restò a vivere in giardino.
Un’altra volta ci trovò truccate con fard, ombretto e rossetto, visto che avevamo ricevuto in dono dei cosmetici per bambine e ci disse che eravamo bellissime!
Ricordo che preparavamo anche il caffè con la moka per lui e lui apprezzava sempre. Chissà se era buono davvero quel caffè...
Viaggiò in Africa e negli Stati Uniti.
Fu mio padrino di battesimo insieme a nonna Lina.
Aveva tanti figliocci, era ricercatissimo come padrino. Ma, nel mio caso, nel caso della primogenita di sua nipote Maria Cristina, era stato davvero importante che lui fosse vicino a mamma.
Una volta era venuto a trovarci alla colonia estiva delle suore a Costa Verde dove andavamo da bambine. Era venuto insieme al parroco. Il mare era mosso e ricordo che noi bambine non avevamo potuto fare il bagno. Solo gli adulti. Ci portò una scatola di dolcetti che mangiammo la sera.
Conserviamo le foto del matrimonio di zia Lucia, delle nostre Prime Comunioni e zio era sempre con noi.
Gli scrissi una cartolina da Firenze dove andai in gita in terza media. Gli portai due bottiglie artigianali rivestite di cuoio con due bicchierini appesi al collo della bottiglia. Lui me ne restituì una dicendo che era troppo. Ora quella bottiglia è nella cristalliera in tinello, non con i bicchierini originali che andarono in pezzi ma con due sostituti procurati da nonna Lina.
Mi aveva dato dei soldini prima della partenza, come si usava fare. Li aveva dati anche a un’altra nipote, mia cugina Lilia e lei gli portò una maschera di legno mi pare.
Zio aveva sempre buoni consigli per mamma e noi, e non solo come dottore di casa.
Mia cugina Lilia, non ricordo bene se alle elementari o alle medie, scrisse dei biglietti a una comune compagna di scuola in cui diceva che mia madre era gelosa di sua zia Ciccia perché lei si era laureata e mia madre no e che io, quando zio veniva a casa, stavo ad origliare… Questa compagna poi aveva dato i biglietti a me ed io li avevo fatti vedere a mamma che li aveva fatti vedere a zio. Lasciarono perdere senza dare risalto a pettegolezzi e screzi tra bambine. Anche se io c’ero rimasta molto male.
Alle elementari avevo anche litigato con questa cugina e questa compagna perché mi avevano preso il quaderno delle poesie che scrivevo e l’avevano fatto vedere alla maestra. Mi chiamarono “spastica” ed io chiamai mia cugina “scimmia che mangia banane”.
Avevo in testa l’idea di fare la scrittrice già da allora.
In quinta elementare scrivevo racconti e progettavo un libro con la mia compagna Renzina. Alle medie con l’amica con cui avevo litigato alle elementari e con cui avrei continuato a litigare a giorni alterni anche alle medie. Nei giorni in cui non litigavamo ci ammazzavamo di risate. Scrivemmo racconti che si sarebbero alternati con le mie poesie. Spedimmo il manoscritto (scritto dalla mia compagna perché la mia grafia era considerata poco leggibile) alle Paoline di C.. Io scrissi la lettera di accompagnamento spiegando come avremmo voluto il nostro libro.
Ci spedirono un biglietto e ci invitarono ad andare da loro.
Ne parlarono anche col vice parroco che si era recato nella libreria di C. e che era nostro professore di religione: il prof ci riferì di questo colloquio durante l’ora di lezione e così tutti vennero a sapere del nostro libro.
La mamma della mia compagna venne a casa a mostrare a mia madre il biglietto che ci era stato spedito. Babbo e mamma poi mi portarono a C. ma non successe niente: ci dissero che il manoscritto sarebbe stato inviato alla loro sede non so dove.
Poi ci riferirono che il libro non sarebbe stato pubblicato “per la brevità dei racconti”.
Al rientro in macchina ricordo che babbo disse che “era tutta una mafia” anche se io non capii bene cosa volesse dire. Ricordo che scrissi nel mio diario che anche le favole di Esopo erano brevi…
Fatto sta che sperimentai sin da ragazzina le difficoltà del mondo dell’editoria. E che ancora non sono diventata una scrittrice.
Infatti ho perso il filo.
Si parlava di zio.
Ho impresso nella mente che, quando venne a mancare nonno Narciso, dopo il funerale, lui rientrò a casa dal cimitero con me e le mie sorelle, a piedi.
Si ammalò di tumore al cervello. Non lo vidi all’ospedale e non volli vederlo nella bara, il giorno dei suoi funerali. Eravamo in casa sua e c’era anche la cugina che mi aveva definito “spastica”.
Conservo quindi solo bei ricordi di zio.
Mia mamma dice che l'ultima volta che ha visto Zio in ospedale, lui le ha detto: "Ricordami alle bambine!”.
Nonna Erminia stravedeva per lui e mio nonno non ne era geloso solo perché erano fratello e sorella. A nonna piaceva cucinare per lui e i suoi amici importanti e aveva sempre un occhio di riguardo. Naturalmente zio le era stato vicino anche quando lei, anziana, soffriva per dolori terribili alla schiena e le somministrava la morfina.
*****
Io sono la primogenita di casa.
Nacqui all’Ospedale Civile di C. ma trascorsi il mio primo anno di vita a casa dei genitori di mio padre.
Il giorno in un cui sono nata nevicava, evento eccezionale per la nostra zona, e la mia nonna paterna aveva dovuto aspettare al gelo che la facessero entrare in visita.
Fui accolta col sorriso dei medici, visto che, inizialmente in una cattiva posizione, alla fine avevo fatto una giravolta ed ero arrivata scivolando in mano al dottore.
I medici sorridevano e mia madre soffriva.
So che uscii dall’ospedale in braccio alla mia nonna materna e che zio era stato vicino a mamma.
Piangevo spesso e mia madre con me. Conservo piccole foto in bianco e nero di quando avevo circa un mese, in camera dei miei, capelli irti e copertina.
Le foto del mio primo compleanno sono a colori, nel salottino verde di casa dei nonni paterni: il mio babbo, la mia mamma ed io. E la torta, di pasticceria. Io ho gli occhi lucidi di pianto. Piangevo perché non volevo un fiocco in testa che mia madre si ostinava a mettermi ed io a togliere.
Eppure eravamo belli, i miei genitori ed io.
Dopo un anno circa di vita coniugale a casa dei nonni paterni, ci trasferimmo in un appartamento a C..
Il trasferimento in città fu una liberazione per mia madre.
Un giorno venne anche la mia nonna materna, di nascosto da nonno, ed io la portai subito a vedere “trice”, la lavatrice.
Mio padre lavorava lontano e tornava nei fine settimana.
Una di quelle volte lo accolsi gioiosa come sempre e, andandogli incontro, cinguettai: “Babbo, uomo to mamma tucina! Uomo to mamma tucina” e lui “Brava, Danielina! Sempre così!”.
L’uomo con mamma in cucina era il ragazzo venuto a cambiare la bombola del gas.
Io chiamavo me stessa “Ninina” e così mi chiamava anche zio, zio che trovava adorabili me e le mie sorelle. Noi eravamo affascinate da lui e quando andavamo a casa sua ci piaceva sentire il profumo della sua colonia in bagno, dove facevamo sempre una capatina.
Ci affascinava perché era proprio bello, sempre elegante anche quando era in tenuta da cowboy.
Ho visto, nella mia infanzia, vitellini appena nati, dolcissimi, nel cortile degli animali dei nonni, dove ora sorge la nostra casa. E mia madre ha sempre detto di aver visto vacche con le lacrime agli occhi.
Ciononostante continuo a mangiare la carne, anche di vitello.
“Mi piacevano i versi e la tagliola”, dice il poeta, Rocco Scotellaro, per dovere di precisione.
Mia madre trascorse un periodo sereno in città e anch’io, ma a mio padre non piaceva vivere in appartamento e si vedevano solo nei fine settimana.
In paese si era diffusa la voce che stessero per separarsi.
Decisero di tornare. Non a casa dei nonni paterni, però.
Andammo a vivere in una casa in affitto.
In quella casa nacquero la seconda e la terza delle mie sorelline.
Eravamo tre piccole bambole, belle e frignanti.
Belle, si vede dalle foto, frignanti lo si può immaginare.
Viveva non lontano la nostra zia che da piccole chiamavamo “Nannanna” e che così avremmo continuato a chiamare. E a lei piaceva essere chiamata con quell’allitterazione fanciullesca coniata apposta per lei.
Nannanna da giovane era stata “in Continente”, in Toscana.
E lì aveva imparato a cucire e confezionare abiti.
Quando rientrò in Sardegna, continuò ad esercitare la sua attività di modista. Era una signorinetta e amava vestirsi bene. Ho sentito vagamente di una storia d’amore e di un fidanzamento con un soldato in tempo di guerra, un soldato del Continente che poi si scoprì essere sposato.
Naturalmente le cugine bacchettone ebbero di che parlare e straparlare.
Come per la storia d’amore di zio, potrei immaginare il mio paese al tempo della guerra. Una signorina bella e peperuta e un giovane aitante venuto da lontano. Potrei immaginare una delle tante storie dell’epoca. Mia zia non me ne parlò mai.
Da anziana riceveva ancora proposte di matrimonio ma lei mi diceva che non avrebbe sposato dei vecchi per dovergli poi “pulire il sedere”.
Ricordo che metteva il rossetto quando noi eravamo piccole e lo faceva mettere anche a noi. Era ancora un peperino quando noi eravamo piccole, povera ma dignitosa, e non si era mai sposata. Andava molto fiera delle sue “cannacas”, quelle che vengono chiamate “collane di Venere”, perché le aveva anche sua madre, “mammai” (lei infatti parlava dei suoi genitori come “mammai” e “babbai”e a loro si era sempre rivolta con il “voi”, “fustei”).
Viveva in quella che era stata la casa dei suoi genitori e, ancora prima, dei suoi nonni, che erano anche i nonni materni di mia madre e quindi miei bisnonni.
Una casa molto antica dunque e che ora non c’è più. Ahimè, era stata demolita per edificare una casa più moderna di cui c’è ora solo il rustico abbandonato.
La casa era su un piano. Vi si accedeva da tre gradini che portavano al piccolo loggiato dove c’era un grosso otre in cui zia raccoglieva l’acqua. Ricordo anche un grande albero di oleandro coi fiori tra il rosa e l’arancio dal caratteristico profumo e che noi non potevamo toccare perché ritenuti velenosi.
C’era anche un leggiadro giardino dove Nannanna coltivava soprattutto le rose di cui andava molto orgogliosa. Coltivava anche capperi e camomilla.
Dal piccolo loggiato si accedeva sia alla sala che alla cucina dove c’era il camino. In cucina il pavimento era di pietra e leggermente irregolare. C’era la radio che zia teneva spesso accesa. Non aveva il televisore. C’erano anche la sua Singer e scampoli di stoffa dei più svariati tipi. Spesso cuciva vestitini anche per le nostre bambole.
Anche dalla cucina si accedeva alla sala. Tra i vari soprammobili io ero particolarmente affezionata a tre porcellini di porcellana, madre, padre e figlioletto e dicevo che eravamo babbo, mamma ed io.
La sala, salendo un gradino che a me sembrava altissimo, immetteva in una camera da letto con un letto alla francese e un comò, e che dava quindi accesso alla camera da letto di zia e da un'altra porta a un locale di transito da cui si accedeva al solaio e all’ingresso sul retro, dove c’era un grande albero di limoni e dove poi era stato ricavato un piccolo bagno.
Nel locale sul retro c’era appeso un quadro del babbo di zia: mi affascinava quel quadro. Il ritratto mi faceva ricordare Poldark, protagonista di uno sceneggiato che guardavamo quando ero bambina.
Da bambine ci piaceva tanto stare a casa di Nannanna ed essere invitate a pranzo da lei. Il menù ci appariva golosissimo. Ci preparava i cellentani col sugo al pomodoro, poi le polpette “con tutti i sapori” e per dolce le sue speciali frittelline di ricotta. A chi chiedeva quale fosse il suo segreto, diceva che erano così buone perché le friggeva in “ollu ‘e procu”, letteralmente in “olio di maiale”, vale a dire nello strutto.
Ci piaceva indossare le sue vestaglie colorate e le sue scarpe coi tacchi e provare i suoi rossetti. Ci sentivamo delle regine tutte agghindate.
Ci raccontava tante storielle che noi le facevamo ripetere più e più volte, magari sedute su barattoli rovesciati vicino al fuoco del suo piccolo camino, e quando siamo cresciute, ragazze già all’Università, ci raccontava gli aneddoti della nostra infanzia. Era la mia madrina di Cresima, ci teneva tanto e non sarebbe contenta ora di sapermi non maritata. “Ma sei superba?!”, mi chiederebbe. L’equivalente di “Te la tiri?!”.
Era tutta un’effusione con noi nipoti, sbaciucchiamenti, abbracci, palpate al sedere che lei avrebbe continuato a dispensare anche quando, cresciute, manifestavamo di non apprezzare più.
Ci raccontava la storia di Robertina che era finita all’inferno e che la zia andava coraggiosamente a riprendersi; la storia di un gatto goloso che mangiava il lardo, la storia dei tre gobbetti e altre storie che sentiva alla radio o che inventava.
Quando ero proprio piccina, mi piacevano particolarmente le sue scarpe, un paio mi avevano incantato: “E quanto le hai pagate?” “Cento lire” ed io “Cento lirrre ma… belle!” e così è rimasto l’aneddoto in famiglia raccontato da lei e ripetuto da noi per indicare le cose costose ma belle appunto, di qualità.
Cento lirrre ma… belle!
E da quando, in occasione dei fuochi di artificio per Santa Barbara, mi avevano detto: “Senti? Santa Barbara!”, io, ogni volta che sentivo i botti, esclamavo: “Tenti? Tanta Baba!”.
All’occasione, piccola com’ero, meno di tre anni, ero capace anche di essere decisamente perfida. Mi piaceva uscire con Nannanna e piaceva anche alla seconda delle mie sorelle. Ed io allora, streghetta, ricorrevo alla tattica dell’induzione dei sensi di colpa: “Allora lasci mamma sola sola…?! Lasci mamma sola sola…?!”. Al che, mia sorella, alla fine replicava: “E allora sto con mamma mia!”.
Zia mi aveva insegnato anche a dire che lei era “bella tome una rosa” e zio “brutto tome ciofo”, lui che era un uomo bellissimo e un signore!
Ricordo che una volta la vidi nel suo loggiato seduta vicino ad una zingara. Per noi le zingare erano persone pericolose che rapiscono i bambini… ma mia zia era piuttosto stravagante e non le importava di quello che dicevano gli altri, come credo non gliene fosse mai importato.
Nannanna è vissuta in povertà per lasciare tutto a chi l’avrebbe assistita nella vecchiaia… E infatti la nipote che le prestò le ultime cure non ci consentì nemmeno di entrare nella sua stanza a trovarla quando era malata… Aveva settant’anni quando morì.
Povera zia stupidona! (Con affetto)
Ho un ricordo che non ero nemmeno sicura fosse davvero un ricordo o piuttosto un sogno, ambientato nel cortile di quella che era diventata la nostra casa, vicina alla casa di Nannanna. Io che corro verso il cancello perché volevo andare via e mia madre che mi raggiunge e mi molla un sonoro e potente ceffone.
Solo da adulta, ho avuto conferma del fatto che era un ricordo di bambina, anche se mia madre ha poi asserito che non si era trattato di uno schiaffone ma uno schiaffetto.
*****
Nel giardino della casa che era dei miei nonni materni, in via Sardegna, il punteruolo rosso ha ucciso due bellissime palme ma altre due ancora resistono. Perché sono palme da dattero, più difficili da attaccare. E sono così belle! Una in particolare con la chioma tonda tonda che si staglia contro l’azzurro del cielo di Sardegna.
Nella villetta di fronte alla casa dei miei nonni, dove dapprima vivevamo in affitto e che poi i miei genitori acquistarono, arrivò la quarta delle mie sorelline, una vera bambolina, riccioli d’oro e occhi azzurri. Diversissima da me. Ci separano quattro anni.
Per le faccende di casa, venivano in aiuto di mia madre delle giovani domestiche. Una in particolare, di quelle che ho conosciuto io, Luciana, ci è ancora affezionata; all’epoca era giovanissima. Ci raccontava storie molto spaventose su ragazze morte che tornavano come fantasmi. Oggi vive in Germania e non è più tanto giovane, come non lo sono io del resto.
Un’altra, Luisanna, era una aiutante già a casa di mia nonna Erminia e poi venne da noi, dopo varie esperienze nel Nord Italia, specie a B. È ora una amica di famiglia, che ha conservato il sorriso e il buon spirito anche nelle avversità della vita.
Anche Luce era stata a casa nostra giovanissima e poi tempo dopo quando io ero già preadolescente. Vive in paese e non è diventata madre come desiderava.
Le mie sorelline ed io giocavamo, mai stanche, sia nel cortile della nostra casa sia a casa dei nonni. Giochi dei tempi andati… Cucinavamo con foglie e fiori, facevamo la spesa utilizzando sassolini come soldi, dormivamo e avevamo le nostre case sotto gli alberi di susine o sotto il fico.
Facciamo finta che…
E ci piaceva in particolar modo andare a cercare le uova tra la paglia delle mangiatoie delle vacche, che le galline trovavano evidentemente molto comode e rilassanti.
Nei fine settimana andavamo a trovare i nonni paterni e giocavamo coi nostri cugini, tutti insieme appassionatamente, scombinando l’ordine di nonna in cortile.
La casa dei nonni paterni non aveva un giardino, solo un cortile pavimentato col cemento e un piccolissimo appezzamento di terra incolta sul retro.
Si accedeva a una sorta di terrazza con quattro, cinque gradini su cui si affacciavano tre porte, la porta della cucina, quella della sala e quella di una camera da letto che divenne la camera di nonno Santino, il padre di mio nonno, il mio bisnonno.
La cucina era piuttosto piccola, c’era il camino, e una credenza colorata di bianco e azzurro anni settanta forse. Era collegata a un disimpegno dove c’erano le scale per il piano di sopra. Le scale erano di legno, ripidissime; le mie sorelle ed io, una volta salite, poi scendevamo sedute strisciando col sedere sui gradini. Nel piano di sopra c’erano le camere da letto, anche il pavimento era di legno, e camminando si faceva rumore.
Dalla sala si accedeva con due gradini a una camera da letto sul retro che era quella in cui, per un anno avevamo dormito mio padre, mia madre ed io e che poi divenne la camera dei nonni.
Nella sala – salotto c’era il divanetto verde che è lo stesso delle foto del mio primo compleanno.
Oggi che di figli se ne fanno pochi o niente (niente nel mio caso), immagino che fosse una battaglia per mia madre anche solo vestirci per uscire. Infatti una volta, dopo essere stati a casa di zio, arrivati a casa dei nonni paterni, mia nonna sbottò: “Ma Danielledda è chenz’e mudandasa!!!”. Ero senza mutande. In compenso la seconda delle mie sorelle ne aveva due paia!
Qualcosa di simile mi è capitato tanti anni dopo, negli anni dell’Università a C., mentre ero dall’oculista. Non in tema di mutande, fortunatamente… credo.
Ero in una stanza al buio insieme agli altri pazienti in attesa e dovevamo stare con gli occhi chiusi. Ad un certo punto passò l’infermiera per metterci le gocce di atropina. Mentre stava allontanandosi, il ragazzo dopo di me sbottò dicendo che a lui non le aveva messe. A me le aveva messe due volte… Fui la prima ad essere visitata.
Era vicina a mia mamma, per quanto poteva, anche Giulia, la sua amatissima e affezionatissima tata.
Una donnina piccina e dolce ma di grande tempra. L’unica che le era stata accanto anche quando era venuto meno il sostegno dei genitori. Se non ricordo male, era presente anche il giorno del matrimonio, in chiesa, ma non nelle foto.
Siccome io ero una bambina piagnona mi implorava di succhiarmi il dito “aicci ti faidi paxiosa!”, qualcosa tipo “così ti rende pacifica!”, “così ti rilassa!”, ma io non ne volevo sapere.
Oltre che succhiare il seno di mia madre, mi piaceva il succo d’arancia e, più in là, il cioccolato, l’unico “bobò”, dolcetto, che esistesse per me. Ma mi piacevano anche le cipolline sottaceto di nonno Narciso.
Ero magra da bambina e da ragazzina. Da piccola, su suggerimento delle zie, pregavo: “Gesù, fammi diventare gassa gassa!”.
Mi portarono anche a farmi visitare ma sono tempi andati. Ora quel problema è decisamente superato: preghiere esaudite! Ahimè.
Quando è nata la seconda delle mie sorelle, ero gelosissima. Mi irrigidivo tutta e mia nonna paterna mi portava via nuda, involta in una coperta, dopo il bagnetto. Dicevo che mia sorella era brutta: “Butta Bella! Butta Bella!” ma c’era chi non capiva e pensava stessi asserendo il contrario. E naturalmente volevo continuare a succhiare il seno di mia madre. Così eravamo in due ad essere allattate!
Durante il periodo a C., mi aveva preso in simpatia una vecchia insegnante di mia madre. Era considerata una signora burbera e scostante ma con me si addolciva e aveva la pazienza di darmi da mangiare un piccolo panino briciola dopo briciola.
A C. mi piaceva anche andare per negozi.
Una giorno alla Upim, mia madre racconta che avevo fatto incetta di quello che era alla mia portata e lei aveva dovuto rimettere tutto a posto. Alla fine mi aveva lasciato solo un pacchetto di caramelle.
Ero una chiacchierona all’epoca e una volta, nel bus di città, parlavo e parlavo a raffica e una signora si era girata e poi rigirata e poi rigirata ancora verso mia madre chiedendo: “Ma è quel cosino che parla così?!”.
Un giorno, quando eravamo tornati a vivere in paese, mentre ero in giro con mia madre, sbottai: “Mammina, quando mi crescono i baffi?!” e mia madre: “Sei una femminuccia, non ti crescono i baffi”; al che io replicai: “E allora perché quella signora ce li ha?!”. Ci sarebbe da pensare ma non credo al contrappasso in vita…
Non mi piacevano i contatti fisici e le effusioni delle persone estranee e, già da piccolissima, se qualche signora espansiva si avvicinava e mi toccava dicendo: “Ta bella”, “Che bella”, io mi scostavo esclamando “Ascia sciare! Fama!” e la signora di turno chiedeva a mia madre cosa stesse dicendo la bella bambina e lei replicava “Non so. Non capisco…”.
In realtà lei capiva benissimo ma non poteva tradurre il mio “Lascia stare! Scema!”.
Quando eravamo grandette le mie tre sorelle ed io (grandette ma ancora bambine), dopo la Messa domenicale andavamo a trovare Giulia nella sua casetta e ci piaceva scroccare il suo brodo di pollo della domenica bagnandoci sottili fettine di “coccoi”, il pane speciale di pasta dura che viene fatto in Sardegna. Per noi era una goduria! E Giulia era così contenta che andassimo a trovarla!
La casa di Giulia, situata nella via che portava e porta a Casa Pilloni, era piccola, tutta su un piano. Attraverso un vialetto costeggiato di fiori e piante si accedeva a un fresco loggiato con tanti fiori in vaso. Sul lato destro c’era una porta che conduceva a una sorta di legnaia e al piccolo servizio. A sinistra si accedeva alla cucina col camino. Giulia usava anche il braciere d’inverno e una volta la seconda delle mie sorelle si bruciò una gamba cadendovi dentro.
Dal loggiato si accedeva a una stanza di passaggio che poi conduceva alla camera da letto con la finestrella che dava sul retro della chiesetta di Sant’Anastasia. Se non ricordo male c’erano anche delle scale per una soffitta dove non sono mai stata.
Giulia è vissuta a lungo, fino a vedermi laureata e fino a sapermi “prusu attesu de Londra”, più lontano di Londra, città per lei lontanissima. Gli ultimi anni li trascorse purtroppo in una casa per anziani. Quando andavamo a trovarla era super felice di vederci e non solo lei, anche le altre ospiti aspettavano le visite avidamente.
Ha voluto tanto bene a mamma, babbo e noi e ne ho un dolcissimo ricordo. Cara Giulia!
Le mie due nonne erano diversissime tra loro.
La nonna paterna, nonna Lina, si era sposata giovanissima, a diciassette anni, in tempo di guerra e amava raccontarci del giorno del suo matrimonio.
La nonna materna, nonna Erminia, bellissima, si era sposata dopo i trent’anni: era schiva e di rado, anzi mai, si lasciava andare alle confidenze e ai racconti del suo passato con noi.
Nonna Lina, era originaria di S. G. M. e, il giorno delle nozze, aveva fatto il viaggio dal suo paese al nostro in un carro trainato da cavalli immagino.
Aveva un vestito fatto con stoffa avuta “a sa martininca”, espressione utilizzata per indicare il mercato nero e di cui non conosco l’origine visto che “martininca” in sardo significa “scimmia”. L’abito, se non ricordo male, si era anche strappato ma l’avevano rammendato velocemente e lei era tutta felice.
Mio nonno era suo cugino ed avevano avuto una dispensa speciale per il matrimonio.
Saranno coincidenze, ma i nonni materni erano anch’essi cugini allo stesso modo ma a loro non fu richiesta alcuna dispensa speciale.
Ricordo che nonna Erminia era rimasta colpita dalla bella testa di capelli di quello che sarebbe diventato suo marito, il padre di mia madre, mio nonno.
Tanto nonna Lina era caciarona ed espansiva quanto nonna Erminia era riservata e chiusa.
Mio fratello è stato l’unico, per la mia esperienza, a suscitare una risata in nonna Erminia. Era un bambino e aveva raccontato una barzelletta che avevo sentito all’Università e che avevo ripetuto a casa: “Lo sai che hanno arrestato l’elettricista vicino a casa tua?! Vendeva prese per culo!!!”.
Una volta nonna Lina stava guardando uno sceneggiato alla televisione e la scena mostrava una donna titubante vicinissima al volto dell’uomo che amava, ma appunto titubante, incerta e nonna aveva sbottato: “E basaddu!”, “E bacialo!”.
Nonna Erminia guardava programmi seri e, sovente, a carattere religioso. Una volta, quando andavano a dormire da lei le mie sorelline Diana e Marina, era rimasta alzata con loro perché dovevano guardare un programma su Madonna, dopo cena. Peccato che lei si aspettasse un programma sulla Madre di Gesù e non sulla cantante pop.
Nonna Lina non disdegnava le espressioni colorite e spesso, quando qualcosa non andava per il verso giusto, concludeva una frase con un sentito “’Fancullu!” o con un altrettanto sentito “Mai’n sa vida!”.
Inoltre aveva fatto sua quella che era un’espressione di sua sorella, specie quando ci dedicavamo alle pulizie in grande: “Mellu mesu merda ca’ merda tottu!”, “Meglio merda a metà che merda interamente!”.
Filosofia di vita che certo non coincideva con quella di nonna Erminia che invece puntava sempre al meglio.
Ricordo che, quando ero alle elementari, ero fiera ed orgogliosa di avere i miei nonni. C’erano compagnetti che già li avevano perduti ma io ero felice di averli tutti e quattro ancora vicini.
Di nonna Lina ricordo le canzoncine e le filastrocche o i versi per vezzeggiare i più piccoli dei nipoti, nelle varie fasi della crescita: per esempio per far saltellare in grembo i bambini di qualche mese ritmava “Danna danna dinni di danna – danna danna dinni di do e sa mamma di coidi s’ou e su babbu di narat ca no e didinni dinni di danna e didinni dinni di do” (Danna danna dinni di danna – danna danna dinni di do e la mamma cuoce l’uovo e il babbo dice di no e didinni dinni di danna e didinni dinni di do).
Sia lei che Nannanna ci recitavano “Serra serra, pabas a terra, pabas a muru, muru su topi, tottu sa notti, tottu sa di, a pappai a ti a ti” (Serra serra, spalle a terra, spalle al muro, bianco il topo, tutta la notte, tutto il dì, ci mangiamo proprio te, proprio te), quando potevamo stare sulle loro ginocchia e, tenendoci le mani, ci facevano allungare con le spalle indietro fino alle nostre risate finali mentre simulavano di mangiarci la pancia.
Il divertimento era lo stesso della cantilena in italiano “Cavallino arrò arrò, prendi la biada che ti do, prendi i ferri che ti metto, per andare a San Francesco, a San Francesco c’è una via che va a casa mia, a casa mia c’è un frate che fa le frittate. Mi da una frittatina?! Butta via questa bambina!!!”, filastrocca antica richiamata anche ne “La donna di Gilles”.
Oppure ci facevano saltellare sulle ginocchia cantando: “A du duru duru a su tai tai, sa pippia nosta no si morgia mai, mellu chi si morgiada bacca cun vitellu ca’ su vitellu si du pappausu e sa pippia nosta da coiausu, cund’unu sinnoriccu arriccu e bellisceddu, chi potid muneda e chi potid dinai, a du duru duru a su tai tai” (A du duru duru a su tai tai, la bambina nostra non muoia mai, meglio che muoiano la vacca col vitello, ché il vitello ce lo mangiamo e la bambina nostra la maritiamo con un signorotto ricco e bellino che abbia moneta e che abbia denaro, a du duru duru a su tai tai!).
Ci insegnavano anche a contare le dita delle mano con “Custu est su procu, custu d’a mottu, custu d’adi arrustiu, custu si s’adi pappau e a pintiricheddu nudda nudda anti donau c’adi scoviau” (Questo è il maiale, questo lo ha ucciso, questo l’ha arrostito, questo se lo è mangiato e al piccoletto non hanno dato niente niente perché ha fatto la spia!), ora la ricordo così anche se forse la citazione non è proprio precisa.
Per pettinare i nostri lunghi capelli Nannanna recitava “Pettua pettua, co ‘e cabixetta, co ‘e caboru, a fai su piu bonu…” (Pettina pettina, coda di lucertola, coda di serpente, che renda i capelli docili…) e poi non la ricordo più.
Le mie due nonne amavano cucinare e cucinavano tanto tanto… per gli altri. Noi bambine apprezzavamo soprattutto le merende con uova e patate fritte, non tutti i giorni certo. Ma quando sono rimaste sole, per loro stesse non si preparavano di certo manicaretti e leccornie.
In questo, ho preso da entrambe. Vivo sola e spesso, quasi sempre, visto che il pranzo (se così lo si può definire) lo consumo fuori, nell’ora di pausa mentre sono al lavoro, la sera trovo ispirazione aprendo il frigo e improvvisando con una mozzarella o qualche fetta di pancetta arrotolata o due uova strapazzate o, quando proprio proprio mi va di cucinare, una fettina passata in padella o un piatto di pasta. Senza dimenticare i surgelati nel freezer, le creme liofilizzate di asparagi o carciofi e addirittura i pacchetti di patatine. Pret a manger!
Nonna Erminia se ne è andata dopo un ictus e un ricovero all’ospedale di S. G. da cui non si era ripresa. Io ero all’Università all’epoca ma ero in casa quando arrivò la telefonata dall’ospedale una mattina presto, mentre eravamo ancora a letto: risposi dal telefono sul mio comodino e dovetti comunicare la notizia triste ai miei.
Nonna Lina, dopo essersi fratturata un femore, era rimasta allettata per anni, pelle e ossa, sino al suo ultimo respiro. Io lavoravo al Nord.
Anche i miei nonni paterni erano fra loro diversissimi e, che io ricordi, non avevano rapporti reciproci.
Nonno Narciso, era originario di Cs. e apparteneva alla grande famiglia Fabbris de “Is Arrobettusus”.
A Cs. infatti, “Fabbris” è un cognome comune e ci sono diversi ceppi di famiglie “Fabbris”.
Per questo, i miei zii erano chiamati “Is Arobettusus”: “Quelli di Roberto”, “I discendenti di Roberto”.
Mio bisnonno era un uomo alto e forte, che amava ballare nelle feste di paese.
Trascorse un lungo periodo anche in Africa prima di sposarsi e accasarsi con Ignazia.
Ebbero nove figli, sei maschi e tre femmine, Narciso, Raimondo che tutti chiamavamo Nico, Tommaso, Francesco che tutti chiamavamo Chicchino, Michele che tutti chiamavano Michelino, Giulio, Teresa, Giuseppina che per tutti era Pina e Antonietta.
Li ho conosciuti tutti, tranne Antonietta che morì giovane e della cui esistenza e sorte sono venuta a conoscenza solo di recente. Ho infatti appreso che questa zia a me sconosciuta per tanti anni, venne cacciata di casa perché era rimasta incinta di un servitore. Cacciata di casa e, senz’altro con dolore, cancellata dalla vita e quasi dalla memoria dei familiari e dei parenti.
Di zia Pina e della violenza subita in guerra mi sono fatta raccontare. E conservo il suo ricordo con tanta tristezza. I suoi grandi occhi castani allungati, come quelli degli Egizi. Zio Giulio rammenta ancora quei giorni nei dettagli e la sua figlia Elisa ha trascritto per me il suo racconto.
A parte zio Tommaso, gli altri zii mi apparivano alti alti. E lo erano, erano altissimi rispetto alla media dell’epoca.
Tranne Tommaso, Michelino e Pina, si sposarono tutti. Chicchino in tarda età, almeno così si considerava. Partecipai al suo matrimonio ma ero piccola e non conservo tanti ricordi.
La casa padronale è stata acquistata dal Comune e considerata patrimonio del paese. È diventata scenario anche di film e rappresentazioni.
Vi si accede da un tipico portone con arco a tutto sesto, tipico del Campidano. C’è un grande cortile con l’acciottolato.
Io ricordo, a sinistra le case dei cavalli e a destra le casette degli altri animali. Le galline scorrazzavano libere nel cortile. In fondo, da un lato il pozzo e dall’altro la casa con il grande loggiato dove gli zii sedevano quando c’era bel tempo. La casa aveva tante stanze l’una comunicante con l’altra ed era stata restaurata e riammodernata negli arredi durante la mia infanzia. Nella cucina, un grosso camino da cui spesso il fumo invadeva la stanza e che obbligava gli zii a stare curvi, a testa bassa.
Mi piaceva soprattutto il prosciutto, come adesso non si trova più.
Zio Giulio, molto anziano e acciaccato, è ancora vivo, accudito dalle sue figlie. Gli altri zii e le zie sono morti di morte naturale, tutti tranne mio nonno e zio Michelino.
Zio Michelino, alto alto, così lo ricordo, alto e bello, forse il più bello dei fratelli (a parer mio), è mancato dopo le sofferenze, che non è retorico definire crudeli, del Morbo di Parkinson, rattrappito eppur vigile nel suo letto di torture.
Nonno aveva studiato al liceo classico ed era uno studente curioso e appassionato, curiosità e passione per i libri e la cultura che avrebbe conservato anche da adulto e da nonno.
Aveva fatto pure l’educatore in una scuola per sordastri, si chiamavano così, in Continente, nonché il cacciatore di animali di cui conciava e vendeva le pellicce, il direttore di un caseificio ed è stato a lungo il presidente della Cooperativa viticola di S..
La sua era una famiglia di contadini e infatti avrebbe continuato questa attività coniugandola con le sue passioni. Mamma racconta ancora che nonno amava anche il teatro e ogni tanto andava a C. e trascorreva la notte in albergo.
Ricordo che a me e a mia sorella affidò anche due dei suoi libri per bambini perché li leggessimo e ne facessimo il nostro riassunto. Io lessi “Guglielmo Tell”. Grazia “Robinson Crosuè”.
Rammento anche il suo orto florido nel grande giardino di casa: mi piaceva soprattutto quando raccoglieva le patate. Era una gioia per noi trovare patatone e patatine sotto la terra che nonno smuoveva delicatamente con la zappa. Adoravo anche prendere delicatamente il prezzemolo.
Allevava pure le api per il miele e c’erano in giardino le arnie colorate da cui noi bambine dovevamo stare lontane. Anche nonna Erminia aveva allevato api e, dopo il matrimonio, poterono allevarle assieme.
La mia prima frase scritta, da sola, mentre mia madre si era assopita in un caldo pomeriggio autunnale, era stata proprio “Nel giardino di nonno ci sono le api”.
Era alto, magro, slanciato, come i suoi fratelli e incuteva un certo timore. Anche lui, come zio, portava sempre il cappello.
Quando doveva arrivare Marina, Diana, la terza delle mie sorelle, dormiva con lui e, prima di addormentarsi, contavano le noccioline e lei apostrofava nonno dicendo: “Tu domi, io leggio”.
È a nonno Narciso che si deve la diffusione del semidano a S.. Lui produceva questa varietà di vino bianco a Cs. e fu lui che fece conoscere il vino e il vitigno a zio il quale poi cominciò a produrre questo vino anche nel mio paese. Una volta lo fece assaggiare al famoso enologo Veronelli che scrisse un articolo di apprezzamento su un noto settimanale nazionale.
Ricordo che una volta, mentre io e mia sorella Grazia litigavamo, - eravamo alle scuole medie – mamma chiamò proprio lui in suo soccorso. Mia sorella si chiuse in bagno ed io nella nostra cameretta che condividevamo, dove c’era la maniglia rotta che consentiva di aprire solo dall’interno della stanza. Nonno ci ingiunse di aprire le porte ma, mentre mia sorella aprì, io non lo feci temendo chissà che…
Nonno Narciso è mancato inaspettatamente dopo un improvviso ictus intestinale e un ricovero lampo a S. G., in una giornata di sciopero dei medici. Io avevo quattordici anni, era la prima morte in famiglia che mi trovavo ad affrontare e piansi come mai avevo pianto.
Nonno Nanni, il padre di mio padre, lavorava nell’edilizia.
Anche lui, come nonno Narciso, proveniva da una famiglia numerosa. Durante la guerra era stato in Russia.
Gli piacevano i cani e la caccia. Infatti aveva anche un’armeria in cui vendeva cartucce e tutto il necessario. L’armeria dapprima era in centro in paese, io la ricordo. Poi venne spostata in un locale adiacente alla casa dei nonni.
Anche mio padre divenne cacciatore e a noi piacevano i brodini di pernice e i conigli e le lepri, finché poi, dopo le pressioni di noi figlie e di mio fratello, anche babbo abbandonò questo “hobby”. Anche se, a dire il vero, molti cacciatori, come mio padre da giovane, amano la natura e gli animali molto più di alcuni che cacciatori non sono e che si proclamano “verdi” o “animalisti”.
Quando ero piccina mi piaceva dormire nel lettone coi nonni paterni. Mio nonno diceva che lo riempivo di calci alla pancia. Ricordo che si sedeva sempre a cavalcioni sulle sedie “al contrario”, appoggiando le braccia alla spalliera e dando le spalle al vuoto.
Ci raccontava le storie paurose de “sa coga”, una strega maligna che prendeva i bambini cattivi.
Era un accanito fumatore e infatti venne a mancare per un tumore ai polmoni.
I miei nonni materni andavano in Chiesa, erano cattolici osservanti, al contrario dei miei nonni paterni di tendenza filo-comunista.
Andava in chiesa solo nonno Santino, il mio bisnonno, padre di nonno Nanni. Lui andava alla Messa ogni pomeriggio e poi passava a prendere il thè a casa nostra. Anche nonno Santino aveva vissuto l’esperienza della guerra, delle guerre. Quando noi eravamo piccole aveva ancora gl’incubi della guerra in Africa e sognava i nemici che si nascondevano tra la sabbia per cogliere gli avversari di sorpresa.
Quando io ero piccolissima, si era rivolto a mamma per la scelta della statua in memoria dei caduti che sarebbe stata collocata nella piazza del Municipio. Lui era a capo del comitato per la raccolta dei fondi e provava un profondo scoramento nel constatare che tutte le statue del catalogo che piacevano a lui erano costosissime e fuori budget, come si direbbe ora.
Mamma sfogliò il catalogo e individuò una statua non troppo grande né troppo appariscente e la mostrò a nonno Santino.
Lui rimase perplesso per un po’ e poi esclamò: “Ma esti una femmia!”, “Ma è una donna!”.
Al che mamma replicò: “È la Vittoria! La statua della Vittoria!”. Dopo questo chiarimento, nonno ne fu entusiasta e decise che quella sarebbe stata la statua in memoria dei caduti in guerra nella piazza del Municipio di S..
Ancora lo è!
È vissuto a lungo. Venne a mancare d’estate, mentre io e i miei eravamo in vacanza a Torre delle Stelle: era il 1984.
I miei nonni paterni e materni provenivano da mondi diversi e, in modo diverso, ci hanno voluto bene.
***
A poco più di un anno ero pure una tifosa sfegatata di calcio: correva il millenovecentosettanta, il Cagliari era fortissimo ed io urlavo: “Foza, dai, tia Biba!”, incitando Gigi Riva, “Rombo di tuono”, a tirare in porta e fare goal.
Da piccina ero anche intraprendente. Il primo giorno di asilo ero tornata a casa tutta giuliva esclamando: “Papà, ho baciato Rinaldo! Papà, ho baciato Rinaldo!”. Anche se avevo le idee un po' confuse sui rapporti tra uomini e donne, visto che alla mia sorellina che diceva: “Andrea mi vuole! Luca mi vuole! Fabrizio mi vuole! Come posso fare?!" avevo risposto: “Prendi uno di loro come marito e gli altri come cognati!!!”... Facile, no?!
Ed ero anche molto gelosa di mio padre, tipico complesso di Elettra, mi è stato detto. Di mio padre e mia madre insieme. Quando ero proprio piccola, dopo un regalo di mio padre a mia madre, non ricordo cosa, sbottai in sardo: “An berusu. Sempri a cussa, sempri a cussa!!!”, “Ma guarda. Sempre a lei! Sempre a lei!”. È rimasto l’aneddoto in casa. Avevo la scusante che ero piccina ma quando avevo otto anni, durante la nostra prima vacanza a Torre delle Stelle, una sera che i miei si erano preparati per uscire insieme, avevo fatto di tutto per impedirlo, scorrazzando per il giardino da un cancello all’altro precedendo i loro movimenti, fino a nascondermi in macchina. Questa volta ero più grande e per di più recidiva, ahimè!
***
Mia madre e mio padre hanno allevato sei figli, cinque femmine e un maschio. Ma mia madre affrontò più di sei gravidanze.
Dopo la quarta gravidanza portava ancora la trentotto di taglia.
Come possiamo vedere nelle belle foto che ne sono memoria e ricordo, per il matrimonio di sua sorella, zia Lucia, quando eravamo tutti splendidi, babbo, mamma, noi, le mie sorelle ed io, quattro bambole, gli sposi, zio naturalmente, zio Alberto che ancora era scapolo e i nonni, mamma era vestita in lungo e indossava un top di seta a righe sottili con le tonalità dell’azzurro che avevo poi utilizzato anche io, da ragazza, ma per poco tempo, e poi mia sorella Marina e che ora indossa sua figlia Stefania, mia figlioccia di battesimo, che ha il fisico snello di una diciottenne.
La gravidanza che portò alla nascita della mia sorella più piccola fu molto difficile e Milva sarebbe morta se mamma avesse dato retta ai medici che le avevano detto che il feto non era in vita.
Ma Milva, all’ottavo mese, arrivò in ospedale a C., sana e bella e ci diede l’annuncio zio. Ne fummo super felici ma non approvammo la scelta del nome che in realtà ci era assai familiare.
Anche mio fratello arrivò all’ottavo mese, due anni dopo la nascita di Milva. Mio fratello però nacque in casa, con l’assistenza dell’ostetrica e di zio.
La notte, babbo mi aveva portato la piccola Milva su in camera col biberon pieno di latte, perché mamma aveva le doglie. Mie sorelle andarono a scuola ma io no. Restai in casa fino a che la mia sorellina non si svegliò e poi andai con lei a casa di nonna. Ci portò la notizia dell’arrivo, una emozionatissima Luisanna, l’aiutante – amica di vecchia data: “È nasciu” È nasciu!”. Io ero stata abbastanza imbranata quando ci avevano condotto nella camera da letto e la levatrice mi aveva esortato a fare gli auguri a mamma.
Molte persone credono che babbo e mamma cercassero il maschio e per questo avrebbero avuto tanti figli e che si sarebbero fermati dopo l’arrivo di mio fratello.
In realtà, non è così. Mamma ebbe un aborto spontaneo anche quando io ero al liceo. Andai a trovarla in ospedale a S. G.: era pallida e stremata.
Una volta, disse a me e a Milva che bastava che babbo la guardasse perché lei poi si trovasse ad aspettare un bambino.
E pensare che un medico, poco dopo il matrimonio, le aveva detto che non avrebbe potuto avere figli…
Pubblicato sul sito il 19 Gennaio 2024
La storia di mio padre e mia madre era cominciata in un piccolo paese dell’Isola-Piede nel Mediterraneo, S.
Un’isola che, dolce-amara, resta nel cuore di chi la lascia.
Un’isola di cui si parla soprattutto d’estate e che viene apprezzata quasi solo per le sue spiagge e il suo mare dalle mille sfumature.
Loro erano nati lì, nel piccolo paese del Campidano, ai piedi della collina de “Sa Cruxi de su Pibizziri” (La croce della cavalletta) e a valle del Castello di Monreale.
Il tempo scorreva lento all’epoca, nell’immediato dopoguerra.
Era il millenovecentoquarantasei e la popolazione conosceva la fame e la desolazione successive al conflitto mondiale.
“Sa fami ‘e su Qarantasesi!”, si dice ancora. “La fame del Quarantasei!”.
Mio padre era arrivato verdognolo alla nascita forse perché, così dicevano, sua madre aveva mangiato molte erbe lessate durante la gravidanza. Lei all’inizio un po’ lo nascondeva quando incontrava le altre donne che, curiose, volevano vedere il piccolo. Ma presto lui, nutrito dal latte materno, divenne un bel bambino roseo e paffuto e la sua mamma poté mostrarlo orgogliosa.
Mia madre era arrivata in una famiglia che aveva conosciuto il dolore e il dramma della perdita del primogenito per un’infezione da tifo nell’ospedale di C. Lei era quindi super accudita e super coccolata.
Sicuramente erano entrambi dei tesori per i loro genitori, come lo è, o dovrebbe essere, ogni figlio di uomo e donna sulla faccia della terra.
Una volta mio padre fu scoperto dalla madre mentre, in cortile, incurante, si portava alla bocca uno sporco scarafaggio. Lo avrebbe poi raccontato ai suoi figli un giorno e ne avrebbero riso assieme.
Mia madre, la prima volta che ricevette la visita di una bambina che sarebbe poi diventata sua amica del cuore, quella prima volta, la prese per i capelli perché le avevano dato le caramelle che riteneva spettassero a lei.
La prima amica di Maria Cristina era la nipotina delle signorine Pinu e, visto che la vita cuce per noi trame che sanno di romanzo, anche lei, come le sue zie, ebbe una morte tragica, lontana, lontanissima dal paese e dall’Italia.
Ormai in pensione, si recava abitualmente in Africa con suo marito. Ebbene, entrambi furono uccisi lì e ne venne data notizia anche nei telegiornali nazionali.
Ad oggi, non risulta essere stato individuato il colpevole.
La prima volta che mia madre vide e sentì mio padre fu al catechismo.
La suora andava dicendo che i bambini devono fare da buoni altrimenti vanno all’inferno dove c’è Lucifero.
Al che si era sentita una voce baldanzosa in fondo all’aula: “Ma deu ollu andai a s’Inferru! Aicci pigu u’ trebuzzu e infilzu Luciferu!”, “Ma io voglio andare all’Inferno! Così prendo un forcone e infilzo Lucifero!!!”.
Era babbo che aveva parlato in sardo, privo di alcun timore.
E mamma lo aveva sentito e aveva chiesto alla sua amichetta: “Ma chi è quello che ha parlato?!”,
“Non lo conosci? È Gigi Zappas, il fratello di Gianni Zappas!”
“Ah!”.
Il destino aveva cominciato a tessere la sua tela.
Per alcuni anni, la famiglia di babbo dovette lasciare il piccolo paese del Campidano e trasferirsi nel centro dell’isola perché lì suo padre doveva lavorare. Ma poi tornarono.
Tornarono perché il destino voleva così.
Il destino voleva che babbo e mamma si incontrassero.
Babbo giocava coi bambini e i ragazzi del suo rione, “Sa Trumba” ed era nella classe de su maistu Brundu, il maestro Brundu, che ricorreva spesso alla bacchetta per tenere la disciplina e non solo.
Mamma era in un’altra classe. Allora c’erano classi maschili e classi femminili. Anche la maestra di mamma usava la bacchetta.
Inizialmente la famiglia di mamma visse in quella che oggi è conosciuta come “Casa Pilloni”, l’antica casa dove lei era nata, situata presso la chiesa di Sant’Anastasia, e che poi è stata espropriata dal Comune e restaurata in modo barbaro dopo la demolizione di una intera ala.
Successivamente la famiglia si trasferì nella casa nuova in via Sardegna, vicino alla chiesa di Sant’Antonio e all’asilo delle suore del Cottolengo in quella che era stata l’abitazione dei Conti Orrù.
Mamma dormiva in una stanza grande, dove all’inizio c’era un solo piccolo letto che condivideva con la sua sorellina Lucia, un comodino e due sedie distanti sulle cui spalliere era stata sistemata in orizzontale una lunga canna dove appendevano i loro pochi vestiti. Eppure erano considerati una famiglia benestante. Ma era il tempo del post guerra e i soldi scarseggiavano per tutti e quei pochi che c’erano valevano poco o niente. Anche se nella famiglia di mamma c’erano tanti servitori e domestiche che si prendevano cura dei campi e della casa.
La bella casa di via Sardegna era un grande edificio su due piani con le murature in pietra, circondata da un esteso giardino con piante ornamentali e piante da frutto, con annessi l’orto e il cortile degli animali pavimentato con ciottoli, s’impedrau, dove vi erano anche il granaio, il pagliaio, le mangiatoie per le vacche e i vitelli, il magazzino per il vino, le casette dei maiali e quelle dei cavalli, mentre galline, oche, tacchini e anatre zampettavano liberi.
Del lussureggiante giardino sono sopravvissute le calle, le profumatissime fresie che sanno di primavera e che ornavano la palme intrecciate che si usava portare in chiesa per la benedizione la domenica delle Palme e l’acetosella coi fiori rosa. Vi erano anche tante arnie colorate dove venivano allevate le api con grande dedizione dal padre e dalla madre di mamma.
L’ingresso principale della casa immetteva su un atrio che dava accesso al salotto a destra e a sinistra alla sala. Vi era poi il disimpegno da cui si accedeva alla stanza da pranzo, a una cameretta, alla dispensa, a un cortile sul retro e alle scale per il piano superiore dove c’erano quattro ampie camere da letto, uno studiolo, il bagno e il solaio. L’ingresso secondario si praticava attraverso un bel loggiato che conduceva a una grande stanza dove c’erano un enorme camino e il forno a legna e poi alla stanza da pranzo, con la cucina anch’essa a legna, e al cucinotto.
La casa era sempre in fermento, dall’alba al tramonto, e non solo.
Una volta alla settimana si faceva il pane: ci si svegliava prestissimo, - fuori il buio, era notte fonda! - per poter lavorare debitamente l’impasto che poi veniva infornato a metà mattina diffondendo per tutta la casa, mentre cuoceva, l’inconfondibile odore di buono. Buono come il pane! Il coccoi veniva lavorato e decorato con perizia dalla madre di mamma che ne avrebbe conservato il ricordo per tutta la vita. Il ricordo di sua madre intenta in questa delicata operazione con una sorta di temperino e il ricordo del profumo del pane nel forno.
Quando c’era la vendemmia e si faceva il vino era una festa per tutti così come quando veniva ucciso il maiale.
Anche gli zii di Cs. si recavano a S. e tutti partecipavano all’evento, come si usava fare, pure i bambini. Mamma, sua sorella e suo fratello si divertivano a raccogliere le unghie del maiale e a utilizzarle come moneta nei loro scambi e giochi.
All'epoca ci si divertiva davvero con poco.
Zio Giulio, il piccolo dei Fabbris, raccontava ai suoi tre nipotini, cui era molto affezionato, che quando aveva quattro, cinque anni chiedeva al fratello maggiore Narciso, il loro padre, perché lui fosse nato per ultimo e Narciso allora, lo faceva gareggiare con lui correndo. Giulio, piccolino, arrivava sempre per ultimo: in questo modo il fratello maggiore rispondeva al quesito del suo fratellino.
Che la casa della famiglia di mamma fosse di pietra era indicativo di un certo benessere e di un elevato ceto sociale.
Le casette delle viuzze del centro del paese erano soprattutto di mattoni di “ladriri”, un impasto di argilla rossa e letame, al giorno d’oggi considerato “ecologico” e amico dell’ambiente. Allora erano di ladriri le case dei poveri, piccole abitazioni più che modeste dove vivevano famiglie numerose e che sono sparite al giorno d’oggi mentre la grande casa di pietra è sempre bella e imponente.
I genitori di mamma erano severissimi con le figlie, un po’ meno col loro figlio maschio.
Una volta, erano tutti vicino al camino, quella volta mia madre aveva esclamato: “Sapete cosa sono gli ormoni?!” e, slash, si era beccata un inaspettato potente ceffone dal padre senza sapere e capire perché e per come…
Lei voleva fare solo la battuta: “Sono le orme dei piedoni!”.
Ma, come avrebbe scoperto in seguito, “ormoni” era una parola proibita.
Sua madre poi forse sapeva essere ancora più severa.
Le facevano usare una crema per eliminare le efelidi sul suo viso chiaro perché la sua pelle potesse essere senza difetto alcuno, così pensavano. Ma era una pelle bellissima anche con le efelidi, ora considerate simpatiche, giovani e spiritose.
Dopo le elementari, mamma e zia, furono mandate in collegio a C.. Vi trascorrevano quasi tutto l’anno e vedevano i genitori solo raramente. Ne avrebbero sofferto. Erano bambine, ancora bisognose di sentire il loro affetto e la loro vicinanza.
In collegio non stavano bene. Il cibo era scadente e perfino scarso, non c’era il riscaldamento e non sempre c’era l’acqua calda per lavarsi. Eppure i genitori credevano di offrire loro il meglio perché potessero avere un futuro.
Erano molto affezionate anche allo zio. Era “zio” e basta. Gli altri erano “zio Nino” o “zio Tommaso”.
“Zio” era lui. Il fratello della loro madre. Alto, bello, raffinato.
Aveva iniziato gli studi universitari alla facoltà di medicina dell’Università di C., come risulta anche dall’annuario pubblicato negli scorsi anni on line, in cui è menzionato appunto Emilio P. C., coi cognomi di suo padre e sua madre. Si era però laureato a Pavia, specializzandosi in tisiologia. Era poi diventato vice direttore del Sanatorio dell’Abetina, a Sondalo, in Valtellina.
Nell’annuario dell’Università di Pavia lo si può ancora trovare nell’elenco dei laureati in medicina del millenovecentotrentasei con una tesi in tisiologia appunto.
Aveva fatto la guerra ed era stato partigiano, con un nome in codice, anche lui e poi era tornato nel suo paese, forse a seguito della fine di un amore impossibile.
Allevava vacche di qualità, per la carne, e ogni tanto, nel periodo della transumanza, passavano le sue mandrie per il paese.
Non si sarebbe mai sposato e sarebbe rimasto “zio” per i suoi amati e affezionati nipoti e pronipoti.
Una vecchia foto in bianco e nero, diffusa anche su Facebook, lo mostra bambino, seduto su una sedia e affiancato da due domestiche in piedi e da altri bambini.
All’epoca non era comune studiare e tantomeno specializzarsi in Continente eppure i suoi genitori vollero consegnargli un futuro diverso da quello di contadino anche se possidente, forse per allontanarlo da una giovane innamorata che non era gradita ai familiari.
Frequentò le scuole medie e il liceo classico a C..
Poi intraprese gli studi in Medicina a C. e dopo, come detto, si trasferì a Pavia.
Visse in un palazzo in via Sant’Agostino, una via del centro storico, proprio dietro Piazza Vittoria.
È una piccola via che parla di tempi lontani e sussurra voci di genti del passato.
Secoli addietro vi si trovava anche la locanda “Il Falcone” giudicata pessima dal filosofo Montaigne che vi si era fermato per la notte il venticinque ottobre millecinquecentoventuno.
Ci sono ancora locali dell’Università da un lato della strada.
Il sole arriva ai piani superiori dei palazzi e si ammirano scorci di cielo, guardando verso l’alto. La pavimentazione della strada è ancora con lastricato e, soprattutto, acciottolato, i ciottoli del fiume, a Pavia così comuni da essere utilizzati in passato anche per edificare i muri alternandoli ai mattoni. Alcuni palazzi sono stati ristrutturati ma erano lì anche durante il soggiorno di zio.
Come doveva essere la piccola città in quegli anni...
Le fitte nebbie autunnali e le nevicate d’inverno. L’acqua del Ticino assai più pulita di adesso. Le chiese che ci sono ora e che c’erano allora così come gli edifici dell’Università, del Comune e altri edifici storici. C’era sicuramente il vecchio ponte romano sul Ticino, prima che venisse distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e poi ricostruito come lo si può ammirare oggi. Il castello visconteo venne restaurato tra gli anni venti e trenta, quindi magari zio lo vide con le impalcature per i lavori in corso o già rimesso a nuovo. Non c’era la statua della Minerva che risale al periodo fascista ma c’era la Torre civica vicino al Duomo che è crollata il diciassette marzo millenovecentoottantanove.
Quale doveva essere il fermento degli studenti in una università antica e prestigiosa, più o meno lontani da casa.
Chissà come era arrivato zio a Pavia. Aveva preso la nave e poi il treno da Genova molto probabilmente o forse era arrivato direttamente da Roma.
Aveva circa diciotto anni. Un ragazzo bello, curato, con i capelli lunghi pettinati all’indietro, forse con la gelatina, lo immagino così. Penso a un bagaglio leggero e a un cuore pieno di entusiasmo e speranza. Forse, lasciando gli scampoli della lunga estate sarda, era arrivato in autunno inoltrato, le foglie gialle e rosse sui marciapiedi, ammesso che ci fossero, la nebbia, il freddo.
Avrà raggiunto, forse in calesse, o a piedi chissà, il suo appartamento in via Sant’Agostino.
Allora si stava a pensione in appartamenti privati; magari una anziana vedova o una attempata signorina faceva la spesa e cucinava per lui, faceva il bucato e si prendeva cura del suo abbigliamento. Zio studiava e sosteneva esami e sicuramente socializzava coi colleghi.
Chissà se tornava spesso a S., se sentiva la nostalgia della famiglia e della sua terra. Certo che doveva sentire la mancanza di casa ma allora non c’erano i collegamenti che ci sono ora e di sicuro non poteva tornare troppo di frequente.
Durante uno dei suoi rientri a S., esibì un elegante bastone da passeggio con aria un po’ dandy, immagino. Ma suo padre, il mio bisnonno, non approvò la novità portata dal Continente e gli fece abbandonare immediatamente l’uso del bastone da passeggio.
In Valtellina lavorava a fianco del suo amico medico, dottor Zorzoli che, tanti anni dopo, avrei conosciuto anche io.
Era il millenovecentoottantadue, circa, mia madre aspettava mio fratello che sarebbe nato di lì a poco. Io ero stata super felice della visita degli amici di zio. In quel periodo ero spesso di malumore: mi vedevo brutta, bruttissima e piangevo pressoché tutte le notti. All’inizio davo la colpa al mio naso che trovavo orribile, poi a tutto il viso, specie di profilo.
Ebbene il dottor Zorzoli mi aveva trovato somigliantissima a una sua nipote che viveva a Roma: disse che ero spiccicata a lei nei modi e nell’aspetto. Ed io ne ero stata felicissima! Lo scrissi nel mio diario e scrissi anche che sarei voluta andare a Roma a conoscere la mia “copia”.
Conserviamo una foto di quel giorno. Nel giardino dei nonni, davanti alla porta dell’ingresso principale. Zio tutto sorridente accanto a un albero di pere e vicino a mamma incinta. Babbo. I miei nonni materni. Zio Guido e zia Lucia. Zio Alberto e zia Maria. I due fratelli Zorzoli con le loro rispettive mogli naturalmente, una delle quali è “Signora Silvia”, la madrina albanese di mia madre, scampata allo schifo e all’orrore del regime comunista nel suo paese. E davanti le mie sorelle, io. E i miei cuginetti Giulio e Rinaldo. Tutti piccini. Anche io in fondo ero poco più che una bambina: indossavo una gonna blu plissettata e una maglia gialla e bianca nuove di zecca che mi piacevano un sacco.
Mentre era in Valtellina, stando ai racconti vaghi dei nipoti, zio visse una intensa storia d’amore. Mio zio prete, qualche anno fa, mentre mia sorella Milva ed io eravamo in visita a Parigi, dove lui viveva, ci disse che zio conservava un orologio a ricordo della donna che, ricambiato, aveva amato. Non ci raccontò granché di più.
Io non so romanzare. Sarebbe magnifico se ci riuscissi. Immaginare e descrivere in queste pagine un giovane uomo, bello, bellissimo, e una giovane donna, bella, bellissima. Il loro primo incontro, le loro emozioni, i loro baci e le loro trepidazioni. In un periodo difficile, gli anni della seconda guerra mondiale. Se ci riuscissi, descriverei i luoghi di quell’amore. La Valtellina che immagino incontaminata, i suoi boschi, le montagne a far da cornice, luoghi che ho visitato qualche anno fa, quando mi sono recata a Morbegno, e che avevo potuto ammirare rapita. I corsi d’acqua a valle, nel paese, i boschi non troppo lontani e le vette innevate. L’aria frizzante e pulita. Sicuramente per zio erano paesaggi assai diversi dalla pianura del Campidano dove era cresciuto. Sicuramente erano luoghi magici, come immagino siano magici per tutti i luoghi della gioventù e dell’amore.
Se ci riuscissi, descriverei una clinica d’avanguardia, per l’epoca. Una clinica in cui si curava un male che allora faceva paura. Un sanatorio.
Immagino le sedie a stradio nei loggiati e nei giardini, in cui far prendere il sole e respirare aria buona ai malati di tisi. Ho visto queste immagini nei film, le ho viste nella mia testa leggendo altri libri, libri di scrittori veri che sanno scrivere romanzi come si deve.
Il rimedio contro la tisi allora si basava sul riposo, la nutrizione e l’aria pura, e su quelle che sono chiamate “le tre l”: lana, letto, latte. Fino a quando gli antibiotici non furono efficaci contro l’infezione, il sanatorio infatti fu il principale strumento di cura.
Dell’epoca in Valtellina sono arrivate anche alcune foto che ritraggono zio in montagna, coi suoi amici, tutti coi pantaloni alla zuava secondo la moda del tempo, foto che io ho potuto vedere qualche anno fa a una esposizione a Casa Pilloni.
Il sanatorio dell’Abetina era all’epoca destinato a pazienti donne, abbienti e facoltose.
Una di queste giovani si era innamorata di zio e gli fece dono di un anello con una grossa pietra che zio accettò pensando che la pietra fosse un grosso e vistoso “culo di bottiglia”. Quando poi ebbe modo di recarsi in una gioielleria a M., fece esaminare la pietra e gli dissero che si trattava di un brillante di enorme valore. Zio allora restituì l’anello alla giovane paziente togliendole così ogni illusione e ogni sogno d’amore con lui.
Come già detto, io non riesco a romanzare, mi sono inaridita.
Non che sia sempre stata così. Da ragazza scrivevo pagine e pagine, nei compiti a scuola. Per il primo tema di italiano al ginnasio presi un sei perché era troppo lungo e la professoressa era andata a parlarne anche agli alunni della quinta ginnasio. Mah!
Fatto sta che non so affabulare e quindi anche la storia dell’amore di zio, i suoi luoghi, i suoi discorsi, restano nella penna, anche se non uso una penna per scrivere ma la tastiera di un portatile. E resta un orologio che immagino sia conservato da zia Pipina.
O forse no, forse zio non aveva vissuto una intensa storia d’amore, no.
Forse zio, stando ad un’altra voce, credo più fondata, aveva piuttosto evitato di vivere una storia d’amore, una storia d’amore impossibile, l’amore di una donna che non poteva essere sua.
Infatti, si fece recapitare una lettera scritta da sua sorella, mia nonna, il cui contenuto aveva definito lui stesso e in cui veniva comunicata la necessità che lui tornasse in Sardegna senza indugio. E così fu!
Quindi, dopo gli anni tra i partigiani, in cui non arrivavano sue notizie in famiglia, e dopo l’esperienza in Valtellina, zio tornò a S..
Deve aver spezzato così tanti cuori! Mia mamma e mia zia Lucia guardavano le tante cartoline che continuavano ad arrivare per lui dal Nord e fantasticavano su Zio e sul suo perduto amore.
Era un medico ed era un signore. A casa sua, per fare da governante, andò una delle sue nipoti, zia Pipina appunto.
Tanti anni dopo, i ragazzi più giovani che non conoscevano storie e famiglie credevano che Pipina fosse la moglie di zio, visto che viveva a casa sua.
La ricordo sempre seduta sul bracciolo di una poltrona vicino a zio, quando andavamo a trovarlo. Non si sedeva mai diversamente.
Zio era benvoluto in genere ma aveva pure i suoi detrattori.
Fu anche sindaco di S. e, come sempre, quando si entra in politica, sovente ci si crea dei nemici, non solo degli avversari.
Viale dei Platani nacque in quegli anni.
Zio non faceva solo il medico. Allevava anche le vacche per la carne. Ricordo quando la mandria attraversava le vie del paese, quando ero bambina. Era una tale emozione! Così come vedere i vitellini appena nati nel cortile di nonna, dove oggi sorge la nostra casa o nel cortile di Casa Pilloni.
Zio era bello anche in tenuta da campagna, portava sempre il cappello ed era elegantissimo anche a cavallo. Mi piaceva, e lo ricordo, il suo modo di sbottonare la giacca quando si sedeva su una sedia o una poltrona, e di riabbottonarla quando si alzava.
Una volta ci aveva visto raschiare muschio da un muretto a casa di nonna per il nostro Presepe e allora lui andò in campagna e ci portò il muschio lussureggiante con le felci che allora si poteva ancora prendere liberamente.
Una volta ci portò un riccio che dapprima si nascose tra i nostri giochi e poi restò a vivere in giardino.
Un’altra volta ci trovò truccate con fard, ombretto e rossetto, visto che avevamo ricevuto in dono dei cosmetici per bambine e ci disse che eravamo bellissime!
Ricordo che preparavamo anche il caffè con la moka per lui e lui apprezzava sempre. Chissà se era buono davvero quel caffè...
Viaggiò in Africa e negli Stati Uniti.
Fu mio padrino di battesimo insieme a nonna Lina.
Aveva tanti figliocci, era ricercatissimo come padrino. Ma, nel mio caso, nel caso della primogenita di sua nipote Maria Cristina, era stato davvero importante che lui fosse vicino a mamma.
Una volta era venuto a trovarci alla colonia estiva delle suore a Costa Verde dove andavamo da bambine. Era venuto insieme al parroco. Il mare era mosso e ricordo che noi bambine non avevamo potuto fare il bagno. Solo gli adulti. Ci portò una scatola di dolcetti che mangiammo la sera.
Conserviamo le foto del matrimonio di zia Lucia, delle nostre Prime Comunioni e zio era sempre con noi.
Gli scrissi una cartolina da Firenze dove andai in gita in terza media. Gli portai due bottiglie artigianali rivestite di cuoio con due bicchierini appesi al collo della bottiglia. Lui me ne restituì una dicendo che era troppo. Ora quella bottiglia è nella cristalliera in tinello, non con i bicchierini originali che andarono in pezzi ma con due sostituti procurati da nonna Lina.
Mi aveva dato dei soldini prima della partenza, come si usava fare. Li aveva dati anche a un’altra nipote, mia cugina Lilia e lei gli portò una maschera di legno mi pare.
Zio aveva sempre buoni consigli per mamma e noi, e non solo come dottore di casa.
Mia cugina Lilia, non ricordo bene se alle elementari o alle medie, scrisse dei biglietti a una comune compagna di scuola in cui diceva che mia madre era gelosa di sua zia Ciccia perché lei si era laureata e mia madre no e che io, quando zio veniva a casa, stavo ad origliare… Questa compagna poi aveva dato i biglietti a me ed io li avevo fatti vedere a mamma che li aveva fatti vedere a zio. Lasciarono perdere senza dare risalto a pettegolezzi e screzi tra bambine. Anche se io c’ero rimasta molto male.
Alle elementari avevo anche litigato con questa cugina e questa compagna perché mi avevano preso il quaderno delle poesie che scrivevo e l’avevano fatto vedere alla maestra. Mi chiamarono “spastica” ed io chiamai mia cugina “scimmia che mangia banane”.
Avevo in testa l’idea di fare la scrittrice già da allora.
In quinta elementare scrivevo racconti e progettavo un libro con la mia compagna Renzina. Alle medie con l’amica con cui avevo litigato alle elementari e con cui avrei continuato a litigare a giorni alterni anche alle medie. Nei giorni in cui non litigavamo ci ammazzavamo di risate. Scrivemmo racconti che si sarebbero alternati con le mie poesie. Spedimmo il manoscritto (scritto dalla mia compagna perché la mia grafia era considerata poco leggibile) alle Paoline di C.. Io scrissi la lettera di accompagnamento spiegando come avremmo voluto il nostro libro.
Ci spedirono un biglietto e ci invitarono ad andare da loro.
Ne parlarono anche col vice parroco che si era recato nella libreria di C. e che era nostro professore di religione: il prof ci riferì di questo colloquio durante l’ora di lezione e così tutti vennero a sapere del nostro libro.
La mamma della mia compagna venne a casa a mostrare a mia madre il biglietto che ci era stato spedito. Babbo e mamma poi mi portarono a C. ma non successe niente: ci dissero che il manoscritto sarebbe stato inviato alla loro sede non so dove.
Poi ci riferirono che il libro non sarebbe stato pubblicato “per la brevità dei racconti”.
Al rientro in macchina ricordo che babbo disse che “era tutta una mafia” anche se io non capii bene cosa volesse dire. Ricordo che scrissi nel mio diario che anche le favole di Esopo erano brevi…
Fatto sta che sperimentai sin da ragazzina le difficoltà del mondo dell’editoria. E che ancora non sono diventata una scrittrice.
Infatti ho perso il filo.
Si parlava di zio.
Ho impresso nella mente che, quando venne a mancare nonno Narciso, dopo il funerale, lui rientrò a casa dal cimitero con me e le mie sorelle, a piedi.
Si ammalò di tumore al cervello. Non lo vidi all’ospedale e non volli vederlo nella bara, il giorno dei suoi funerali. Eravamo in casa sua e c’era anche la cugina che mi aveva definito “spastica”.
Conservo quindi solo bei ricordi di zio.
Mia mamma dice che l'ultima volta che ha visto Zio in ospedale, lui le ha detto: "Ricordami alle bambine!”.
Nonna Erminia stravedeva per lui e mio nonno non ne era geloso solo perché erano fratello e sorella. A nonna piaceva cucinare per lui e i suoi amici importanti e aveva sempre un occhio di riguardo. Naturalmente zio le era stato vicino anche quando lei, anziana, soffriva per dolori terribili alla schiena e le somministrava la morfina.
*****
Io sono la primogenita di casa.
Nacqui all’Ospedale Civile di C. ma trascorsi il mio primo anno di vita a casa dei genitori di mio padre.
Il giorno in un cui sono nata nevicava, evento eccezionale per la nostra zona, e la mia nonna paterna aveva dovuto aspettare al gelo che la facessero entrare in visita.
Fui accolta col sorriso dei medici, visto che, inizialmente in una cattiva posizione, alla fine avevo fatto una giravolta ed ero arrivata scivolando in mano al dottore.
I medici sorridevano e mia madre soffriva.
So che uscii dall’ospedale in braccio alla mia nonna materna e che zio era stato vicino a mamma.
Piangevo spesso e mia madre con me. Conservo piccole foto in bianco e nero di quando avevo circa un mese, in camera dei miei, capelli irti e copertina.
Le foto del mio primo compleanno sono a colori, nel salottino verde di casa dei nonni paterni: il mio babbo, la mia mamma ed io. E la torta, di pasticceria. Io ho gli occhi lucidi di pianto. Piangevo perché non volevo un fiocco in testa che mia madre si ostinava a mettermi ed io a togliere.
Eppure eravamo belli, i miei genitori ed io.
Dopo un anno circa di vita coniugale a casa dei nonni paterni, ci trasferimmo in un appartamento a C..
Il trasferimento in città fu una liberazione per mia madre.
Un giorno venne anche la mia nonna materna, di nascosto da nonno, ed io la portai subito a vedere “trice”, la lavatrice.
Mio padre lavorava lontano e tornava nei fine settimana.
Una di quelle volte lo accolsi gioiosa come sempre e, andandogli incontro, cinguettai: “Babbo, uomo to mamma tucina! Uomo to mamma tucina” e lui “Brava, Danielina! Sempre così!”.
L’uomo con mamma in cucina era il ragazzo venuto a cambiare la bombola del gas.
Io chiamavo me stessa “Ninina” e così mi chiamava anche zio, zio che trovava adorabili me e le mie sorelle. Noi eravamo affascinate da lui e quando andavamo a casa sua ci piaceva sentire il profumo della sua colonia in bagno, dove facevamo sempre una capatina.
Ci affascinava perché era proprio bello, sempre elegante anche quando era in tenuta da cowboy.
Ho visto, nella mia infanzia, vitellini appena nati, dolcissimi, nel cortile degli animali dei nonni, dove ora sorge la nostra casa. E mia madre ha sempre detto di aver visto vacche con le lacrime agli occhi.
Ciononostante continuo a mangiare la carne, anche di vitello.
“Mi piacevano i versi e la tagliola”, dice il poeta, Rocco Scotellaro, per dovere di precisione.
Mia madre trascorse un periodo sereno in città e anch’io, ma a mio padre non piaceva vivere in appartamento e si vedevano solo nei fine settimana.
In paese si era diffusa la voce che stessero per separarsi.
Decisero di tornare. Non a casa dei nonni paterni, però.
Andammo a vivere in una casa in affitto.
In quella casa nacquero la seconda e la terza delle mie sorelline.
Eravamo tre piccole bambole, belle e frignanti.
Belle, si vede dalle foto, frignanti lo si può immaginare.
Viveva non lontano la nostra zia che da piccole chiamavamo “Nannanna” e che così avremmo continuato a chiamare. E a lei piaceva essere chiamata con quell’allitterazione fanciullesca coniata apposta per lei.
Nannanna da giovane era stata “in Continente”, in Toscana.
E lì aveva imparato a cucire e confezionare abiti.
Quando rientrò in Sardegna, continuò ad esercitare la sua attività di modista. Era una signorinetta e amava vestirsi bene. Ho sentito vagamente di una storia d’amore e di un fidanzamento con un soldato in tempo di guerra, un soldato del Continente che poi si scoprì essere sposato.
Naturalmente le cugine bacchettone ebbero di che parlare e straparlare.
Come per la storia d’amore di zio, potrei immaginare il mio paese al tempo della guerra. Una signorina bella e peperuta e un giovane aitante venuto da lontano. Potrei immaginare una delle tante storie dell’epoca. Mia zia non me ne parlò mai.
Da anziana riceveva ancora proposte di matrimonio ma lei mi diceva che non avrebbe sposato dei vecchi per dovergli poi “pulire il sedere”.
Ricordo che metteva il rossetto quando noi eravamo piccole e lo faceva mettere anche a noi. Era ancora un peperino quando noi eravamo piccole, povera ma dignitosa, e non si era mai sposata. Andava molto fiera delle sue “cannacas”, quelle che vengono chiamate “collane di Venere”, perché le aveva anche sua madre, “mammai” (lei infatti parlava dei suoi genitori come “mammai” e “babbai”e a loro si era sempre rivolta con il “voi”, “fustei”).
Viveva in quella che era stata la casa dei suoi genitori e, ancora prima, dei suoi nonni, che erano anche i nonni materni di mia madre e quindi miei bisnonni.
Una casa molto antica dunque e che ora non c’è più. Ahimè, era stata demolita per edificare una casa più moderna di cui c’è ora solo il rustico abbandonato.
La casa era su un piano. Vi si accedeva da tre gradini che portavano al piccolo loggiato dove c’era un grosso otre in cui zia raccoglieva l’acqua. Ricordo anche un grande albero di oleandro coi fiori tra il rosa e l’arancio dal caratteristico profumo e che noi non potevamo toccare perché ritenuti velenosi.
C’era anche un leggiadro giardino dove Nannanna coltivava soprattutto le rose di cui andava molto orgogliosa. Coltivava anche capperi e camomilla.
Dal piccolo loggiato si accedeva sia alla sala che alla cucina dove c’era il camino. In cucina il pavimento era di pietra e leggermente irregolare. C’era la radio che zia teneva spesso accesa. Non aveva il televisore. C’erano anche la sua Singer e scampoli di stoffa dei più svariati tipi. Spesso cuciva vestitini anche per le nostre bambole.
Anche dalla cucina si accedeva alla sala. Tra i vari soprammobili io ero particolarmente affezionata a tre porcellini di porcellana, madre, padre e figlioletto e dicevo che eravamo babbo, mamma ed io.
La sala, salendo un gradino che a me sembrava altissimo, immetteva in una camera da letto con un letto alla francese e un comò, e che dava quindi accesso alla camera da letto di zia e da un'altra porta a un locale di transito da cui si accedeva al solaio e all’ingresso sul retro, dove c’era un grande albero di limoni e dove poi era stato ricavato un piccolo bagno.
Nel locale sul retro c’era appeso un quadro del babbo di zia: mi affascinava quel quadro. Il ritratto mi faceva ricordare Poldark, protagonista di uno sceneggiato che guardavamo quando ero bambina.
Da bambine ci piaceva tanto stare a casa di Nannanna ed essere invitate a pranzo da lei. Il menù ci appariva golosissimo. Ci preparava i cellentani col sugo al pomodoro, poi le polpette “con tutti i sapori” e per dolce le sue speciali frittelline di ricotta. A chi chiedeva quale fosse il suo segreto, diceva che erano così buone perché le friggeva in “ollu ‘e procu”, letteralmente in “olio di maiale”, vale a dire nello strutto.
Ci piaceva indossare le sue vestaglie colorate e le sue scarpe coi tacchi e provare i suoi rossetti. Ci sentivamo delle regine tutte agghindate.
Ci raccontava tante storielle che noi le facevamo ripetere più e più volte, magari sedute su barattoli rovesciati vicino al fuoco del suo piccolo camino, e quando siamo cresciute, ragazze già all’Università, ci raccontava gli aneddoti della nostra infanzia. Era la mia madrina di Cresima, ci teneva tanto e non sarebbe contenta ora di sapermi non maritata. “Ma sei superba?!”, mi chiederebbe. L’equivalente di “Te la tiri?!”.
Era tutta un’effusione con noi nipoti, sbaciucchiamenti, abbracci, palpate al sedere che lei avrebbe continuato a dispensare anche quando, cresciute, manifestavamo di non apprezzare più.
Ci raccontava la storia di Robertina che era finita all’inferno e che la zia andava coraggiosamente a riprendersi; la storia di un gatto goloso che mangiava il lardo, la storia dei tre gobbetti e altre storie che sentiva alla radio o che inventava.
Quando ero proprio piccina, mi piacevano particolarmente le sue scarpe, un paio mi avevano incantato: “E quanto le hai pagate?” “Cento lire” ed io “Cento lirrre ma… belle!” e così è rimasto l’aneddoto in famiglia raccontato da lei e ripetuto da noi per indicare le cose costose ma belle appunto, di qualità.
Cento lirrre ma… belle!
E da quando, in occasione dei fuochi di artificio per Santa Barbara, mi avevano detto: “Senti? Santa Barbara!”, io, ogni volta che sentivo i botti, esclamavo: “Tenti? Tanta Baba!”.
All’occasione, piccola com’ero, meno di tre anni, ero capace anche di essere decisamente perfida. Mi piaceva uscire con Nannanna e piaceva anche alla seconda delle mie sorelle. Ed io allora, streghetta, ricorrevo alla tattica dell’induzione dei sensi di colpa: “Allora lasci mamma sola sola…?! Lasci mamma sola sola…?!”. Al che, mia sorella, alla fine replicava: “E allora sto con mamma mia!”.
Zia mi aveva insegnato anche a dire che lei era “bella tome una rosa” e zio “brutto tome ciofo”, lui che era un uomo bellissimo e un signore!
Ricordo che una volta la vidi nel suo loggiato seduta vicino ad una zingara. Per noi le zingare erano persone pericolose che rapiscono i bambini… ma mia zia era piuttosto stravagante e non le importava di quello che dicevano gli altri, come credo non gliene fosse mai importato.
Nannanna è vissuta in povertà per lasciare tutto a chi l’avrebbe assistita nella vecchiaia… E infatti la nipote che le prestò le ultime cure non ci consentì nemmeno di entrare nella sua stanza a trovarla quando era malata… Aveva settant’anni quando morì.
Povera zia stupidona! (Con affetto)
Ho un ricordo che non ero nemmeno sicura fosse davvero un ricordo o piuttosto un sogno, ambientato nel cortile di quella che era diventata la nostra casa, vicina alla casa di Nannanna. Io che corro verso il cancello perché volevo andare via e mia madre che mi raggiunge e mi molla un sonoro e potente ceffone.
Solo da adulta, ho avuto conferma del fatto che era un ricordo di bambina, anche se mia madre ha poi asserito che non si era trattato di uno schiaffone ma uno schiaffetto.
*****
Nel giardino della casa che era dei miei nonni materni, in via Sardegna, il punteruolo rosso ha ucciso due bellissime palme ma altre due ancora resistono. Perché sono palme da dattero, più difficili da attaccare. E sono così belle! Una in particolare con la chioma tonda tonda che si staglia contro l’azzurro del cielo di Sardegna.
Nella villetta di fronte alla casa dei miei nonni, dove dapprima vivevamo in affitto e che poi i miei genitori acquistarono, arrivò la quarta delle mie sorelline, una vera bambolina, riccioli d’oro e occhi azzurri. Diversissima da me. Ci separano quattro anni.
Per le faccende di casa, venivano in aiuto di mia madre delle giovani domestiche. Una in particolare, di quelle che ho conosciuto io, Luciana, ci è ancora affezionata; all’epoca era giovanissima. Ci raccontava storie molto spaventose su ragazze morte che tornavano come fantasmi. Oggi vive in Germania e non è più tanto giovane, come non lo sono io del resto.
Un’altra, Luisanna, era una aiutante già a casa di mia nonna Erminia e poi venne da noi, dopo varie esperienze nel Nord Italia, specie a B. È ora una amica di famiglia, che ha conservato il sorriso e il buon spirito anche nelle avversità della vita.
Anche Luce era stata a casa nostra giovanissima e poi tempo dopo quando io ero già preadolescente. Vive in paese e non è diventata madre come desiderava.
Le mie sorelline ed io giocavamo, mai stanche, sia nel cortile della nostra casa sia a casa dei nonni. Giochi dei tempi andati… Cucinavamo con foglie e fiori, facevamo la spesa utilizzando sassolini come soldi, dormivamo e avevamo le nostre case sotto gli alberi di susine o sotto il fico.
Facciamo finta che…
E ci piaceva in particolar modo andare a cercare le uova tra la paglia delle mangiatoie delle vacche, che le galline trovavano evidentemente molto comode e rilassanti.
Nei fine settimana andavamo a trovare i nonni paterni e giocavamo coi nostri cugini, tutti insieme appassionatamente, scombinando l’ordine di nonna in cortile.
La casa dei nonni paterni non aveva un giardino, solo un cortile pavimentato col cemento e un piccolissimo appezzamento di terra incolta sul retro.
Si accedeva a una sorta di terrazza con quattro, cinque gradini su cui si affacciavano tre porte, la porta della cucina, quella della sala e quella di una camera da letto che divenne la camera di nonno Santino, il padre di mio nonno, il mio bisnonno.
La cucina era piuttosto piccola, c’era il camino, e una credenza colorata di bianco e azzurro anni settanta forse. Era collegata a un disimpegno dove c’erano le scale per il piano di sopra. Le scale erano di legno, ripidissime; le mie sorelle ed io, una volta salite, poi scendevamo sedute strisciando col sedere sui gradini. Nel piano di sopra c’erano le camere da letto, anche il pavimento era di legno, e camminando si faceva rumore.
Dalla sala si accedeva con due gradini a una camera da letto sul retro che era quella in cui, per un anno avevamo dormito mio padre, mia madre ed io e che poi divenne la camera dei nonni.
Nella sala – salotto c’era il divanetto verde che è lo stesso delle foto del mio primo compleanno.
Oggi che di figli se ne fanno pochi o niente (niente nel mio caso), immagino che fosse una battaglia per mia madre anche solo vestirci per uscire. Infatti una volta, dopo essere stati a casa di zio, arrivati a casa dei nonni paterni, mia nonna sbottò: “Ma Danielledda è chenz’e mudandasa!!!”. Ero senza mutande. In compenso la seconda delle mie sorelle ne aveva due paia!
Qualcosa di simile mi è capitato tanti anni dopo, negli anni dell’Università a C., mentre ero dall’oculista. Non in tema di mutande, fortunatamente… credo.
Ero in una stanza al buio insieme agli altri pazienti in attesa e dovevamo stare con gli occhi chiusi. Ad un certo punto passò l’infermiera per metterci le gocce di atropina. Mentre stava allontanandosi, il ragazzo dopo di me sbottò dicendo che a lui non le aveva messe. A me le aveva messe due volte… Fui la prima ad essere visitata.
Era vicina a mia mamma, per quanto poteva, anche Giulia, la sua amatissima e affezionatissima tata.
Una donnina piccina e dolce ma di grande tempra. L’unica che le era stata accanto anche quando era venuto meno il sostegno dei genitori. Se non ricordo male, era presente anche il giorno del matrimonio, in chiesa, ma non nelle foto.
Siccome io ero una bambina piagnona mi implorava di succhiarmi il dito “aicci ti faidi paxiosa!”, qualcosa tipo “così ti rende pacifica!”, “così ti rilassa!”, ma io non ne volevo sapere.
Oltre che succhiare il seno di mia madre, mi piaceva il succo d’arancia e, più in là, il cioccolato, l’unico “bobò”, dolcetto, che esistesse per me. Ma mi piacevano anche le cipolline sottaceto di nonno Narciso.
Ero magra da bambina e da ragazzina. Da piccola, su suggerimento delle zie, pregavo: “Gesù, fammi diventare gassa gassa!”.
Mi portarono anche a farmi visitare ma sono tempi andati. Ora quel problema è decisamente superato: preghiere esaudite! Ahimè.
Quando è nata la seconda delle mie sorelle, ero gelosissima. Mi irrigidivo tutta e mia nonna paterna mi portava via nuda, involta in una coperta, dopo il bagnetto. Dicevo che mia sorella era brutta: “Butta Bella! Butta Bella!” ma c’era chi non capiva e pensava stessi asserendo il contrario. E naturalmente volevo continuare a succhiare il seno di mia madre. Così eravamo in due ad essere allattate!
Durante il periodo a C., mi aveva preso in simpatia una vecchia insegnante di mia madre. Era considerata una signora burbera e scostante ma con me si addolciva e aveva la pazienza di darmi da mangiare un piccolo panino briciola dopo briciola.
A C. mi piaceva anche andare per negozi.
Una giorno alla Upim, mia madre racconta che avevo fatto incetta di quello che era alla mia portata e lei aveva dovuto rimettere tutto a posto. Alla fine mi aveva lasciato solo un pacchetto di caramelle.
Ero una chiacchierona all’epoca e una volta, nel bus di città, parlavo e parlavo a raffica e una signora si era girata e poi rigirata e poi rigirata ancora verso mia madre chiedendo: “Ma è quel cosino che parla così?!”.
Un giorno, quando eravamo tornati a vivere in paese, mentre ero in giro con mia madre, sbottai: “Mammina, quando mi crescono i baffi?!” e mia madre: “Sei una femminuccia, non ti crescono i baffi”; al che io replicai: “E allora perché quella signora ce li ha?!”. Ci sarebbe da pensare ma non credo al contrappasso in vita…
Non mi piacevano i contatti fisici e le effusioni delle persone estranee e, già da piccolissima, se qualche signora espansiva si avvicinava e mi toccava dicendo: “Ta bella”, “Che bella”, io mi scostavo esclamando “Ascia sciare! Fama!” e la signora di turno chiedeva a mia madre cosa stesse dicendo la bella bambina e lei replicava “Non so. Non capisco…”.
In realtà lei capiva benissimo ma non poteva tradurre il mio “Lascia stare! Scema!”.
Quando eravamo grandette le mie tre sorelle ed io (grandette ma ancora bambine), dopo la Messa domenicale andavamo a trovare Giulia nella sua casetta e ci piaceva scroccare il suo brodo di pollo della domenica bagnandoci sottili fettine di “coccoi”, il pane speciale di pasta dura che viene fatto in Sardegna. Per noi era una goduria! E Giulia era così contenta che andassimo a trovarla!
La casa di Giulia, situata nella via che portava e porta a Casa Pilloni, era piccola, tutta su un piano. Attraverso un vialetto costeggiato di fiori e piante si accedeva a un fresco loggiato con tanti fiori in vaso. Sul lato destro c’era una porta che conduceva a una sorta di legnaia e al piccolo servizio. A sinistra si accedeva alla cucina col camino. Giulia usava anche il braciere d’inverno e una volta la seconda delle mie sorelle si bruciò una gamba cadendovi dentro.
Dal loggiato si accedeva a una stanza di passaggio che poi conduceva alla camera da letto con la finestrella che dava sul retro della chiesetta di Sant’Anastasia. Se non ricordo male c’erano anche delle scale per una soffitta dove non sono mai stata.
Giulia è vissuta a lungo, fino a vedermi laureata e fino a sapermi “prusu attesu de Londra”, più lontano di Londra, città per lei lontanissima. Gli ultimi anni li trascorse purtroppo in una casa per anziani. Quando andavamo a trovarla era super felice di vederci e non solo lei, anche le altre ospiti aspettavano le visite avidamente.
Ha voluto tanto bene a mamma, babbo e noi e ne ho un dolcissimo ricordo. Cara Giulia!
Le mie due nonne erano diversissime tra loro.
La nonna paterna, nonna Lina, si era sposata giovanissima, a diciassette anni, in tempo di guerra e amava raccontarci del giorno del suo matrimonio.
La nonna materna, nonna Erminia, bellissima, si era sposata dopo i trent’anni: era schiva e di rado, anzi mai, si lasciava andare alle confidenze e ai racconti del suo passato con noi.
Nonna Lina, era originaria di S. G. M. e, il giorno delle nozze, aveva fatto il viaggio dal suo paese al nostro in un carro trainato da cavalli immagino.
Aveva un vestito fatto con stoffa avuta “a sa martininca”, espressione utilizzata per indicare il mercato nero e di cui non conosco l’origine visto che “martininca” in sardo significa “scimmia”. L’abito, se non ricordo male, si era anche strappato ma l’avevano rammendato velocemente e lei era tutta felice.
Mio nonno era suo cugino ed avevano avuto una dispensa speciale per il matrimonio.
Saranno coincidenze, ma i nonni materni erano anch’essi cugini allo stesso modo ma a loro non fu richiesta alcuna dispensa speciale.
Ricordo che nonna Erminia era rimasta colpita dalla bella testa di capelli di quello che sarebbe diventato suo marito, il padre di mia madre, mio nonno.
Tanto nonna Lina era caciarona ed espansiva quanto nonna Erminia era riservata e chiusa.
Mio fratello è stato l’unico, per la mia esperienza, a suscitare una risata in nonna Erminia. Era un bambino e aveva raccontato una barzelletta che avevo sentito all’Università e che avevo ripetuto a casa: “Lo sai che hanno arrestato l’elettricista vicino a casa tua?! Vendeva prese per culo!!!”.
Una volta nonna Lina stava guardando uno sceneggiato alla televisione e la scena mostrava una donna titubante vicinissima al volto dell’uomo che amava, ma appunto titubante, incerta e nonna aveva sbottato: “E basaddu!”, “E bacialo!”.
Nonna Erminia guardava programmi seri e, sovente, a carattere religioso. Una volta, quando andavano a dormire da lei le mie sorelline Diana e Marina, era rimasta alzata con loro perché dovevano guardare un programma su Madonna, dopo cena. Peccato che lei si aspettasse un programma sulla Madre di Gesù e non sulla cantante pop.
Nonna Lina non disdegnava le espressioni colorite e spesso, quando qualcosa non andava per il verso giusto, concludeva una frase con un sentito “’Fancullu!” o con un altrettanto sentito “Mai’n sa vida!”.
Inoltre aveva fatto sua quella che era un’espressione di sua sorella, specie quando ci dedicavamo alle pulizie in grande: “Mellu mesu merda ca’ merda tottu!”, “Meglio merda a metà che merda interamente!”.
Filosofia di vita che certo non coincideva con quella di nonna Erminia che invece puntava sempre al meglio.
Ricordo che, quando ero alle elementari, ero fiera ed orgogliosa di avere i miei nonni. C’erano compagnetti che già li avevano perduti ma io ero felice di averli tutti e quattro ancora vicini.
Di nonna Lina ricordo le canzoncine e le filastrocche o i versi per vezzeggiare i più piccoli dei nipoti, nelle varie fasi della crescita: per esempio per far saltellare in grembo i bambini di qualche mese ritmava “Danna danna dinni di danna – danna danna dinni di do e sa mamma di coidi s’ou e su babbu di narat ca no e didinni dinni di danna e didinni dinni di do” (Danna danna dinni di danna – danna danna dinni di do e la mamma cuoce l’uovo e il babbo dice di no e didinni dinni di danna e didinni dinni di do).
Sia lei che Nannanna ci recitavano “Serra serra, pabas a terra, pabas a muru, muru su topi, tottu sa notti, tottu sa di, a pappai a ti a ti” (Serra serra, spalle a terra, spalle al muro, bianco il topo, tutta la notte, tutto il dì, ci mangiamo proprio te, proprio te), quando potevamo stare sulle loro ginocchia e, tenendoci le mani, ci facevano allungare con le spalle indietro fino alle nostre risate finali mentre simulavano di mangiarci la pancia.
Il divertimento era lo stesso della cantilena in italiano “Cavallino arrò arrò, prendi la biada che ti do, prendi i ferri che ti metto, per andare a San Francesco, a San Francesco c’è una via che va a casa mia, a casa mia c’è un frate che fa le frittate. Mi da una frittatina?! Butta via questa bambina!!!”, filastrocca antica richiamata anche ne “La donna di Gilles”.
Oppure ci facevano saltellare sulle ginocchia cantando: “A du duru duru a su tai tai, sa pippia nosta no si morgia mai, mellu chi si morgiada bacca cun vitellu ca’ su vitellu si du pappausu e sa pippia nosta da coiausu, cund’unu sinnoriccu arriccu e bellisceddu, chi potid muneda e chi potid dinai, a du duru duru a su tai tai” (A du duru duru a su tai tai, la bambina nostra non muoia mai, meglio che muoiano la vacca col vitello, ché il vitello ce lo mangiamo e la bambina nostra la maritiamo con un signorotto ricco e bellino che abbia moneta e che abbia denaro, a du duru duru a su tai tai!).
Ci insegnavano anche a contare le dita delle mano con “Custu est su procu, custu d’a mottu, custu d’adi arrustiu, custu si s’adi pappau e a pintiricheddu nudda nudda anti donau c’adi scoviau” (Questo è il maiale, questo lo ha ucciso, questo l’ha arrostito, questo se lo è mangiato e al piccoletto non hanno dato niente niente perché ha fatto la spia!), ora la ricordo così anche se forse la citazione non è proprio precisa.
Per pettinare i nostri lunghi capelli Nannanna recitava “Pettua pettua, co ‘e cabixetta, co ‘e caboru, a fai su piu bonu…” (Pettina pettina, coda di lucertola, coda di serpente, che renda i capelli docili…) e poi non la ricordo più.
Le mie due nonne amavano cucinare e cucinavano tanto tanto… per gli altri. Noi bambine apprezzavamo soprattutto le merende con uova e patate fritte, non tutti i giorni certo. Ma quando sono rimaste sole, per loro stesse non si preparavano di certo manicaretti e leccornie.
In questo, ho preso da entrambe. Vivo sola e spesso, quasi sempre, visto che il pranzo (se così lo si può definire) lo consumo fuori, nell’ora di pausa mentre sono al lavoro, la sera trovo ispirazione aprendo il frigo e improvvisando con una mozzarella o qualche fetta di pancetta arrotolata o due uova strapazzate o, quando proprio proprio mi va di cucinare, una fettina passata in padella o un piatto di pasta. Senza dimenticare i surgelati nel freezer, le creme liofilizzate di asparagi o carciofi e addirittura i pacchetti di patatine. Pret a manger!
Nonna Erminia se ne è andata dopo un ictus e un ricovero all’ospedale di S. G. da cui non si era ripresa. Io ero all’Università all’epoca ma ero in casa quando arrivò la telefonata dall’ospedale una mattina presto, mentre eravamo ancora a letto: risposi dal telefono sul mio comodino e dovetti comunicare la notizia triste ai miei.
Nonna Lina, dopo essersi fratturata un femore, era rimasta allettata per anni, pelle e ossa, sino al suo ultimo respiro. Io lavoravo al Nord.
Anche i miei nonni paterni erano fra loro diversissimi e, che io ricordi, non avevano rapporti reciproci.
Nonno Narciso, era originario di Cs. e apparteneva alla grande famiglia Fabbris de “Is Arrobettusus”.
A Cs. infatti, “Fabbris” è un cognome comune e ci sono diversi ceppi di famiglie “Fabbris”.
Per questo, i miei zii erano chiamati “Is Arobettusus”: “Quelli di Roberto”, “I discendenti di Roberto”.
Mio bisnonno era un uomo alto e forte, che amava ballare nelle feste di paese.
Trascorse un lungo periodo anche in Africa prima di sposarsi e accasarsi con Ignazia.
Ebbero nove figli, sei maschi e tre femmine, Narciso, Raimondo che tutti chiamavamo Nico, Tommaso, Francesco che tutti chiamavamo Chicchino, Michele che tutti chiamavano Michelino, Giulio, Teresa, Giuseppina che per tutti era Pina e Antonietta.
Li ho conosciuti tutti, tranne Antonietta che morì giovane e della cui esistenza e sorte sono venuta a conoscenza solo di recente. Ho infatti appreso che questa zia a me sconosciuta per tanti anni, venne cacciata di casa perché era rimasta incinta di un servitore. Cacciata di casa e, senz’altro con dolore, cancellata dalla vita e quasi dalla memoria dei familiari e dei parenti.
Di zia Pina e della violenza subita in guerra mi sono fatta raccontare. E conservo il suo ricordo con tanta tristezza. I suoi grandi occhi castani allungati, come quelli degli Egizi. Zio Giulio rammenta ancora quei giorni nei dettagli e la sua figlia Elisa ha trascritto per me il suo racconto.
A parte zio Tommaso, gli altri zii mi apparivano alti alti. E lo erano, erano altissimi rispetto alla media dell’epoca.
Tranne Tommaso, Michelino e Pina, si sposarono tutti. Chicchino in tarda età, almeno così si considerava. Partecipai al suo matrimonio ma ero piccola e non conservo tanti ricordi.
La casa padronale è stata acquistata dal Comune e considerata patrimonio del paese. È diventata scenario anche di film e rappresentazioni.
Vi si accede da un tipico portone con arco a tutto sesto, tipico del Campidano. C’è un grande cortile con l’acciottolato.
Io ricordo, a sinistra le case dei cavalli e a destra le casette degli altri animali. Le galline scorrazzavano libere nel cortile. In fondo, da un lato il pozzo e dall’altro la casa con il grande loggiato dove gli zii sedevano quando c’era bel tempo. La casa aveva tante stanze l’una comunicante con l’altra ed era stata restaurata e riammodernata negli arredi durante la mia infanzia. Nella cucina, un grosso camino da cui spesso il fumo invadeva la stanza e che obbligava gli zii a stare curvi, a testa bassa.
Mi piaceva soprattutto il prosciutto, come adesso non si trova più.
Zio Giulio, molto anziano e acciaccato, è ancora vivo, accudito dalle sue figlie. Gli altri zii e le zie sono morti di morte naturale, tutti tranne mio nonno e zio Michelino.
Zio Michelino, alto alto, così lo ricordo, alto e bello, forse il più bello dei fratelli (a parer mio), è mancato dopo le sofferenze, che non è retorico definire crudeli, del Morbo di Parkinson, rattrappito eppur vigile nel suo letto di torture.
Nonno aveva studiato al liceo classico ed era uno studente curioso e appassionato, curiosità e passione per i libri e la cultura che avrebbe conservato anche da adulto e da nonno.
Aveva fatto pure l’educatore in una scuola per sordastri, si chiamavano così, in Continente, nonché il cacciatore di animali di cui conciava e vendeva le pellicce, il direttore di un caseificio ed è stato a lungo il presidente della Cooperativa viticola di S..
La sua era una famiglia di contadini e infatti avrebbe continuato questa attività coniugandola con le sue passioni. Mamma racconta ancora che nonno amava anche il teatro e ogni tanto andava a C. e trascorreva la notte in albergo.
Ricordo che a me e a mia sorella affidò anche due dei suoi libri per bambini perché li leggessimo e ne facessimo il nostro riassunto. Io lessi “Guglielmo Tell”. Grazia “Robinson Crosuè”.
Rammento anche il suo orto florido nel grande giardino di casa: mi piaceva soprattutto quando raccoglieva le patate. Era una gioia per noi trovare patatone e patatine sotto la terra che nonno smuoveva delicatamente con la zappa. Adoravo anche prendere delicatamente il prezzemolo.
Allevava pure le api per il miele e c’erano in giardino le arnie colorate da cui noi bambine dovevamo stare lontane. Anche nonna Erminia aveva allevato api e, dopo il matrimonio, poterono allevarle assieme.
La mia prima frase scritta, da sola, mentre mia madre si era assopita in un caldo pomeriggio autunnale, era stata proprio “Nel giardino di nonno ci sono le api”.
Era alto, magro, slanciato, come i suoi fratelli e incuteva un certo timore. Anche lui, come zio, portava sempre il cappello.
Quando doveva arrivare Marina, Diana, la terza delle mie sorelle, dormiva con lui e, prima di addormentarsi, contavano le noccioline e lei apostrofava nonno dicendo: “Tu domi, io leggio”.
È a nonno Narciso che si deve la diffusione del semidano a S.. Lui produceva questa varietà di vino bianco a Cs. e fu lui che fece conoscere il vino e il vitigno a zio il quale poi cominciò a produrre questo vino anche nel mio paese. Una volta lo fece assaggiare al famoso enologo Veronelli che scrisse un articolo di apprezzamento su un noto settimanale nazionale.
Ricordo che una volta, mentre io e mia sorella Grazia litigavamo, - eravamo alle scuole medie – mamma chiamò proprio lui in suo soccorso. Mia sorella si chiuse in bagno ed io nella nostra cameretta che condividevamo, dove c’era la maniglia rotta che consentiva di aprire solo dall’interno della stanza. Nonno ci ingiunse di aprire le porte ma, mentre mia sorella aprì, io non lo feci temendo chissà che…
Nonno Narciso è mancato inaspettatamente dopo un improvviso ictus intestinale e un ricovero lampo a S. G., in una giornata di sciopero dei medici. Io avevo quattordici anni, era la prima morte in famiglia che mi trovavo ad affrontare e piansi come mai avevo pianto.
Nonno Nanni, il padre di mio padre, lavorava nell’edilizia.
Anche lui, come nonno Narciso, proveniva da una famiglia numerosa. Durante la guerra era stato in Russia.
Gli piacevano i cani e la caccia. Infatti aveva anche un’armeria in cui vendeva cartucce e tutto il necessario. L’armeria dapprima era in centro in paese, io la ricordo. Poi venne spostata in un locale adiacente alla casa dei nonni.
Anche mio padre divenne cacciatore e a noi piacevano i brodini di pernice e i conigli e le lepri, finché poi, dopo le pressioni di noi figlie e di mio fratello, anche babbo abbandonò questo “hobby”. Anche se, a dire il vero, molti cacciatori, come mio padre da giovane, amano la natura e gli animali molto più di alcuni che cacciatori non sono e che si proclamano “verdi” o “animalisti”.
Quando ero piccina mi piaceva dormire nel lettone coi nonni paterni. Mio nonno diceva che lo riempivo di calci alla pancia. Ricordo che si sedeva sempre a cavalcioni sulle sedie “al contrario”, appoggiando le braccia alla spalliera e dando le spalle al vuoto.
Ci raccontava le storie paurose de “sa coga”, una strega maligna che prendeva i bambini cattivi.
Era un accanito fumatore e infatti venne a mancare per un tumore ai polmoni.
I miei nonni materni andavano in Chiesa, erano cattolici osservanti, al contrario dei miei nonni paterni di tendenza filo-comunista.
Andava in chiesa solo nonno Santino, il mio bisnonno, padre di nonno Nanni. Lui andava alla Messa ogni pomeriggio e poi passava a prendere il thè a casa nostra. Anche nonno Santino aveva vissuto l’esperienza della guerra, delle guerre. Quando noi eravamo piccole aveva ancora gl’incubi della guerra in Africa e sognava i nemici che si nascondevano tra la sabbia per cogliere gli avversari di sorpresa.
Quando io ero piccolissima, si era rivolto a mamma per la scelta della statua in memoria dei caduti che sarebbe stata collocata nella piazza del Municipio. Lui era a capo del comitato per la raccolta dei fondi e provava un profondo scoramento nel constatare che tutte le statue del catalogo che piacevano a lui erano costosissime e fuori budget, come si direbbe ora.
Mamma sfogliò il catalogo e individuò una statua non troppo grande né troppo appariscente e la mostrò a nonno Santino.
Lui rimase perplesso per un po’ e poi esclamò: “Ma esti una femmia!”, “Ma è una donna!”.
Al che mamma replicò: “È la Vittoria! La statua della Vittoria!”. Dopo questo chiarimento, nonno ne fu entusiasta e decise che quella sarebbe stata la statua in memoria dei caduti in guerra nella piazza del Municipio di S..
Ancora lo è!
È vissuto a lungo. Venne a mancare d’estate, mentre io e i miei eravamo in vacanza a Torre delle Stelle: era il 1984.
I miei nonni paterni e materni provenivano da mondi diversi e, in modo diverso, ci hanno voluto bene.
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A poco più di un anno ero pure una tifosa sfegatata di calcio: correva il millenovecentosettanta, il Cagliari era fortissimo ed io urlavo: “Foza, dai, tia Biba!”, incitando Gigi Riva, “Rombo di tuono”, a tirare in porta e fare goal.
Da piccina ero anche intraprendente. Il primo giorno di asilo ero tornata a casa tutta giuliva esclamando: “Papà, ho baciato Rinaldo! Papà, ho baciato Rinaldo!”. Anche se avevo le idee un po' confuse sui rapporti tra uomini e donne, visto che alla mia sorellina che diceva: “Andrea mi vuole! Luca mi vuole! Fabrizio mi vuole! Come posso fare?!" avevo risposto: “Prendi uno di loro come marito e gli altri come cognati!!!”... Facile, no?!
Ed ero anche molto gelosa di mio padre, tipico complesso di Elettra, mi è stato detto. Di mio padre e mia madre insieme. Quando ero proprio piccola, dopo un regalo di mio padre a mia madre, non ricordo cosa, sbottai in sardo: “An berusu. Sempri a cussa, sempri a cussa!!!”, “Ma guarda. Sempre a lei! Sempre a lei!”. È rimasto l’aneddoto in casa. Avevo la scusante che ero piccina ma quando avevo otto anni, durante la nostra prima vacanza a Torre delle Stelle, una sera che i miei si erano preparati per uscire insieme, avevo fatto di tutto per impedirlo, scorrazzando per il giardino da un cancello all’altro precedendo i loro movimenti, fino a nascondermi in macchina. Questa volta ero più grande e per di più recidiva, ahimè!
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Mia madre e mio padre hanno allevato sei figli, cinque femmine e un maschio. Ma mia madre affrontò più di sei gravidanze.
Dopo la quarta gravidanza portava ancora la trentotto di taglia.
Come possiamo vedere nelle belle foto che ne sono memoria e ricordo, per il matrimonio di sua sorella, zia Lucia, quando eravamo tutti splendidi, babbo, mamma, noi, le mie sorelle ed io, quattro bambole, gli sposi, zio naturalmente, zio Alberto che ancora era scapolo e i nonni, mamma era vestita in lungo e indossava un top di seta a righe sottili con le tonalità dell’azzurro che avevo poi utilizzato anche io, da ragazza, ma per poco tempo, e poi mia sorella Marina e che ora indossa sua figlia Stefania, mia figlioccia di battesimo, che ha il fisico snello di una diciottenne.
La gravidanza che portò alla nascita della mia sorella più piccola fu molto difficile e Milva sarebbe morta se mamma avesse dato retta ai medici che le avevano detto che il feto non era in vita.
Ma Milva, all’ottavo mese, arrivò in ospedale a C., sana e bella e ci diede l’annuncio zio. Ne fummo super felici ma non approvammo la scelta del nome che in realtà ci era assai familiare.
Anche mio fratello arrivò all’ottavo mese, due anni dopo la nascita di Milva. Mio fratello però nacque in casa, con l’assistenza dell’ostetrica e di zio.
La notte, babbo mi aveva portato la piccola Milva su in camera col biberon pieno di latte, perché mamma aveva le doglie. Mie sorelle andarono a scuola ma io no. Restai in casa fino a che la mia sorellina non si svegliò e poi andai con lei a casa di nonna. Ci portò la notizia dell’arrivo, una emozionatissima Luisanna, l’aiutante – amica di vecchia data: “È nasciu” È nasciu!”. Io ero stata abbastanza imbranata quando ci avevano condotto nella camera da letto e la levatrice mi aveva esortato a fare gli auguri a mamma.
Molte persone credono che babbo e mamma cercassero il maschio e per questo avrebbero avuto tanti figli e che si sarebbero fermati dopo l’arrivo di mio fratello.
In realtà, non è così. Mamma ebbe un aborto spontaneo anche quando io ero al liceo. Andai a trovarla in ospedale a S. G.: era pallida e stremata.
Una volta, disse a me e a Milva che bastava che babbo la guardasse perché lei poi si trovasse ad aspettare un bambino.
E pensare che un medico, poco dopo il matrimonio, le aveva detto che non avrebbe potuto avere figli…
Pubblicato sul sito il 19 Gennaio 2024