Articoli - Il mio punto di vista
BREVI RIFLESSIONI SULL'OBSOLESCENZA PROGRAMMATA
Ho scoperto solo di recente (meglio tardi che mai!) cosa sia l'“obsolescenza programmata”, leggendo un articolo su “Focus” mentre aspettavo che le pizze da asporto fossero pronte. Certo, non è bello – chiunque sarebbe d'accordo, credo - scoprire che tutto ciò che acquistiamo sia programmato per essere sostituito, prima o poi: lampadine, calze di nylon, frigoriferi, cellulari, computer, stampanti etc. etc.
Si resta un po' perplessi e si riflette:
1° - Siamo ostaggi del consumismo!
2° - Anche noi siamo programmati per diventare obsoleti?
3° - C'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?
- Quanto al primo punto, una veloce navigata su Internet ci apre gli occhi, almeno un po': siamo, più o meno inconsciamente, manipolati dal “sistema consumistico” che produce, produce, produce affinché si venda, venda, venda e quindi poi si consumi, consumi, consumi per poi riacquistare, riacquistare, riacquistare... dopo tempi più o meno brevi.
Tutto ciò è sicuramente inquietante!
Non solo la ricerca (dietro ogni prodotto che consumiamo, infatti, ci sono ingegneri, chimici, medici, tecnici e via dicendo, che studiano, sperimentano, programmano, testano) viene indirizzata dai finanziatori non affinché il prodotto ultimo sia the best ma affinché esso abbia una durata prefissata, o perché programmaticamente sarà soggetto a guasti difficili o addirittura impossibili da “curare” (generalmente dopo la scadenza della garanzia!) e quindi si renderà più “conveniente” l'acquisto di un nuovo prodotto o perché, anche se non irrimediabilmente guasto, il bene diventerà “vecchio”, “non più competitivo” e “obsoleto”, appunto, sul mercato, grazie ai messaggi pubblicitari più o meno espliciti o subliminali... neanche tanto.
E non finisce qui! Che fine fanno i beni di consumo “consumati”? Diventano spazzatura ovviamente! E dove vanno a finire, specie se rifiuti nocivi e tossici? Stando a ciò che ho letto, in Africa o in altri Paesi del Sud del Mondo... ça va sans dire!
La questione è stata ed è oggetto di riflessione, anche mediante la letteratura e il cinema, nonché a livello di progetti di legge in alcuni Paesi.
Merita quindi la dovuta attenzione non solo da parte di chi è più o meno attivo in politica ma anche di tutti i cittadini-consumatori che vogliano esserlo più consapevolmente.
- Quanto al secondo punto, esso porta a riflettere in un campo più “intimista”: anche noi, essere umani, siamo soggetti all'obsolescenza programmata? E, se sì, io, che sono over forty, a che punto sono nella via verso l'obsolescenza?!? Mi sembra di galoppare, galoppare, galoppare… verso l'obsolescenza appunto!
Ma forse no, un individuo non diventa “obsoleto”: il nostro hardware, è vero, si deteriora, si consuma col tempo e ne porta i segni; in certi casi, i meno fortunati, anche il software sembra deteriorarsi, si aliena dal mondo del senso comune e si perde nel mondo dell'incomunicabilità... Abbiamo quindi sicuramente una “durata” limitata (questa è forse l'unica certezza – o una delle poche - di questo mondo) ma basta questo per considerare un individuo, un essere umano, “obsoleto”, “non competitivo” nel “mercato” vale a dire nella nostra società?
Purtroppo, fermandosi a riflettere su questo nostro mondo, certe tendenze, certi modi di pensare, certe filosofie di vita lasciano balenare, più o meno esplicitamente, una, più o meno pressante, insofferenza proprio verso gli individui che non rispondono più a tutti i canoni del prodotto “nuovo” e “funzionante” al meglio.
Nessuna ricetta preconfezionata per porre rimedio a questa tendenza: solo un invito alla riflessione affinché, irretiti in un mondo consumista, non diventiamo noi stessi prodotti da consumare, beni “usa e getta”, articoli più o meno alla moda...
- Quanto al terzo punto, c'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?
Se ci si pone questa domanda, forse è perché si sa già la risposta, forse è solo una domanda retorica, almeno si spera, nel mondo de “La stanza di Virginia” e nei mondi affini che pure esistono.
Che dire infatti del “manufatto stampato, rilegato e non riproducibile in streaming” (cit. da “Storia d'amore vera e supertriste” di Gary Shteyngart)?
Si mantiene vitale, più che vitale, anche nella nostra società: si leggerà pure poco, magari anche male, ci saranno anche gli e-book e gli e-book reader a fare concorrenza, ma sicuramente non verrà soppiantato del tutto.
Sì, il bene di consumo “libro” mal si presta a diventare oggetto di “obsolescenza programmata”: sì, potrà invecchiare, le pagine potranno ingiallire, potrà squinternarsi, ma non per questo diventerà “obsoleto”. Anzi i segni di vita potrebbero aumentarne il valore, come il vino buono. E questo, quanto al “substrato materiale”. Quanto poi al “contenuto”, allo spirito in esso racchiuso, sia che si tratti di un romanzo, come di un manuale di studio, di un saggio, una raccolta di poesie, un dizionario perfino, esso perdurerà ancora di più, o perché riprodotto con altri mezzi (che però credo non soppianteranno il “libro”), o perché vivo nelle menti degli autori e dei lettori.
E allora, per sottrarsi alle trappole del consumismo e dell'obsolescenza programmata, vale la pena “consumare” libri: ce ne sono tanti, tantissimi, per tutti i gusti, per tutti i tipi di consumatori-lettori che vogliano investire il loro tempo in un'attività senza tempo... o quasi!
Pavia, 12 dicembre 201313 qui per modificare.
Ho scoperto solo di recente (meglio tardi che mai!) cosa sia l'“obsolescenza programmata”, leggendo un articolo su “Focus” mentre aspettavo che le pizze da asporto fossero pronte. Certo, non è bello – chiunque sarebbe d'accordo, credo - scoprire che tutto ciò che acquistiamo sia programmato per essere sostituito, prima o poi: lampadine, calze di nylon, frigoriferi, cellulari, computer, stampanti etc. etc.
Si resta un po' perplessi e si riflette:
1° - Siamo ostaggi del consumismo!
2° - Anche noi siamo programmati per diventare obsoleti?
3° - C'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?
- Quanto al primo punto, una veloce navigata su Internet ci apre gli occhi, almeno un po': siamo, più o meno inconsciamente, manipolati dal “sistema consumistico” che produce, produce, produce affinché si venda, venda, venda e quindi poi si consumi, consumi, consumi per poi riacquistare, riacquistare, riacquistare... dopo tempi più o meno brevi.
Tutto ciò è sicuramente inquietante!
Non solo la ricerca (dietro ogni prodotto che consumiamo, infatti, ci sono ingegneri, chimici, medici, tecnici e via dicendo, che studiano, sperimentano, programmano, testano) viene indirizzata dai finanziatori non affinché il prodotto ultimo sia the best ma affinché esso abbia una durata prefissata, o perché programmaticamente sarà soggetto a guasti difficili o addirittura impossibili da “curare” (generalmente dopo la scadenza della garanzia!) e quindi si renderà più “conveniente” l'acquisto di un nuovo prodotto o perché, anche se non irrimediabilmente guasto, il bene diventerà “vecchio”, “non più competitivo” e “obsoleto”, appunto, sul mercato, grazie ai messaggi pubblicitari più o meno espliciti o subliminali... neanche tanto.
E non finisce qui! Che fine fanno i beni di consumo “consumati”? Diventano spazzatura ovviamente! E dove vanno a finire, specie se rifiuti nocivi e tossici? Stando a ciò che ho letto, in Africa o in altri Paesi del Sud del Mondo... ça va sans dire!
La questione è stata ed è oggetto di riflessione, anche mediante la letteratura e il cinema, nonché a livello di progetti di legge in alcuni Paesi.
Merita quindi la dovuta attenzione non solo da parte di chi è più o meno attivo in politica ma anche di tutti i cittadini-consumatori che vogliano esserlo più consapevolmente.
- Quanto al secondo punto, esso porta a riflettere in un campo più “intimista”: anche noi, essere umani, siamo soggetti all'obsolescenza programmata? E, se sì, io, che sono over forty, a che punto sono nella via verso l'obsolescenza?!? Mi sembra di galoppare, galoppare, galoppare… verso l'obsolescenza appunto!
Ma forse no, un individuo non diventa “obsoleto”: il nostro hardware, è vero, si deteriora, si consuma col tempo e ne porta i segni; in certi casi, i meno fortunati, anche il software sembra deteriorarsi, si aliena dal mondo del senso comune e si perde nel mondo dell'incomunicabilità... Abbiamo quindi sicuramente una “durata” limitata (questa è forse l'unica certezza – o una delle poche - di questo mondo) ma basta questo per considerare un individuo, un essere umano, “obsoleto”, “non competitivo” nel “mercato” vale a dire nella nostra società?
Purtroppo, fermandosi a riflettere su questo nostro mondo, certe tendenze, certi modi di pensare, certe filosofie di vita lasciano balenare, più o meno esplicitamente, una, più o meno pressante, insofferenza proprio verso gli individui che non rispondono più a tutti i canoni del prodotto “nuovo” e “funzionante” al meglio.
Nessuna ricetta preconfezionata per porre rimedio a questa tendenza: solo un invito alla riflessione affinché, irretiti in un mondo consumista, non diventiamo noi stessi prodotti da consumare, beni “usa e getta”, articoli più o meno alla moda...
- Quanto al terzo punto, c'è qualcosa che si salva dall'obsolescenza programmata?
Se ci si pone questa domanda, forse è perché si sa già la risposta, forse è solo una domanda retorica, almeno si spera, nel mondo de “La stanza di Virginia” e nei mondi affini che pure esistono.
Che dire infatti del “manufatto stampato, rilegato e non riproducibile in streaming” (cit. da “Storia d'amore vera e supertriste” di Gary Shteyngart)?
Si mantiene vitale, più che vitale, anche nella nostra società: si leggerà pure poco, magari anche male, ci saranno anche gli e-book e gli e-book reader a fare concorrenza, ma sicuramente non verrà soppiantato del tutto.
Sì, il bene di consumo “libro” mal si presta a diventare oggetto di “obsolescenza programmata”: sì, potrà invecchiare, le pagine potranno ingiallire, potrà squinternarsi, ma non per questo diventerà “obsoleto”. Anzi i segni di vita potrebbero aumentarne il valore, come il vino buono. E questo, quanto al “substrato materiale”. Quanto poi al “contenuto”, allo spirito in esso racchiuso, sia che si tratti di un romanzo, come di un manuale di studio, di un saggio, una raccolta di poesie, un dizionario perfino, esso perdurerà ancora di più, o perché riprodotto con altri mezzi (che però credo non soppianteranno il “libro”), o perché vivo nelle menti degli autori e dei lettori.
E allora, per sottrarsi alle trappole del consumismo e dell'obsolescenza programmata, vale la pena “consumare” libri: ce ne sono tanti, tantissimi, per tutti i gusti, per tutti i tipi di consumatori-lettori che vogliano investire il loro tempo in un'attività senza tempo... o quasi!
Pavia, 12 dicembre 201313 qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
QQ
QUANDO SEI DISOCCUPATO
Ebbene sì, sono anch'io alla moda, sono anch'io trendy, nel senso che sono anch'io inserita in un “andamento”, un “trend” appunto, dei tempi nostri, sono anch'io “di tendenza”...
E cosa ti rende figlio di questi tempi? Tante cose immagino ma, negli ultimi sette, otto anni, ciò che ti caratterizza maggiormente è l'avere problemi di occupazione, sì proprio quello, essere disoccupati per via della “crisi”.
Non che sia una novità in certe parti del nostro Paese, come la Sardegna, terra da cui provengo, in cui la “crisi” e il “problema dell'occupazione” sono pressoché congeniti: ci sono ora come c'erano venti anni fa, quando mi sono laureata e mi son trovata a dover cercare un'occupazione, appunto.
“Lavoro” quindi, principio cardine posto a fondamento della e dalla nostra Costituzione: si vedano l'art.1, primo comma (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), l'art.4, primo comma (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” cui fa da contraltare il secondo comma “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprio possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), e gli artt. 35 e seguenti, in particolare il primo comma dell'art.35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), il primo comma dell'art.36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”), il primo e il secondo comma dell'art.38 (“1. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. 2. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”).
Non mi addentro in commenti di tipo giuridico-sociale né su quanto sia difficile, non immediato, altamente burocratico e anche penoso accedere ai “mezzi adeguati alle... esigenze di vita in caso di... disoccupazione involontaria”: ci si trova spesso davanti a veri e propri muri di gomma, tra persone e uffici più o meno incompetenti e sonnacchiosi, per dirlo con belle parole...
Ma cosa sperimenta, nella vita di tutti i giorni, chi si trova ad essere disoccupato involontario?
Chi si trova ad essere disoccupato viene quasi ad essere “segnato”, mi sento di dire, contraddistinto da un “segno” appunto, non con lo scopo di essere protetto come nel caso di Caino, ma con lo scopo piuttosto di essere indicato come soggetto poco desiderabile, che crea imbarazzo e magari da evitare.
Capita per esempio che chi si trovi dapprima ad elogiarti per un tuo scritto (nel mio caso, una “bella signora”, chiamiamola così), poi, dopo aver saputo che sei stato licenziato per via della crisi e sei alla ricerca di una nuova occupazione, si trovi quasi a voler rimangiare le proprie parole, a trattarti con sufficienza e a negarsi, fino a toglierti il saluto, “non si sa mai questa cosa voglia...”.
Capita poi che qualcuno si mostri volenteroso e ti prometta di chiamarti al telefono... cosa che poi eviterà accuratamente di fare, “tanto si sa questa cosa vuole...”.
Capita poi addirittura di diventare “invisibili”, non esagero: sì, capita che persone con cui avevi a che fare più o meno di frequente nel mondo del lavoro e che incontri per strada quasi faccia a faccia, passino senza degnarti di un saluto ma anzi coprendosi di un velo di voluta e calcolata indifferenza. Magari non tutti, ma capita... “non si sa mai”.
Insomma, per chi il lavoro ce l'ha, un disoccupato è da evitare, è quasi un appestato.
Siamo noi, giovani e, come nel mio caso, meno giovani, i nuovi paria della nostra società, per alcuni almeno, non esito a dirlo.
A tal proposito, c'è anche chi ha osservato che proprio l'art.1 sopra riportato della nostra Costituzione, possa diventare invece che clausola di salvaguardia, principio di esclusione ed emarginazione: se il lavoro non c'è, se i cittadini rimasti senza, non per loro scelta, non vengono di fatto tutelati, cosa fonda la nostra società?
Ci si potrebbe poi soffermare, tanto per sorridere, sulla varietà degli annunci di lavoro, da chi ti offre un “compenso sobrio” a chi cerca collaboratrici di bella presenza e disponibili cui viene chiesto di inviare il curriculum con “foto eloquenti”.
Ma, tant'è, capita anche di incontrare qualcuno che sta peggio di te, che voglia di sorridere non ne ha, qualcuno che un datore di lavoro che nemmeno conosceva, tanto stava in alto, ha dichiarato in esubero e gli ha cambiato la vita, qualcuno con due figlie a carico e che cade preda della depressione e non sai come incoraggiare. “Non che sia meglio essere licenziati da un capo che invece conoscevi e ti conosceva...”, penso.
“Tu come fai?”, ti chiede. E come faccio? Ho fatto la formica mentre lavoravo e, non so neanch'io come, ho messo da parte un po' di soldi (già, soldi) che dovevano essere destinati che ne so, alla vecchiaia si dice di solito. E ora, ora che sono sopraggiunti tempi difficili, è grazie a questi risparmi - che vedi calare nel tuo conto ogni giorno mentre non entra niente - che sono in grado di mantenermi e non sentirmi con l'acqua alla gola.
E soprattutto, con la speranza che qualcosa cambi in meglio, anche se, si sa, “chi visse sperando morì non si può dire”. Ma siccome così si muore tutti, allora meglio sperare, sperare sempre. E dal momento che, a proposito di speranza, la penso diversamente da Nietzsche, ho deciso di scrivere queste righe.
Per chi al momento non ricordasse, Nietzsche, a differenza degli autori di Pollon (mi si consenta questa citazione poco erudita), sosteneva che la speranza è una disgrazia... Non per niente stava nel vaso di Pandora... (E sarebbe stato impossibile giungere al lieto fine in Pollon, che diventa Dea della Speranza, se gli autori si fossero attenuti all’interpretazione nietzschiana. Evidentemente Nietzsche non è stato ritenuto educativo).
Ma, visto che il noto detto popolare in tema di speranza ben può adattarsi a tante attività cui uno può dedicarsi in vita... ecco, figlia di Pollon più che di Nietzsche, mi sento di augurare a chi, come me, si trovi in questa situazione non facile, di trovare un motivo per sorridere sempre, siano i genitori, i familiari, i figli, i buoni amici, le proprie passioni, i propri valori, le proprie ragioni di Vita!
Pavia, 13 ottobre 2014
Clicca qui per modificare.
QUANDO SEI DISOCCUPATO
Ebbene sì, sono anch'io alla moda, sono anch'io trendy, nel senso che sono anch'io inserita in un “andamento”, un “trend” appunto, dei tempi nostri, sono anch'io “di tendenza”...
E cosa ti rende figlio di questi tempi? Tante cose immagino ma, negli ultimi sette, otto anni, ciò che ti caratterizza maggiormente è l'avere problemi di occupazione, sì proprio quello, essere disoccupati per via della “crisi”.
Non che sia una novità in certe parti del nostro Paese, come la Sardegna, terra da cui provengo, in cui la “crisi” e il “problema dell'occupazione” sono pressoché congeniti: ci sono ora come c'erano venti anni fa, quando mi sono laureata e mi son trovata a dover cercare un'occupazione, appunto.
“Lavoro” quindi, principio cardine posto a fondamento della e dalla nostra Costituzione: si vedano l'art.1, primo comma (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), l'art.4, primo comma (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” cui fa da contraltare il secondo comma “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprio possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), e gli artt. 35 e seguenti, in particolare il primo comma dell'art.35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), il primo comma dell'art.36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”), il primo e il secondo comma dell'art.38 (“1. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. 2. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”).
Non mi addentro in commenti di tipo giuridico-sociale né su quanto sia difficile, non immediato, altamente burocratico e anche penoso accedere ai “mezzi adeguati alle... esigenze di vita in caso di... disoccupazione involontaria”: ci si trova spesso davanti a veri e propri muri di gomma, tra persone e uffici più o meno incompetenti e sonnacchiosi, per dirlo con belle parole...
Ma cosa sperimenta, nella vita di tutti i giorni, chi si trova ad essere disoccupato involontario?
Chi si trova ad essere disoccupato viene quasi ad essere “segnato”, mi sento di dire, contraddistinto da un “segno” appunto, non con lo scopo di essere protetto come nel caso di Caino, ma con lo scopo piuttosto di essere indicato come soggetto poco desiderabile, che crea imbarazzo e magari da evitare.
Capita per esempio che chi si trovi dapprima ad elogiarti per un tuo scritto (nel mio caso, una “bella signora”, chiamiamola così), poi, dopo aver saputo che sei stato licenziato per via della crisi e sei alla ricerca di una nuova occupazione, si trovi quasi a voler rimangiare le proprie parole, a trattarti con sufficienza e a negarsi, fino a toglierti il saluto, “non si sa mai questa cosa voglia...”.
Capita poi che qualcuno si mostri volenteroso e ti prometta di chiamarti al telefono... cosa che poi eviterà accuratamente di fare, “tanto si sa questa cosa vuole...”.
Capita poi addirittura di diventare “invisibili”, non esagero: sì, capita che persone con cui avevi a che fare più o meno di frequente nel mondo del lavoro e che incontri per strada quasi faccia a faccia, passino senza degnarti di un saluto ma anzi coprendosi di un velo di voluta e calcolata indifferenza. Magari non tutti, ma capita... “non si sa mai”.
Insomma, per chi il lavoro ce l'ha, un disoccupato è da evitare, è quasi un appestato.
Siamo noi, giovani e, come nel mio caso, meno giovani, i nuovi paria della nostra società, per alcuni almeno, non esito a dirlo.
A tal proposito, c'è anche chi ha osservato che proprio l'art.1 sopra riportato della nostra Costituzione, possa diventare invece che clausola di salvaguardia, principio di esclusione ed emarginazione: se il lavoro non c'è, se i cittadini rimasti senza, non per loro scelta, non vengono di fatto tutelati, cosa fonda la nostra società?
Ci si potrebbe poi soffermare, tanto per sorridere, sulla varietà degli annunci di lavoro, da chi ti offre un “compenso sobrio” a chi cerca collaboratrici di bella presenza e disponibili cui viene chiesto di inviare il curriculum con “foto eloquenti”.
Ma, tant'è, capita anche di incontrare qualcuno che sta peggio di te, che voglia di sorridere non ne ha, qualcuno che un datore di lavoro che nemmeno conosceva, tanto stava in alto, ha dichiarato in esubero e gli ha cambiato la vita, qualcuno con due figlie a carico e che cade preda della depressione e non sai come incoraggiare. “Non che sia meglio essere licenziati da un capo che invece conoscevi e ti conosceva...”, penso.
“Tu come fai?”, ti chiede. E come faccio? Ho fatto la formica mentre lavoravo e, non so neanch'io come, ho messo da parte un po' di soldi (già, soldi) che dovevano essere destinati che ne so, alla vecchiaia si dice di solito. E ora, ora che sono sopraggiunti tempi difficili, è grazie a questi risparmi - che vedi calare nel tuo conto ogni giorno mentre non entra niente - che sono in grado di mantenermi e non sentirmi con l'acqua alla gola.
E soprattutto, con la speranza che qualcosa cambi in meglio, anche se, si sa, “chi visse sperando morì non si può dire”. Ma siccome così si muore tutti, allora meglio sperare, sperare sempre. E dal momento che, a proposito di speranza, la penso diversamente da Nietzsche, ho deciso di scrivere queste righe.
Per chi al momento non ricordasse, Nietzsche, a differenza degli autori di Pollon (mi si consenta questa citazione poco erudita), sosteneva che la speranza è una disgrazia... Non per niente stava nel vaso di Pandora... (E sarebbe stato impossibile giungere al lieto fine in Pollon, che diventa Dea della Speranza, se gli autori si fossero attenuti all’interpretazione nietzschiana. Evidentemente Nietzsche non è stato ritenuto educativo).
Ma, visto che il noto detto popolare in tema di speranza ben può adattarsi a tante attività cui uno può dedicarsi in vita... ecco, figlia di Pollon più che di Nietzsche, mi sento di augurare a chi, come me, si trovi in questa situazione non facile, di trovare un motivo per sorridere sempre, siano i genitori, i familiari, i figli, i buoni amici, le proprie passioni, i propri valori, le proprie ragioni di Vita!
Pavia, 13 ottobre 2014
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.