La verità di Alice
Un aborto nel cassetto da vent'anni
AVVERTENZE PER L’USO
Uso primario
Trattasi di prodotto destinato principalmente alla lettura.
Trama ridotta a meno dell’essenziale, scarso numero di personaggi, mancanza di colpi di scena, vocabolario poco ricercato, piattezza di ambientazione, assenza di colore ne consentono la fruizione da parte dell’utente medio in età post-adolescenziale o adulta anche affetto da disturbi cardio-vascolari o a rischio di infarto o affetto da diabete mellito.
Richiede scarso impegno intellettuale e ridotto dispendio di energie mentali.
Non produce pertanto perdita di peso se non associato ad appropriata dieta con limitato apporto calorico e/o ad intensa attività fisica, non contestuale alla lettura medesima, ad elevato dispendio energetico.
Potrebbe in taluni soggetti indurre sonnolenza.
Evitatene quindi la fruizione prima di mettervi alla guida della vostra auto o in circostanze in cui è indispensabile mantenere deste tutte le vostre facoltà.
Poiché si tratta di prodotto con banale trama a lieto fine, ne è sconsigliato l’uso ai thrill –seekers.
In soggetti particolarmente sensibili, specie di sesso femminile, potrebbe indurre lieve e transitoria depressione. I sintomi scompariranno con l’immediata sospensione della fruizione del prodotto e/o con l’ingerimento di cioccolato in dosi più o meno abbondanti secondo la gravità dei sintomi medesimi e la sensibilità individuale. In caso di persistenza dei sintomi, consultare il medico.
Non si conoscono altri effetti collaterali e/o indesiderati e/o fattori di danno e/o rischio.
Ne è consentito l’utilizzo anche in associazione con altri prodotti destinati alla lettura: non sono state infatti finora riscontrate interazioni nocive alla salute.
Controindicazioni: ipersensibilità individuale accertata verso il prodotto e/o taluni dei suoi componenti.
Usi secondari
- Usi ulteriori rispetto a qualsiasi tipo di lettura, quali, per i soggetti predisposti e/o inclini, riflessione, meditazione, esegesi, analisi linguistica ed ermeneutica: livello scarso di utilizzabilità proficua.
Si sconsigliano pertanto tali usi a meno che non abbiate tempo da perdere in abbondanza.
Altri prodotti in commercio, con cui il prodotto in oggetto non pretende nemmeno di essere in competizione e/o concorrenza, soddisferanno ampiamente le vostre esigenze di questo tipo.
In soggetti particolarmente sensibili, potrebbe indurre e/o acuire tendenza alla masturbazione mentale.
Si sconsiglia di indulgere in tale pratica essendo il prodotto già di per sé in certa misura connotato di tratti paranoidei.
- Usi differenti dalla lettura: consentiti secondo la fantasia, l’umore e la predisposizione dell’utente.
A titolo meramente esemplificativo e senza nessuna pretesa di esaustività, dato lo scarso peso del prodotto, se ne indica, l’utilizzabilità quale ausilio per gli esercizi di buon portamento delle fanciulle che tendono a camminare curve, benché a dire il vero al giorno d’oggi tali esercizi siano oramai fuori moda.
Assolutamente inadatto ad appiattire le foglie per il vostro erbario o quello di vostro figlio o nipote: in questi casi ricorrere ad un dizionario versione integrale.
Come tutti i prodotti affini, non è stato finora catalogato come oggetto contundente e/o arma impropria e ne è consentito il trasporto in aereo anche in casi di emergenza anti-terrorismo. Vi ricordiamo però che una lima, un coltello o una qualunque lama nascosta all’interno del prodotto medesimo, verrebbero rilevati dai metal detectors. Tale “uso differente dalla lettura” è tuttavia ancora possibile e consentito benché, al giorno d’oggi, difficilmente praticabile.
Premessa
Ci siamo sposati anni fa e, da anni, viviamo assieme nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia … col bello e col brutto tempo.
E, mi si scusi la ripetizione, dati i tempi non è poco.
Non è poco affatto ora che la coppia scoppia dopo due mesi se due mesi almeno dura.
Nessuno ci avrebbe scommesso una lira allora.
Ora nessuno scommetterebbe un eurocent sulla indistruttibilità della nostra love story finché morte non ci separi.
Sì, perché la nostra è precisamente una storia d’amore.
E per di più a prima vista.
At first sight!
Ancora oggi non so dire di preciso se a far scoccare la scintilla fosse stata la vista del mio hardware o, prima del mio hardware, la vista (e la lettura) del mio dattiloscritto.
Sì, mirando alla pubblicazione e non certo ad ammaliare uno sconosciuto redattore, avevo messo particolare cura nel confezionare il mio inedito per conferirgli una veste estetica discreta e sobria ma che allo stesso tempo non passasse inosservata.
E comunque se anche questa poteva passare inosservata, lo stesso non poteva accadere col mio … hardware appunto.
E perché gli occhi dello sconosciuto redattore si posassero dal dattiloscritto all’immagine di chi quel dattiloscritto aveva mentalmente partorito, mirando alla pubblicazione certo ma forse ancor di più ad ammaliare lo sconosciuto medesimo, sicuramente sommerso da inediti di sconosciuti che miravano alla pubblicazione, avevo inserito nel plico inviato una serie di foto che avrebbero dovuto corredare la mia opera.
Certo, c’erano numerosi elementi d’incertezza e di rischio. Non potevo nemmeno prevedere il sesso di chi avrebbe letto la mia opera ma valeva la pena rischiare.
Le foto …
Nudi d’arte s’intende.
Ma non al punto di non rivelare ciò che volutamente volevo fosse palese.
Solo tre pose (ciò che è trino è divino) ma sufficienti a colpire nel segno.
O così speravo … sapendo che le mie speranze erano ben riposte e che non sempre “chi visse sperando morì non si può dire”.
E siccome a proposito di speranza la penso diversamente da Nietsche, ho deciso di scrivere queste righe.
Per chi al momento non ricordasse, Nietsche, a differenza degli autori di Pollon, sosteneva che la speranza è una disgrazia … Non per niente stava nel vaso di Pandora[1].
E siccome il noto detto popolare in tema di speranza ben può adattarsi a tante attività cui uno può dedicarsi in vita …
Ecco, figlia di Pollon più che di Nietsche, è per dare una qualche speranza che vi racconterò …
[1] Sarebbe offensivo per il lettore se l’A. sottolineasse l’impossibilità di giungere al lieto fine in Pollon, che diventa Dea della Speranza, se gli autori si fossero attenuti all’interpretazione nietschiana.
Evidentemente Nietsche non è stato ritenuto educativo per i vostri bambini.
I
Alice enunciò una volta una grande verità che non ho mai scordato.
Né potrei, tante sono le ripetute conferme di questa verità che finora non ha trovato, ai miei occhi, smentite.
Le parole di Alice formularono la sua grande, profonda, meditata verità in termini solenni ed eleganti: “I ragazzi boni sono come i cessi pubblici: sempre occupati!”.
Ahimè, finora, non saprei trovare eccezioni a questa regola.
Nemmeno per confermarla, se mai ce ne fosse bisogno.
Sono stata una fessa a dimenticare, nel momento in cui sarei dovuta stare all’erta, questa verità illuminante. Ma, per tanto tempo, la mia mente è stata come obnubilata.
Ho vissuto i mesi passati come in sogno, inebetita e vulnerabile.
Ed ora non posso non fronteggiare la realtà.
E la verità di Alice.
Portavo il mio cappello nuovo il giorno. La tesa creava ombre senza dubbio affascinanti sul mio viso, così affascinanti da non poterlo non ammaliare.
Salutai il mio boss prima di andar via. Il mio boss e lui che col mio boss amabilmente conversava. Di lavoro, s’intende.
Dissi come al solito: “Io vado. Ci vediamo domani”.
E, sarà per il suono certamente incantevole della mia voce rauca (avevo mal di gola) oppure per le ombre senza dubbio affascinati create sul mio viso dalla tesa del mio cappello nuovo …
Beh, fatto sta che feci appena in tempo ad arrivare in strada che lui mi raggiunse dicendo: “Scusi …” con voce mezzo trafelata.
Non avevo dimenticato l’ombrello, non mi era caduto un guanto, non avevo perso un orecchino … Perciò, incredibile ma vero, qualcos’altro doveva averlo fatto fiondare fuori dall’ufficio.
Sorrisi incoraggiante e incuriosita allo stesso tempo.
Precipitosamente sputò fuori: “Ho poco tempo … Devo tornare dentro … Potremmo rivederci?!”
“Ri-vederci” era la parola giusta. C’eravamo infatti solo “visti” fino ad allora.
Non stetti a pensarci su, non inventai appuntamenti immancabili in un’agenda fitta di impegni immaginari, non tergiversai preoccupata di apparire troppo facile o affamata.
Dissi semplicemente “Perché no?!”.
Mi sorrise dicendo: “La richiamo io al lavoro. Va bene?”
“Va bene” risposi
“Di chi devo chiedere?”
“Chieda di Giulia. Ed io da chi dovrò attendere la chiamata?!”
“Da Michele”
“Bene Michele. A risentirci!”
“Si. Ci ri-sentiremo presto!”
E così mi lasciò. Mi lasciò comprensibilmente stupita e felicemente incredula.
Col cappello moscio, il trucco slavato, i piedi zuppi sotto la pioggia a catinelle che, per tutto il tempo della nostra breve conversazione, era caduta senza che ce ne accorgessimo e senza che io, rapita dall’unicità di quel momento, avessi avuto il buon senso di aprire l’ombrello che pure non avevo dimenticato. E, del resto, senza che lui avesse avuto il buon senso di ricordarmelo.
Col cappello moscio, il trucco slavato, i piedi zuppi … ma comprensibilmente stupita e felicemente incredula.
Le ombre senza dubbio affascinati sul mio viso e il suono certamente incantevole della mia voce rauca sono motivazioni per il suo agire che mi sono data a posteriori.
Visto che lui mi aveva raggiunto trafelato anche se non avevo dimenticato né perso niente. Visto che lui aveva manifestato il desiderio di rivedermi. Visto che, per i suoi modi e la dinamica dell’evento (che di evento si trattava!), il suo manifesto desiderio di rivedermi non poteva non essere legato a serie intenzioni peccaminose. Visto che era da secoli che la mia modesta presenza non suscitava intenzioni di tal genere in individui di sesso maschile in grado di soddisfare una donna, quale io sono, dalle esigenze estetiche medio-alte. Visto che lui era un individuo di sesso maschile in grado di soddisfare tali esigenze estetiche e per di più sicuramente animato da serie intenzioni peccaminose … Visto tutto questo, non poteva non essere stato qualcosa di nuovo e inusuale ad aver scatenato l’evento. Il cappello era nuovo e la voce inusuale.
Ergo … Ecco le ragioni del suo precipitarsi fuori catturato da me maliarda!
Ed ecco perché, in quel momento ero comprensibilmente stupita, felicemente incredula … e fradicia.
II
Il giorno dopo, la mia voce aveva raggiunto livelli di incantevolezza a dir poco sublimi tanto era roca! Facevo perfino fatica a farmi sentire al telefono.
Lavorai freneticamente perché altrimenti non avrei fatto che pensare a lui e alla sua chiamata che non arrivava e non avrei fatto che sussultare per ogni squillo. Del resto, il mio boss, insensibile per il mio mal di gola come lo era per ogni malessere dei suoi dipendenti, non mi aveva lasciato scelta. Mi aveva voluto al suo seguito come un cagnolino.
Giovanna, ultrasessantenne che in età fertile non aveva potuto soddisfare i suoi istinti materni, si rifaceva con le giovani dell’ufficio e mi aveva costretto a sorbirmi mezza tazza di latte e miele. Senza risultati apprezzabili però se non avermi provocato incontrollabili conati di vomito.
Quando avevo ormai perso le speranze di sentirlo, poco prima che mi preparassi per andar via, al suono dell’ennesimo squillo della giornata, sollevai la cornetta di malavoglia. Graziella mi passò la chiamata del signor Michele che chiedeva di Giulia.
Trassi un respiro profondo prima di mettermi all’ascolto e di rispondere.
“Pronto?” dissi
“Pronto, Giulia? Possiamo darci del tu?”
“Si, certamente”
“Giulia, hai mal di gola?”
Come mi piaceva sentirlo ripetere il mio nome!
“Si parecchio”
“Hai provato col latte caldo e il miele?”
“Si, già fatto. Mi fa schifo! Ma passerà”
“Com’è stata la tua giornata di lavoro?”
“Pesantuccia. E la tua?”
Non sapevo nemmeno quale fosse il suo lavoro.
“Come al solito. Senza respiro. Mi sono liberato solo poco fa. Allora ci diamo appuntamento?”
“Perché no?!” replicai per la seconda volta.
“Quando potremmo incontrarci?” propose.
“Quando vuoi ma non stasera. Sono esausta”
“Facciamo domani allora. È venerdì e non c’è il pensiero di doversi alzare presto il giorno dopo”
“Domani, sì. Dimmi dove e a che ora”
“Potrei passare a prenderti dopo il lavoro oppure preferisci fare altrimenti?”
“Non sarò certo fresca come un fiore appena colto … ma va bene dopo il lavoro”
“A domani alle diciotto e trenta fuori dal tuo ufficio allora”
“A domani. Ciao!”
Per fortuna non condividevo l’ufficio con nessuno e avevo così potuto parlare liberamente.
Poiché corro sempre troppo col pensiero, già vedevo tutto rosa attorno a me, sentivo tintinnii soavi, immaginavo amorini svolazzanti e spolveravo pensieri profondi della collezione “Baci Perugina”.
Sì certo: ero in fase di innamoramento. O così volevo sentirmi.
Dopo una notte a livelli di adrenalina non certo soporiferi, mi svegliai per tempo e mi dedicai a lungo a tutte le operazioni di ordinaria manutenzione estetica con qualche attenzione straordinaria. Abbondai in latte e crema per il corpo profumati con la speranza che lui arrivasse in orario e che il profumo reggesse almeno fino alle diciotto e trentacinque; dedicai particolare cura al maquillage usando prodotti water-proof; indossai e sfilai tre paia di autoreggenti; misi in borsetta profumo e salviette rinfrescanti. E, naturalmente, indossai il cappello ormai collaudato. Quanto alla voce, il mal di gola non era ancora del tutto passato. Potevo così fare affidamento su una rassicurante dose di fascino …
Non saremmo sicuramente finiti a letto al primo appuntamento ma non volevo certo mettere limiti alla Divina Provvidenza. E forse neanche a lui.
Passai una giornata d’inferno ma riuscii a controllare la mia irrequietezza e, per fortuna, nessuno si accorse di niente. Non volendo che si creassero curiosità e interrogativi, nemmeno rinfrescai il trucco prima di uscire. Un filo appena di rossetto e una spruzzata leggera di profumo. Del resto era anche vero che non avevo passato il giorno in miniera né a zappare nei campi!
Sistemai il cappello notando le ombre ad effetto sul mio viso, convinta di poterci contare e uscii puntuale. Puntuale, lui era lì ad aspettarmi. Bello, elegante, sorridente e … tutto per me.
Strano ma la verità di Alice ancora non mi aveva sfiorato la mente. Eppure lui era innegabilmente bono, non che non l’avessi già notato!
“Ciao! Allora, cosa mi proponi di bello?” gli chiesi subito per non restare inebetita di fronte a tanta grazia di Dio.
“È troppo presto per andare a cena quindi pensavo che, dopo una pesante giornata di lavoro, potremmo rilassarci vedendo un bel film”
“Ma sì, il cinema va bene. Hai già in mente qualcosa?”
“Ti piace Greeneway? C’è una rassegna dedicata a lui non lontano da qui.”
“A dire il vero non lo conosco molto. Ho visto uno solo dei suoi film”
“Spero che non sia quello che volevo proporti”
“Proponi”
“The Pillow Book”
“C’è chi lo odia e chi lo ama. Per me è uno splendido film. Posso dirlo perché è proprio quell’unico che dicevo d’aver già visto” dissi e, notando un moto di delusione attraversargli il viso, mi affrettati ad aggiungere: “Ma non mi dispiacerebbe rivederlo. L’avevo visto anni fa, in inglese e …”
“Non lo dici per farmi piacere?!”
“No, certo che no. Ma, hai qualche particolare ragione perché andiamo a vedere quel film stasera?”
“Solo creare un’atmosfera … rilassante tra di noi”
“E va beh, andiamo a … rilassarci”
C’incaminammo verso il cinema: un articolo il ambulante!
E, sarà perché sono una tappa e per un’istintiva selezione del maschio in vista del miglioramento della specie, ma io … adoro gli articoli il!
“Hai ancora mal di gola?” mi chiese.
“Un pochino. Ma sta passando, grazie.”
“È colpa dei cocchi”
“Di chi?!”
“Dei cocchi. Reminescenze scolastiche. Se non ricordo male, i batteri che infettano la gola appartengono alla famiglia dei cocchi”
“Entusiasta di sapere chi ringraziare. A che ora comincia il film?”
“Tra venti minuti. Siamo in perfetto orario”
“Direi di sì. Avevi calcolato tutto?”
“Più o meno. Ma non ho comprato i biglietti in anticipo”
“Nel caso non fossimo venuti …?!”
“Per avere qualche incognita”
“Dimmi alcune di queste incognite”
“Tu, per esempio”
Un passante mi urtò e lui, per impedirmi di barcollare, mi prese per un gomito.
La nostra conversazione era stata interrotta. Per qualche istante sentì la pressione della sua mano e forse anche il suo calore. Ci guardammo senza parlare. Quel contatto sembrava da solo sufficiente a rispondere agli interrogativi, che già erano nell’aria, rimasti sospesi tra noi o, forse, più semplicemente non volevamo trovare parole per riempire quel silenzio per niente imbarazzante. E poi eravamo arrivati al cinema e lui si avvicinò al botteghino per acquistare i biglietti.
La sala era piuttosto affollata ma riuscimmo a trovare dei buoni posti. Banalmente, non troppo vicino né troppo lontano dallo schermo.
Naturalmente dovetti togliermi il cappello. Mi ravviai i capelli e, all’idea di non poter più contare sul mio rassicurante copricapo, con sollievo pensai che presto l’intero mio viso sarebbe stato in ombra. Quindi affascinantissimo!
Portava un dolcevita sotto la giacca e non potei fare a meno di notare i pettorali ben delineati sotto il tessuto. Forse faceva sport. Comunque appariva in perfetta forma fisica. Pensai alle mie carni femminili, mediterranee e … assai poco ginnasticate. E al mio esile, aggraziato scheletrino che le sosteneva. Intanto, veniva trasmessa musica per niente rilassante e a volume tale da assordare i presenti. Quando le luci si abbassarono, cominciarono a mandare trailers di vecchi film che nulla avevano a che vedere con Greeneway. Io avevo cominciato a pescare nella borsetta alla ricerca delle gomme da masticare. Ne prese una anche lui e, nell’attesa, cominciammo a ruminare.
Lo avvisai: “Potresti cominciare a sentire la mia pancia brontolare …”
“Hai fame?”
“No no. Dicevo per la gomma …”
“Credo che sopravviverò. Hai mai sentito l’acqua gorgogliare sotto la terra?! È come il brontolio di una pancia”
“È vero” sorrisi “In campagna mi è capitato di sentire la terra brontolare. Ed era l’acqua”
Le luci si abbassarono ulteriormente e noi ci tappammo.
Braccia leggermente conserte tutti e due. Nessuna intenzione di aprirci, mi chiesi?
Lo avrei scoperto nel proseguimento della serata.
Il film ci catturò entrambi. Io riandai col pensiero a qualche anno prima quando l’avevo visto con un ragazzo che, alla fine, mi aveva chiesto con imbarazzo se lo consideravo un maiale.
Chissà lui a che pensava.
Rapiti da immagini, musica, parole non stabilimmo nessun contatto fisico quasi che quella comunione di emozioni condivise bastasse, per allora, ad unirci.
Quando la sigla finale terminò, non ci muovemmo subito finché lui disse: “Allora è lontana la giornata di lavoro?”
“La giornata e tutta la settimana” risposi vagamente illanguidita.
“Sì, certo. Ora la serata comincia …”
“Ah sì?!”
“Sì: siamo rilassati al punto giusto”
“Avevi calcolato anche il tempo di cottura?”
“Nessun calcolo. Solo una fondata speranza di riuscita”
“E quali altre speranze di riuscita nutri?”
“Banali, banalissime speranze”
“Come …”
“Come farti innamorare di me …”
“Addirittura?! Non ti basterebbe portarmi a letto?”
“No. Non mi basterebbe” affermò serio.
Non replicai. Non ero pronta a quella svolta e una battuta per buttarla sul ridere mi sembrava inopportuna. Perciò stetti zitta.
Per rompere il silenzio, cambiando discorso, chiesi “Dove mi porti adesso?”
“A soddisfare i nostri languori … a tavola e a letto” rispose sorridendo con tono scanzonato.
“Uhau! Sembro forse così affamata?” continuai sullo stesso tono.
“Sono io ad esserlo”
“Troppo galante o bugiardo a dire così”
“Perché galante? Bugiardo poi …”
“Galante a non dire che sono io ad apparire affamata. Bugiardo perché non sembri proprio la persona che si trascuri al punto di soffrire la fame. Di nessun tipo” dissi con tono che, ahimè, risultò piuttosto piccato.
Questa volta fu lui a non replicare.
Era come se, in una conversazione leggera e senza impegno, ci imbattessimo in sentieri di seria suscettibilità in cui si rischiava di restare prigionieri delle nostre paure e debolezze che volevamo, per il momento, tenere nascoste. E, per non impelagarci ancora di più in terreni infidi e scivolosi, sabbie mobili del dialogo, reagivamo con eloquenti silenzi precauzionali.
Fu lui a sbottare: “Ti piace il pesce?”
“Sì, vengo da una zona di mare. Da una zona in cui quello che qui si chiama branzino da noi si chiama spigola”
“Già … da una zona in cui le sere d’estate si respira l’inconfondibile profumo della macchia mediterranea”
“E tu come fai a saperlo?”
“Lo so”
“Non vuoi dirmi come?”
“Per ora no”
“E cos’altro sai di me?”
“Non molto, ma abbastanza per averti seguito e chiesto d’uscire sotto la pioggia”
Chissà perché, decisi di non indagare ulteriormente e, per la seconda volta, giudicai prudente cambiare tono. “Si va a mangiare pesce quindi?”
“Questa era l’idea. Se ti va ovviamente”
“Mi va”
Arrivammo così alla macchina e non mi sfiorò per niente il pensiero che stavo per salire in auto con un quasi sconosciuto. Allacciammo le cinture e lui accese la radio.
“È distante il ristorante?”
“No. Non tanto. Saremo lì in cinque minuti”
“Sarà un problema trovare parcheggio”
“C’è un parcheggio a pagamento”
“Ah!” e non dissi più niente. Nemmeno quando notai che lui mi lanciava qualche occhiata di sbieco.
Il ristorante era chic ma non mi sentivo affatto fuori posto. Venimmo collocati in una zona intima e poco affollata. Sembrava l’ideale per quella serata.
Con sollecitudine professionale, ci furono portati i menù e potemmo così ordinare. Io, per non dovermi destreggiare con spine, spinette e spinettine, ordinai una sogliola alla griglia con contorno d’insalata mista e lui, dopo un’antipasto di cozze e una spaghettata all’astice, si fece portare tre triglie al cartoccio. Con fare familiare, mi mise una coda nel piatto. Dissi che erano ottime ma pensai che non erano certo come quelle che cucina la mia mamma. Nemmeno il vino era corposo come quello prodotto dal mio babbo ma non essendo per niente un’intenditrice non potevo permettermi nessun tipo d’apprezzamento. Anche perché doveva essere sicuramente di qualità visto che il cameriere aveva usato tutti gli accorgimenti da esperto sommelier creandomi un quasi attacco di ridarella quando l’avevo visto infilarsi praticamente il tappo nelle narici. L’ho detto: non sono un’intenditrice e mi sentivo scema da parte sua …
Non rinunciammo al dolce. La coda di triglia aveva creato un precedente e, con fare familiare quanto il suo, questa volta fui io a spezzare la decorazione di cioccolato della sua mousse ma lui non fu da meno e immerse il suo cucchiaino nella mia (al limone).
Per qualche istante mi chiesi se agivamo davvero spontaneamente o eravamo preda dei residui di ancestrali rituali di corteggiamento.
Per concludere io chiesi un mirto e lui caffè e ammazzacaffè.
“Non mangi tanto” mi disse.
“Ma si che mangio”
“Abbastanza per tenerti in piedi”
“Più che abbastanza”
“Non hai preso la pasta e non hai toccato il pane”
“In compenso ho mangiato il dolce. Dobbiamo ancora parlare delle mie scelte dietetiche?”
“No, certo che no, se non ti va. Queste tue scelte … ‘dietetiche’ rispecchiano scelte simili anche in altri settori?”
Per un po’ lo guardai senza rispondere, poi dissi: “Certo se il menù non prevede nessun piatto che possa apparire di mio gradimento, preferisco l’astinenza”
“Magari anche il digiuno …?!” aggiunse lui interrogativo.
“Magari anche il digiuno” affermai io.
“Ed io stuzzico il tuo appetito?”
“Penso di non fare eccezione alla regola”
“E sarebbe?”
“Che tu stuzzichi l’appetito di tutte le donne che incontri”
“Esagerata!”
“No, credo di no” e aggiunsi “Se, come ho detto prima, non sei uno che sembri si lasci andare a soffrire i morsi della fame, perché hai invitato me? Per aggiungermi alla lista?”
Finse di non comprendere chiedendo: “Quale lista?”
“Quella delle donne che collezioni”
“Non sono un collezionista. Solo un modesto intenditore”
Un puttaniere avrebbe detto mia nonna, ma non glielo rivelai. “Questione di etichette”, dissi.
“Mettila come vuoi. La cosa ti disturba?”
“Affatto” dissi ma non potei fare a meno di aggiungere: “Però non capisco cosa ci faccia qui con me stasera …”
“Te l’ho già detto. Nutro una soave speranza …Farti innamorare di me”
“Già, l’hai detto. Se io a mia volta dicessi che è una strategia per portarmi a letto, replicheresti che non hai bisogno di simili espedienti …”
“Infatti” confermò.
“Infatti” ripetei.
Ci guardammo negli occhi. Sapeva, come lo sapevo io, che saremmo finiti a letto assieme. Quella sera.
Tenne il mio cappotto mentre me lo infilavo e, ancora una volta sistemai il mio cappello che, per un po’, avevo scordato.
Risalimmo in macchina. Mi aveva leggermente sfiorato solo mentre uscivamo dal ristorante ed ero curiosa di sentire con quali parole mi avrebbe proposto di proseguire la serata.
Venni presto accontentata. Non accese la radio e, prima di mettere in moto, per pura cortesia fece la sua domanda retorica: “Ti va di venire a casa mia?”
“Mi va”. Risposta scontata.
Non parlava e, a quel punto, non sapevo più che dire.
Non avevo voglia di pensare né alla mia depilazione né alla persistenza del mio profumo né al mio alito. Eravamo lì insieme e diretti verso casa sua per passare una strepitosa notte d’amore.
Più, ben più di quanto avessi osato sperare. Perciò mi rilassai fissando il buio.
La sua casa era in una bella zona residenziale della città. Salimmo in ascensore e, per quanto anche gli ascensori siano ormai entrati nell’immaginario collettivo come luoghi in cui lasciarsi andare a più che tenere effusioni, nemmeno questa volta mi toccò.
Entrati nel suo appartamento, mi sfilai il cappotto e dovetti nuovamente togliere il cappello su cui avevo fatto tanto affidamento. Ero lì, a casa sua, stavo per andare a letto con lui. Non aveva senso seguire Joe Cocker e spogliarmi di tutto tranne del cappello. Lui appese cappotto e cappello. Si tolse il soprabito e mi chiese se volessi qualcosa da bere. Presi un amaro e stranamente anche lui mi fece compagnia.
“Pensavo che avresti scelto qualcosa di più forte”
“Mah … Chissà perché mi va questo infuso d’erbe”
Ci sedemmo a fianco sul divano. Dopo qualche sorso, lui prese i bicchieri e li posò sul tavolino. Mi passò una mano sulla nuca e, con una leggera pressione, avvicinò il mio viso al suo.
“Vorrei che continuassimo a sorseggiarlo come il thè de Il piacere” mi sussurrò.
Presi il mio bicchiere. Bevvi un sorso senza ingoiarlo e avvicinai le mie labbra alle sue.
Squillò il telefono e, presa alla sprovvista, invece di concludere l’impresa, ingoiai il liquore. Lui mi guardò con disappunto e “Avrei potuto lasciarlo squillare” disse.
“Rispondi. Potrebbe essere importante, a quest’ora. Intanto posso andare in bagno?”
“Certo”
“Da che parte?”
Me lo indicò mentre si dirigeva verso il telefono.
Portai con me la mia borsetta contenente il kit d’emergenza per rinfrescarsi fuori casa. E pensai che non dovevo dimenticarmi di dirgli di usare il preservativo.
Quando tornai, lui aveva già finito e aveva già ripreso il suo bicchiere.
Io, appoggiando la borsetta su una sedia, lo guardai interrogativa.
“È caduta la linea. Richiameranno”
Posò il suo bicchiere e, guardandomi, si diresse verso di me.
Abbracciandomi alle spalle, mi sospinse verso la camera da letto. Si fermò davanti allo specchio. Con una mano scostò i miei lunghi capelli e, divaricando le gambe per trovarsi all’altezza giusta, mi baciò sul collo. Appoggiò l’altra mano sul seno e, destreggiandosi con le dita e i bottoni, cominciò a slacciarmi la giacca. Ci vedevo riflessi e sentivo la pressione del suo corpo sul mio. Sospirai. Anche lui sollevò lo sguardo e, fissando i miei occhi riflessi nello specchio, con entrambe le mani continuò a sbottonarmi la giacca. Me la sfilò e la poggiò su una poltrona. Mi accarezzò le braccia nude e fece per sfilarmi il top che indossavo, quando il telefono ricominciò a squillare.
Baciandomi nuovamente sul collo “Scusa. Devo andare” mormorò. E, immemore del suo rimbrotto precedente perché io avevo interrotto l’opera, si allontanò.
Restai lì a guardarmi riflessa nello specchio. Non potevo stare come una pera cotta e pensai a come farmi ritrovare da lui.
Mi piaceva troppo l’idea che lui continuasse a spogliarmi piano perciò scartai il pensiero di farmi trovare nuda sotto le lenzuola. Scartai anche l’idea di farmi trovare sdraiata sul letto col sedere all’aria e lo sguardo verso l’ingresso oppure immobile in attesa in una femminilissima, inequivocabilmente invitante quanto assai poco elegante, posizione a cosce di rana.
Misi la mia giacca sulla spalliera della poltrona e mi sedetti lì. Appoggiai la testa alla spalliera e forse mi assopii leggermente perché, complici i tappeti, non mi accorsi del suo rientro finché sentii le sue mani sulle mie ginocchia. Aprii gli occhi e lui, in ginocchio da me, poggiò la testa sul mio grembo. Passai una mano sui suoi capelli mentre lui insinuava le sue tra le mie cosce. Portavo le autoreggenti. Non gli sarebbe stato difficile raggiungere ciò che voleva.
Improvvisamente, lo sentì ritrarre le mani e lo vidi rialzarsi quasi piegato in due.
“Che succede?” chiesi allarmata “Posso fare qualcosa?”
“Niente … Le cozze …credo” e corse verso il bagno. Si rinchiuse ed io, non volendo essere importuna, prudentemente mi rivestii e mi spostai nuovamente nel salotto. Curiosai tra le videocassette ed accesi la TV.
Dopo un quarto d’ora circa, lui ricomparve bianco come un lenzuolo e con gli occhi lucidi.
“Ti sei rivestita. Sì, non è la serata giusta per le follie d’amore. Mi spiace. Ti chiamo un taxi”
“Spiace anche a me. Andrà meglio la prossima volta”
“Peggio sarebbe difficile”.
E intanto, per la terza volta, il telefono squillò nella notte. Rispose solo per dire che avrebbe richiamato lui di lì a poco. Dopo di che compose il numero del radio taxi. “Non sono nelle condizioni di riaccompagnarti …Scusa” disse.
“Non è un problema”
Presi il cappotto. Lui mi aiutò. Tenni il cappello in mano.
Scendemmo ad aspettare il taxi che arrivò dopo qualche minuto.
Mi sfiorò i capelli con le labbra dicendo: “Ti richiamerò!”
“Si. A presto! Abbi cura di te” e salii sulla vettura.
Giunta a casa, ebbi la forza di spogliarmi, lavarmi i denti, struccarmi e infilarmi sotto le lenzuola.
Crollai. Non c’era adrenalina che tenesse. Mi sentivo stanca da morire e mi addormentai anche senza i tappi alle orecchie. Sapevo che ci saremmo rivisti.
III
Passai un sabato e una domenica tranquilli. Non sapendo nemmeno il suo cognome, non ero in grado di chiamarlo. E del resto, visto che lui non aveva il mio numero di telefono di casa, non mi aspettavo di essere chiamata. Uscii con gli amici ma non parlai con nessuno del mio nuovo incontro.
Non stetti a rimuginare sul non accaduto perché non accadde per un puro inconveniente passeggero, perché sarebbe certamente accaduto nel futuro prossimo e perché l’attesa del piacere è essa stessa piacere, come dicono i messaggi dei Baci Perugina.
Perciò mi preparai psicologicamente ad una nuova settimana di lavoro gratificante e nobilitante.
Il lunedì riprese a pieno ritmo. Il capo, come all’inizio di ogni nuova settimana di lavoro gratificante e nobilitante, era nervoso. La mia collega mi chiese come fosse andato il week-end ed io risposi con un vago: “Come al solito. E tu?”.
Lei era stata dalla suocera a Saronno, se non sbaglio. Non mi preoccupo di memorizzare come passa le serate e i fine settimana perché non è che mi importi granché. Ci lamentammo ancora una volta dei nostri alloggi in cui non penetrava nemmeno la luce del giorno, che sarebbe un lusso ingiustificato chiamare “uffici”, e dei nostri magri stipendi che a malapena ci permettono di sopravvivere. Senza peraltro giungere alla decisione di esporre le nostre lamentele al boss.
E così, come ogni volta, riprendemmo a sgobbare come muli. Strapazzate dal Grande Capo e tormentate da clienti molesti e rompiscatole.
Come l’altra volta, mi chiamò a fine giornata. Avevo aspettato quel momento sapendo che sarebbe arrivato con certezza ma fui ugualmente felice di sentirlo come se si trattasse di un’imprevista piacevole sorpresa.
“Stai meglio?” mi affrettai a chiedergli.
“Si decisamente, però ho lavorato solo di pomeriggio. Stamattina non ero decisamente in forma. Non sei delusa per il finale della serata?”
“Beh non era esattamente quello che mi aspettavo. Che ci aspettavamo. Un imprevisto antipatico, soprattutto per te, immagino”
“Senti, io devo andare fuori città per questa settimana. Ragioni di lavoro. Potremmo vederci sabato prossimo. Che ne dici?”
“Sabato prossimo non posso. Verranno i miei genitori a trovarmi e sarò impegnata a fare la guida turistica …”
“Ahimè, come farò a resistere?! Accidenti, accidentaccio alle cozze! Potresti darmi il tuo numero di telefono? Potrò almeno sentire la tua voce”
Già! La mia voce. Il mal di gola era passato e la voce era tornata quella di sempre senza che me ne fossi data pensiero. A che pro, del resto? Lui voleva me.
Gli diedi il numero di cellulare chiedendogli di chiamarmi dopo il lavoro.
Mi chiamò il mercoledì alle diciannove e trenta. Ero da poco rientrata a casa e avevo fatto a tempo a mettermi in vestaglia. Fu una conversazione breve. Mi chiamava dalla Svizzera, disse, e non poteva trattenersi. Si preoccupò d’informarmi, però, che stava bevendo un aperitivo pensando all’amaro che avrebbe dovuto sorseggiare dalle mie labbra. Feci a tempo a rassicurarlo dicendogli che il piacere era solo rimandato poi cadde la linea. Per quella sera il cellulare non squillò più.
Andai a letto contenta d’averlo sentito e di sapere che aveva pensato a me, fosse anche solo per il breve tempo della durata della telefonata.
Mi richiamò il venerdì sul tardi solo per dirmi che non mi avrebbe disturbato durante quel fine settimana visto che dovevo tenere compagnia ai miei genitori, che il pensiero di me, di noi due assieme, gli aveva catturato la mente e un’altra intera settimana d’attesa gli sembrava troppo.
I miei genitori erano arrivati all’aeroporto qualche ora prima. Avevamo cenato a casa mia: loro, mia sorella, il marito ed io. Poi li avevamo accompagnati all’albergo.
Il giorno dopo ci svegliammo per tempo per raggiungere Santa Maria Delle Grazie dove avevo prenotato la visita al Cenacolo. Per un quarto d’ora, tanto durano le visite programmate, contemplammo da ogni prospettiva quel che il tempo ci ha lasciato di quel capolavoro.
Un quadro in azione. Un dramma sulla parete … così diceva il depliant.
Allo scadere dei quindici minuti l’altoparlante ci invitò a lasciare la sala con un “Exit, please!” e così, camminando a ritroso, ci dirigemmo verso l’uscita.
Visto che eravamo di passaggio, ci fermammo al Museo Archeologico. Devo dire che fu una solenne delusione. E visto che era una bella giornata, decidemmo allora di vedere la Madunnina da vicino e così salimmo sul Duomo. Più che il paesaggio ammirammo il cielo aperto e ci godemmo il sole.
Girare per i negozi del centro tra la folla non ci entusiasmò e, per l’indomani, programmammo una gita al lago di Como.
Avvistammo il Resegone e seguimmo l’“itinerario manzoniano” giungendo fino a Mandello del Lario, se non ricordo male.
Il lago era circondato dalle montagne a trecentosessanta gradi. L’aria era pulita e frizzante e il vento leggero e piacevole. Si respirava pace e cordialità paesana. Era un altro mondo rispetto alla caotica, alienante, menefreghista, inquinata etc. etc. Milano.
Mangiammo in una trattoria e ripartimmo sul tardo pomeriggio. A qualche chilometro dalla città, una colonna di macchine che sembrava interminabile ci allontanò definitivamente da quel paesaggio da cartolina. Di lì a poco, facemmo ritorno alla metropoli fagocitante uomini e storie nell’anonimato.
Lunedì mattina mio padre aveva un impegno di lavoro. Sarebbero ripartiti al pomeriggio. Dopo esserci rinfrescati, i miei genitori in albergo, mia sorella e il marito a casa loro ed io a casa mia, cenammo in ristorante. Io ero già di malumore pensando al lunedì. Non avevo pensato all’appuntamento che mi attendeva ma solo all’estenuante settimana di lavoro.
Salutammo i miei genitori davanti all’albergo. Ci saremmo rivisti per Pasqua e non vedevo l’ora di avere qualche giornata di vacanza da trascorrere coi miei. Mi aveva fatto piacere rivederli. Loro che erano venuti a trovare le figliole lontane.
Naturalmente nemmeno a loro e a mia sorella avevo detto di Michele.
Non parlavo delle mie storie anche perché non avevo granché da raccontare.
Alle undici mio cognato e mia sorella mi scaricarono davanti a casa. Alle undici e sette minuti, il cellulare squillò. Non era un numero criptato. Era Michele e mi chiamava da casa sua.
“Come è andata?”
“Tutto bene. E tu?”
“Sono andato in montagna. Sai sciare?”
“No, non so sciare”
“Te lo insegnerò”
“Se vorrò imparare”
“Perché non dovresti volere?!”
“Perché dovrei?!”
“Fa niente, se non ti va”
Non mi andava. Già mi vedevo ruzzolare ruzzolare ruzzolare … travolgendo le altre persone e andando sicuramente a schiantarmi contro un abete.
“So nuotare però”
“Anch’io”
“Non ho niente da insegnarti allora”
“Non si può mai sapere … Non voglio trattenerti. Sarai stanca. Ti richiamerò domani”
E, con quel soave pensiero in testa, mi misi a letto.
IV
Il mattino seguente, solito risveglio dolente del lunedì.
I miei arrivarono a destinazione alle diciotto e trenta. Il volo era andato bene anche se c’era stato un immancabile ritardo.
Poco dopo aver sentito i miei, il cellulare squillò.
Era lui.
Visto che quel venerdì era vacanza, mi propose di passare il fine settimana in una sua villa a Brescia su La Maddalena. Accettai. Sapevo che La Maddalena era una collina costellata di ville splendide circondate da giardini floridi. Non venni delusa.
Passò a prendermi il venerdì mattina alle nove. Alle dieci stavamo già scaricando i bagagli. Anche se quelli che ci aspettavano erano tre giorni di passione sfrenata da passare a letto, io, che dovevo sentirmi pronta ad ogni evenienza, riuscii a fatica a contenere la mia roba in un solo borsone.
Appena vidi la villa “Allora è davvero tua?” sbottai.
“Già: è davvero mia!”
“Allora sei davvero ricco?”
“Già: sono davvero ricco!”
“Ricco come?”
“Sai come si dice … Finché uno lavora per i soldi non è ricco. Uno è ricco quando sono i soldi a lavorare per lui. E devo ammettere che per me lavorano molti soldi”
“Per me no. Io non sono decisamente ricca. Mi chiedo cosa ci faccio qui con te”
“Sei qui con me. E per far quello che siamo venuti a fare i soldi non servono”
“E cosa siamo venuti a fare?”
“Morire d’amore, mia cara”
“Morire?! D’amore?!”
“Morire d’amore”
“È una cosa bella?!” gli chiesi con uno sguardo che doveva sicuramente essere da ebete.
“Sciocca che sei. È un modo elegante per dire che scop…”
“Basta. Credo di aver capito il concetto”
“Fino a …” sorrise
“Ti ho detto che ho capito!”
Un puttaniere elegante, avrebbe detto la mia saggia nonna.
Ed io, la sua puttanella di turno!
Non era quello che volevo?!
Dopo aver terminato di scaricare i bagagli, mi fece visitare la villa e il giardino. Qui si respiravano pace e ricchezza. Erano nell’aria, come l’ossigeno e l’anidride carbonica. Il giardino era curatissimo e la villa, arredata lussuosamente ma con gusto, era perfettamente in ordine. Tutto era lindo e fresco.
Disse di aver lasciato i custodi liberi e che loro erano stati ben felici di poter tornare al loro paese per qualche giorno.
Salimmo a piedi in cima alla collina e, giunti – ahimè - alquanto spompati (lui non meno di me), da lì mi fece ammirare uno splendido paesaggio. Mi scattò alcune foto e chiedemmo a un passante di scattarcene due assieme.
Quando l’ora di pranzo si avvicinava e i languori della fame cominciavano a farsi sentire, ci riavviammo verso casa.
A nessuno dei due piacevano le pubbliche effusioni d’affetto e forse non erano solo i languori della fame a farsi sentire.
Arrivati a casa, ci dirigemmo dapprima verso il bagno poi facemmo rotta verso la cucina.
Ero convinta che avremmo dovuto aspettare ancora e invece la sua custode aveva lasciato tre diversi sformati di verdure che, a detta di Michele, erano ottimi anche freddi. Lui si mise ad affettare salumi e a tagliare formaggio ed io, non sapendo che fare, stetti a guardarlo.
Mi piacciono gli uomini che sanno destreggiarsi in cucina. Glielo dissi.
“E così sembra proprio che si delinei di me il quadro del perfetto principe azzurro”
“Così sembrerebbe. Dove sta il trucco?”
“Non c’è trucco! Non c’è inganno!”
“Sicuro?”
“Sicuro!” ed era serio.
Mangiammo con avidità. Noi due. Felici come due bambini.
“Ho comprato anche il mirto che ti piace”
“Bravo. Ti sei ricordato. C’è chi non ha memoria per le piccole cose. E invece sono importanti. Non credi?”
“Si, credo che anche le piccole cose quotidiane siano importanti. Una scarsa attenzione per ciò che ad uno piace o per il suo modo di vestire potrebbe essere caratteristica di una persona troppo concentrata su se stessa”
“O sulle cose profonde, non superficiali, della vita”
“Forse. Potrebbe essere. Ma io ho che fare più coi menefreghisti pieni di sé che con gli asceti lontani dal mondo materiale delle piccole cose”
“È difficile essere ricchi?”
“Non posso essere ipocrita. È sicuramente più difficile essere poveri”
“Su questo non c’è dubbio”
“Ci beviamo il mirto sul divano?!”
Era quasi un ordine, più che un invito.
Mi diressi verso il divano mentre lui riempiva i bicchieri.
Mi accomodai mentre lui si dirigeva verso di me.
Mi porse il bicchiere che portai subito alla bocca. Lui fece lo stesso col suo mentre prendeva posto a fianco a me.
Ingoiai il liquore guardandolo. Lui posò il bicchiere.
“Vuoi sorseggiarlo come il thè de Il …”
La frase rimase a metà.
“No, adesso sarebbe una tortura. Non posso più aspettare” sussurrò prima di impadronirsi della mia bocca. Golosi e avidi come con il pranzo.
Poi si staccò da me. Si alzò e mi prese per mano.
Mi condusse con sé verso la camera da letto.
Le tende creavano una soffusa luce calda. Si tolse il pullover mentre io mi toglievo il mio. Restammo in jeans e camicia. Cominciò ad armeggiare coi bottoni della mia mentre io cominciai a sbottonare la sua. Gli accarezzai il petto mentre lui mi sganciava il reggiseno. Ci abbracciammo e ci baciammo nuovamente mentre cominciammo a sganciarci i jeans. Ci aiutammo coi piedi per sfilarceli.
Mi condusse verso il letto. Eliminò i due ultimi indumenti che si frapponevano ad un completo contatto dei nostri corpi. Perdemmo la cognizione del tempo e non solo.
V
Ci addormentammo l’uno nella braccia dell’altro. Felici e appagati.
Quando ci risvegliammo il sole era già tramontato.
Mi diressi verso il bagno più vicino alla camera. Mentre mi attardavo sotto la doccia, lui mi raggiunse. Si fece sentire prima d’entrare. Altrimenti sarei sicuramente morta dallo spavento.
“Volevo darti una mano ad insaponarti la schiena …”
“Anche due, se ti va”
“Mi va. Mi va” e cominciò a massaggiarmi le spalle scendendo lungo la schiena fino ai fianchi. Poi mi passò le mani sul ventre e risalì verso il seno. Quindi mi fece voltare.
L’acqua continuava a scorrere.
Insomma, per farla breve, il nostro week-end trascorse tra la camera da letto, il bagno, la cucina e qualche passeggiata in collina per schiarirci le idee.
Il tempo passò velocemente come sempre quando lo si trascorre intensamente.
Prima di lasciarmi davanti a casa, “Ci rivedremo ancora, vero?” domandò.
“E me lo chiedi?!” replicai.
“Mi chiedevo se ti fossi stancata di me”
“Di già?! Sei mica un pesce!”
“Che?”
“Non cominci a puzzare dopo tre giorni”
“Ah! Grazie tante! Mille grazie!”
“E poi voglio consentirti di raggiungere il tuo scopo”
“Perché?! Non sei già innamorata di me?!”
“Innamorata a prima vista! Al punto di venire a letto con te”
“Già, al punto di venire a letto con me. E di andare oltre?” chiese senza sorridere.
“S’ha da vedere” risposi sorridendo, questa volta.
Forse mi sarei dovuta fermare a riflettere ma, per una volta, volevo concedermi la grazia di non rimuginare sui perché e sui per come. Stava accadendo, mi piaceva, ero felice, eravamo felici.
Decisi di non porre troppe domande alla sorte e di accettare quel che era successo, che succedeva e che sarebbe successo in futuro come un regalo del destino, come il soffio di un vento propizio da cui un uccello può farsi trasportare leggero.
Forse se mi fossi fatta qualche domanda ora non sarei qui sola. Forse, però, non sarei nemmeno stata per tanto tempo assieme a lui.
Trascorsero tre mesi di incontri, uscite e giornate tappati in casa. Ci faceva piacere vedere un film assieme, andare a teatro assieme, fare una passeggiata nel parco assieme, visitare una mostra assieme, fare una gita fuori città assieme ma anche stare in casa a cucinare, guardare vecchie foto, leggere un libro, ridere e naturalmente fare l’amore. Assieme.
Era passata anche la primavera e il caldo cominciava a farsi sentire.
All’imbrunire di una sera di giugno, mentre piccoli scorci di cielo striati di rosa s’intravedevano tra i palazzi alti, c’incontrammo dopo due settimane di quasi totale silenzio.
Non ci scusammo né ci chiedemmo spiegazioni reciproche. Sapevamo che chi di noi non si era fatto sentire (lui), l’aveva fatto perché doveva avere una buona ragione e chi di noi non aveva asfissiato l’altro con telefonate inquisitorie (io) l’aveva fatto perché tra noi si era, proprio col silenzio, instaurato un forte rapporto di fiducia reciproca e di rispetto per la libertà altrui che non ci costringeva a continue conferme della solidità di quel rapporto. O così allora credevo.
Ora dubito anche di questo.
Soprattutto di questo.
Quella sera cenammo a casa sua.
Era sereno ma particolarmente taciturno e senza voglia di scherzare.
Quando finimmo di mangiare, disse che aveva qualcosa di importante da dirmi.
Restai in attesa per qualche minuto guardandolo mentre sorseggiavo un digestivo.
Mi disse che non poteva spiegarmi il motivo ma che per qualche tempo sarebbe stato assente e che non ci saremmo potuti vedere. Mi chiese se ero disposta ad accontentarmi di quanto mi aveva detto e se mi fidavo di lui. Gli assicurai di sì. Quindi si allontanò per tornare poco dopo con un pacchetto accuratamente confezionato. Si vedeva che proveniva da una gioielleria. Lo scartai e lo aprii.
Conteneva un delizioso orologio da polso. La cassa, il cinturino e le lancette erano d’oro. Piccoli smeraldi incastonati su una base di madreperla indicavano le ore. Era molto prezioso e si vedeva. Era un gioiello più che uno strumento per misurare il tempo. Eppure lui, sorridendo per la prima volta nella serata, disse: “È perché tu non veda l’ora di rivedermi …” e me lo mise al polso, dopo avermi tolto il mio Swatch di plastica.
“Non era necessario. Non dovevi farlo” dissi
“Non dovevo. Volevo”
“Grazie. È molto bello”
“Promettimi che lo userai”
“ Lo userò”
“Tutti i giorni”
“Tutti i giorni. Sperando che a qualcuno non venga la tentazione di tagliarmi il polso”
“Non ti succederà niente”
Non mi successe niente. Non successe niente. Era da più di un mese che non lo sentivo. E questa lontananza, questo silenzio cominciavano a logorarmi. Per quanto ancora dovevo aspettarlo?
Il dubbio che mi avesse mentito, che avesse solo cercato un modo singolare –non più di tanto - e vigliacco – più di tanto - per scaricarmi e liberarsi di me cominciò a insinuarsi nella mia mente, martellante come i rintocchi di una campana e irritante come il ticchettio di una sveglia mentre sei a letto e vorresti dormire. Presto sarei partita per le vacanze. Speravo così di distrarmi e di non arrovellarmi il cervello pensando a lui. A lui che non c’era. A lui che mi mancava.
E invece … eccomi qui.
Qui a ripensare alla verità di Alice. Quella grande verità che non avrei mai dovuto scordare. Neppure per un momento.
Ahimè, comincio a credere che anche lui non faccia eccezione alla regola.
Ripeto: sono stata una fessa a dimenticare, nel momento in cui sarei dovuta stare all’erta, questa verità illuminante. Ma, come ho già detto, per tanto tempo la mia mente è stata come obnubilata.
Ho vissuto i mesi passati come in sogno, inebetita e vulnerabile.
Ed ora non posso non fronteggiare la realtà. E la verità di Alice.
Lui è un bono. Quindi è come un cesso pubblico. Ergo: sicuramente occupato.
Tu cosa pensi che dovrei fare?
VI
Rita, facendo scorrere la sabbia sottile tra le dita, dopo aver a lungo fissato il mare e l’orizzonte, la guardò.
Il vento le aveva asciugato i lunghi capelli mossi. Il sole dava una luce particolare ai suoi riflessi ramati e aveva accentuato, moltiplicandole, le efelidi sul suo viso minuto.
Non aveva voluto interromperla. Perché era presa dal suo racconto, perché le piaceva sentire la sua voce. Perché, per circa un’ora, la sua mente era stata distratta da quello che era diventato il suo pensiero dominante. Perché Giulia sapeva ammaliarla con le sue parole come sapeva tacere quando era lei a parlare. Questa volta aveva preferito ascoltare.
Perché non voleva asfissiare Giulia coi suoi problemi. Per non dover pensare. A lei e a Mario.
Dopo cinque anni, il loro matrimonio stava per concludersi con una separazione.
“Non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito” … E invece …
Invece loro due, come tanti, osavano. Si erano accordati per porre fine alla loro unione, alla loro storia, alla loro con-vivenza.
Non era piacevole e non era un’esperienza indolore. Anche se non avevano raggiunto livelli di meschinità e piccinerie tanto comuni nelle separazioni e nei divorzi. Anche se non erano arrivati a urla di odio e insofferenza. Anche se non erano giunti a rinfacciarsi e recriminarsi a vicenda tutto e il contrario di tutto, dai figli non avuti al più schifoso dei soprammobili andato in pezzi.
Forse proprio per quello.
Si erano spenti. Si era spento l’amore tra loro. Si era spento più dell’amore. Si era spento l’interesse per l’altro, la cura, il preoccuparsi, la voglia di condividere. Tutto si era progressivamente rattrappito nell’indifferenza reciproca. E ora che quell’indifferenza era diventata intollerabile - tanto aveva tolto senso al loro stare insieme -, ora che tutto era stato deciso, il vuoto le dava la vertigine. Dopo che per anni aveva ancorato il senso della sua vita allo stare insieme a Mario, ora doveva dare senso alla vita senza stare insieme a nessuno. E si trovava spiazzata, a tratti esaltata perché ogni strada le sembrava percorribile, a tratti depressa perché ogni percorso sembrava portarla a niente.
Perché lei pensava di essere niente senza un uomo accanto.
Per questo si era piacevolmente impigrita sotto il sole ascoltando il lungo monologo di Giulia.
Perché Giulia sapeva cavarsela benissimo anche senza un principe azzurro a fianco. Ma appunto, Rita pensava, se la cavava. E invece lei voleva riprendere a volare.
La spiaggia era ormai quasi deserta tanto che al posto delle persone cominciavano ad arrivare i gabbiani ad affollarla.
Decisero di tornare in città.
La macchina di Rita era dal meccanico perciò tornarono in bus. Era, nonostante l’ora, parecchio affollato e si trovarono vicine, Rita dietro a Giulia.
Giulia le parlava voltando leggermente la testa verso di lei.
Rita, non che fosse una stangona, era più alta di Giulia e così si trovava a guardare dall’alto quel viso reclinato. Il suo braccio sfiorava le spalle di Giulia e, guardandola mentre sorrideva, si sorprese a pensare di volerla baciare. O che comunque così doveva sentirsi Michele nel ritrovarsela davanti, piccola, vulnerabile e forte allo stesso tempo.
Continuarono a scherzare e, arrivate all’appartamento che avevano affittato per quindici giorni, accesero la radio.
Si guardarono perplesse, incerte se scoppiare a ridere o a piangere, quando sentirono una battuta di dubbio gusto che invece di lenire i loro dolori, li acuiva perché loro apparivano essere due stupide fessacchiotte all’antica, contro tendenza e che ancora non avevano capito niente della vita.
“Perché sempre meno donne si sposano? Perché hanno capito che per un pezzo di salsiccia non vale la pena di prendersi l’intero maiale!”.
Colpite da questa perla di classe e saggezza decisero di andare a mangiarsi una pizza in un nuovo locale sulla litoranea. Perché incupirsi per colpa di quei porci uomini?
Il locale era delizioso, la pizza ottima, le birre … birre (non se ne intendevano), la musica non assordante, l’atmosfera gradevole.
Rita non volle rovinare tutto raccontando dei suoi problemi e di ciò che l’angosciava perciò chiacchierò e scherzò come se niente fosse.
Quando finirono di mangiare, si avvicinarono alla pista da ballo. Com’era di moda, si ballavano balli di gruppo e decisero di lanciarsi anche loro nella mischia muovendo gambe, braccia e bacino al ritmo della musica latino-americana.
Dopo quasi due ore, sentendosi assetate e accaldate, si spostarono al bar a sorseggiare due cocktail rinfrescanti.
Non si accorsero nemmeno di due tipi che, dopo averle prese di mira mentre ballavano, le affiancarono e con fare confidenziale dissero: “Perché non ballate con noi? Certa musica non si può apprezzare senza un uomo …”
Si voltarono ciascuna verso l’uomo che l’affiancava e poi si guardarono l’un l’altra.
Erano due comunissimi esemplari di cessi-cessi, bevutelli al punto di sentirsi arcisicuri di sé e di spingerle prudentemente a non scoppiare a ridere né a rispondere malamente come avrebbero voluto.
Si limitarono a dire con decisione: “No grazie. Adesso siamo stanche”
Replicarono “Ma noi vi daremo nuove forze” e uno afferrò Giulia per la vita.
A quel punto fu il barman ad intervenire: “Le signore hanno detto di no. Su, cambiate aria!”
I due si allontanarono di malavoglia farfugliando parole confuse.
Quando furono sicure che i due erano a distanza di sicurezza, Rita e Giulia scoppiarono a ridere.
“E ti pareva!”
“Non poteva che essere così. Solo i cessi-cessi ti cagano”
“Non esagerare. Non è un cesso-cesso quello per cui adesso soffri di nostalgia”
“Già! Chissà dov’è e cosa sta facendo. Potrebbe anche avere moglie e figli”
“Come diciamo noi, ‘Bai avattu ‘e su tempusu’!”
Bai avattu ‘e su tempusu. Letteralmente: vai dietro al tempo. Vale a dire “Non precorrere i tempi” “Lascia che il tempo faccia il suo corso”.
Sì, Rita aveva ragione, forse stava correndo troppo con la sua testa. Doveva solo avere pazienza e non lasciarsi scoraggiare. Non aveva detto a Michele che si fidava di lui e che l’avrebbe aspettato?! E cos’era successo per farle cambiare idea e atteggiamento?
Niente. Obiettivamente niente.
Ma era proprio quel non succedere, quell’assenza di segnali incoraggianti che le toglievano sicurezza e fiducia.
Del resto si rendeva conto che era del tutto inutile logorarsi. Sembrava però non poterne fare a meno.
Stava soffrendo per amore o per orgoglio ferito?
“È questo quello che devi fare” riprese Rita “Solo pazientare e aspettare. Con fiducia”
Giulia non sapeva quanto fosse fortunata. Perché aveva qualcuno da aspettare. Perché aveva una prospettiva verso cui guardare. Perché era sicura che l’attesa, comunque andasse a finire, non sarebbe stata vana. Lei invece non aveva nessuno da aspettare, niente cui mirare.
Vedeva davanti a sé un abisso e non era sicura di non volerci cadere.
VII
Passò anche il mese di agosto.
Michele non si fece sentire. Rita continuò a mascherare il suo effettivo stato d’animo dietro una, spontanea o voluta, spensieratezza di facciata mentre era con gli altri.
Giulia, ignara del tormento in cui viveva la sua amica, tornò a Milano.
Il lavoro riprese con la frenesia consueta. Tanto da farla stancare al punto di riuscire a dormire nonostante il pensiero di Michele. Perché, proprio nei momenti di “distrazione”, il pensiero di lui si insinuava nella sua mente. Il pensiero dei suoi silenzi, delle frasi interrotte, delle telefonate che riceveva, del modo in cui era entrato nella sua vita, di quello che sembrava conoscere di lei (più di quanto lei stessa gli avesse rivelato) … tutto diventava elemento di una nuova storia che Giulia andava costruendo nella sua testa. Una storia banale, una storia come tante, una storia scontata: quella di un figlio di puttana che si era voluto divertire un po’ togliendosi un capriccio e che poi l’aveva elegantemente scaricata.
Eppure lei stessa, lei stessa che ricostruiva questa storia, rivivendola come un film a ritroso e dando un nuovo senso a tutto ciò che era stato, lei stessa non voleva crederci.
Certo, poteva anche essere. Ma non era quella la storia che aveva vissuto. Perché non avrebbe dovuto credere a quello che aveva provato, a quello che aveva sentito? Perché doveva essere una storia banale? Perché non poteva essere una storia speciale?
Lui non aveva certo bisogno di cercare in lei un’avventura. Lui non poteva certo vedere in lei un capriccio.
O forse sì?
Qual’era la verità? Quella in cui lei aveva creduto, aveva voluto credere? Quella di cui si era scordata, la verità di Alice? O quella che ogni tanto si insinuava nella sua mente? O forse un’altra ancora?
Decise, saggiamente oppure no, di non darsi una risposta. Di andare avattu ‘e su tempusu. Di adottare la let it be philosophy.
Le domande venivano da dentro di lei. Le risposte dovevano giungere dal di fuori.
Dal tempo, dalla realtà oggettiva, dalla natura delle cose. Da lui. Ammesso che si decidesse a rompere il silenzio.
E così si lasciò irretire nel solito tran tran, nella quotidianità ottundente e andò avanti.
Giorno dopo giorno, continuò ad alzarsi per andare al lavoro. Sorrise cordialmente ai clienti. Scambiò frasi di prammatica con le colleghe. Mandò mentalmente a quel paese il suo capo ogni volta che rompeva. Andò a fare la spesa e uscì con gli amici il sabato. Fece le pulizie e si depilò la domenica.
Rita la chiamava ogni fine settimana.
Cercavano di riderci su, cercavano di trovare una qualche attenuante alla loro inettitudine di donne.
Sì, perché, non potendosi certo definire “donne in carriera”, non sapevano nemmeno sposarsi e fare figli come era ancora, nonostante tutto, da qualcuno (o più di qualcuno) considerato conveniente ad una vera donna…!
Rita era sempre stata consapevole della difficoltà di trovare una sintonia nelle risate con le persone ed era felice di aver mantenuto, nonostante la diversità di esperienze, questa sintonia con Giulia. Riuscire a trovare anche il lato ironico di ciò che poteva essere realmente angosciante era un’arma per sopravvivere. Non impediva certo che le “cose” si verificassero, non impediva nemmeno di soffrire. Impediva di irretirsi e di autocompiacersi del proprio dolore. Impediva di andare a fondo. Impediva che le “cose”, per quanto angoscianti e dolorose, prendessero il sopravvento.
Così aveva sempre creduto. Non aveva mai avuto ragione di dubitarne.
Eppure … Eppure erano mesi ormai che la strategia dell’ironia, dell’autoironia, della risata, non funzionava. O non funzionava più come prima. Riusciva ancora a ridere con Giulia ma poi finiva con l’incupirsi nei propri pensieri. E non riusciva a capire perché. Perché, se ormai da tempo era tutto finito con Mario?
Non poteva credere che la separazione le causasse tanto dolore. Ma era come se proprio la separazione avesse aperto un vaso di Pandora dentro di lei. Come se un buco nero la risucchiasse.
E, ne era consapevole, era fortemente tentata di lasciarsi andare. Perché resistere? A chi, a cosa resistere?
Per un abbaglio
Dove la spiaggia è sempre deserta, c’è un bel corpo nudo tra due montagne di poseidonia. È un corpo ginnasticato, tonico e abbronzato. Immobile. Ovvio, visto che è un cadavere, ma non c’è nessun segno di violenza. Nessuna ferita apparente, nè sangue o ematomi visibili. Sembra quasi il corpo di un dio del mare. Forse esagero ma, vedete, il corpo è il mio. Sarà per questo che mi appare ancora così bello. Non starò ancora qui per molto: non voglio assistere alla putrefazione del mio supporto materiale, del mio hardware insomma. Solo il tempo di raccontarvi come sono finito cibo per i vermi nel fiore degli anni, sempre che questo possa interessarvi.
Non è passato molto tempo dalla strombazzata parata gay nella città eterna. Liberi di pensarla come vi pare, ma, sinceramente, non vedo perché si debba essere orgogliosi del proprio orientamento, diciamo così, sessuale: etero, omo, bi etc. che sia. Comunque non è importante adesso.
Tutto è cominciato, o è finito, mentre guardavamo la TV.
Eravamo a pranzo dai miei e mamma: “Ma questo che ci fa? Non aveva detto che la sfilata era inopportuna e che sarebbe stato come fare una sfilata antisemita a Gerusalemme?”. “Incoerente” “Opportunista” “Cocainomane” “Cambiano idea come cambia il vento” e mio padre: “Ma non esistono più i valori? Anche la coerenza è un valore etico”.
In realtà, per me la coerenza è di per sé moralmente neutra: si può essere coerentemente buoni come coerentemente cattivi, o no? Ora posso dirlo dall’alto della mia purezza spirituale. Ma è anche vero quello che dice mio padre: In fondo coerenza significa anche affidabilità e senso di responsabilità, forse.
Fatto sta, che mio padre non sopporta la finzione. Crede che si debba arrivare fino al martirio sociale, dice lui, pur di non vivere da sepolcri imbiancati. Aveva visto più volte me e Paolo insieme. Il nostro “legame” non era più un mistero per nessuno a casa e infatti quel giorno Paolo era a pranzo da noi. Paolo è di qualche anno più grande di me. È una persona serena ed equilibrata. Ci siamo conosciuti in facoltà e abbiamo alcuni interessi in comune, come il nuoto e la lettura, ma soprattutto ridiamo insieme. Se ci pensate, non è poi così facile essere in sintonia sulle risate. Non parlo delle risate “indotte”, da barzellette, battutine o film comici, per quanto sia difficile anche ridere delle stesse barzellette o battutine o trovare divertenti gli stessi film. Per esempio, molti trovano divertenti le disgrazie di Fantozzi. Io no. Si ride di una persona ed io lo trovo per giunta antieducativo. Lo trovavo, mi dimentico di usare il passato. Comunque, dicevo, non è facile ridere delle stesse cose, dello stesso niente. Ebbene, tra me e Paolo c’era questa sintonia. Ridere è un dono degli dei e noi eravamo grati agli dei per questo dono. Dei pettegolezzi della gente non c’importava, né delle risatine o degli sfottò. Ci sentivamo al di sopra di queste miserie umane-troppo-umane.
Come avrete intuito, non sono ancora del tutto pronto a lasciare questo mondo per sempre, e forse è per questo che mi dilungo un po' troppo. Per sempre. Fa paura a tutti, no? Beh, vengo al dunque.
Parlavamo insieme abbastanza pacatamente, come al solito del resto. Poi, rimasti soli, il tono di voce si era alterato e la discussione era degenerata in una, banale e forse prevedibilissima, lite.
“Ma che ti costa? A me puoi dirlo. Non ti ho sempre capito e aiutato?”
“Te l’ho detto tante volte. Non è come credi e come credono tutti. Credete a quello che volete credere.”
“Non capisco perché ti ostini a negare. Lo vedono tutti. È amore, no? E allora dillo! Dillo! Dillo!”
“Amo anche te, se per questo, ma c’è bisogno di annunciarlo per pubblici proclami?”
“Anch’io ti amo, ti ho sempre amato. Lo sai vero?”
E così mi ha stretto a sé. Non ho sentito niente o quasi. Solo una puntura di spillo e lui, da lontano, che diceva: “L’ho fatto per te, perché ti amo e non sopportavo di vederti soffrire ancora per i tuoi tormenti interiori. Il mondo è crudele. Non meritavi tutto quel male”.
Nessun rancore no, ma, vedete, il fatto è che, sì, mi ha sempre aiutato ma non mi ha mai veramente capito. Non ha mai voluto credere che non c’erano tormenti interiori in me, che non vivevo nell’apparenza e che uno degli interessi che Paolo ed io avevamo in comune era l’amore per le donne. Le donne, povero babbo mio!
Depose la penna. Era sempre stata grafomane e il computer non le dava soddisfazione. Scriveva soprattutto quando non si sentiva bene. Questa volta aveva deciso di scrivere per partecipare ad un piccolo concorso di paese. Non aveva mai parlato delle sue velleità letterarie. Nemmeno con Giulia. Così come, quella volta d’estate, non le aveva rivelato di quella improvvisa voglia di baciarla. L’idea non l’aveva nemmeno sfiorata. Non per una qualche forma di ingombrante pruderie, perché, non che sminuisse il sesso, non sentiva niente di sessuale in quell’improvviso desiderio.
Semplicemente voleva tenere qualcosa per sé. Qualcosa di dolce. E per lei era stato dolce desiderare di baciarla. E per lei era dolce scaricare sulla carta la parte insopportabile di se stessa.
Questa volta avrebbe reso pubblico un suo breve, così era richiesto dal bando di concorso, mini-giallo. E aveva deciso di non trincerarsi dietro un misterioso quanto rassicurante anonimato. Non temeva i giudizi della gente, né quello che avrebbero letto coi loro occhi nel suo racconto, perché sentiva che dentro di lei c’era un io irraggiungibile che niente e nessuno poteva sfiorare e scalfire. Forse quell’io era il buco nero che, subdolo, l’ammaliava e a cui ancora resisteva.
VIII
Con la sua opera, Rita arrivò terza su ottantanove e il suo mini-giallo venne pubblicato su un’antologia che raccoglieva The Best dei manoscritti dei partecipanti.
Ne fu contenta, anche se pensò che il suo doveva essere uno tra i meno peggio. Spedì comunque una copia dell’antologia anche a Giulia.
Aveva deciso di andare a trovarla a Milano per qualche giorno e forse più.
Doveva, così si sentiva ripetere, riprendere in mano le redini della sua vita.
E per farlo, anche questo si sentiva ripetere, doveva trovarsi un lavoro. Non che ne avesse bisogno. Nel senso che non aveva la necessità di lavorare per raggiungere l’indipendenza economica. Il giudice aveva stabilito che Mario le passasse una somma più che sufficiente per le sue esigenze.
Non aveva mai lavorato durante il matrimonio sia perché Mario guadagnava più che abbastanza per entrambi sia perché lei si sentiva appagata della sua vita casalinga anche se i bambini tanto desiderati non erano arrivati.
Eppure quelle stesse persone che nulla avevano trovato da dire nel suo stare a casa durante il matrimonio ora, solo perché non stava più assieme ad un uomo, trovavano in qualche modo sconveniente il suo “non far niente”. Quelle persone sarebbero forse state anche favorevoli all’idea che lo Stato corrispondesse un assegno mensile ad una donna casalinga ma solo in quanto moglie e magari madre. Sicuramente non se donna sola, single, separata o divorziata che fosse.
Lei che era ancora giovane, tutti suggerivano, doveva lavorare per sentirsi gratificata, per trovare un senso alla sua esistenza, per superare il peso della separazione, perché solo così sarebbe stata utile agli altri, alla società.
E allora, ammesso e non concesso che le cose stessero così, aveva deciso di visitare la città che del lavoro e del lavorismo aveva fatto una bandiera di cui andare fieri. Del resto, non viveva forse in una Repubblica democratica fondata sul lavoro? Come trovare una propria identità di cittadina se non … lavorando?!
Giulia andò a prenderla all’aeroporto. Si abbracciarono.
“Benvenuta nella Padania o in Polentonia che dir si voglia! Come si sta laggiù in Terronia?” esordì Giulia
“Che?” si stupì Rita
“Dovrai abituarti se deciderai di restare. Sentirai spesso parlare di ‘terroni’. Si dice che qui le barzellette sui terroni siano come le barzellette sulle bionde nel Nord dell’Europa o in America… Ma non dovrai prendertela, anche perché, a sentire alcuni, gli isolani non sono veri terroni. Per altri la Terronia va dal Po in giù. Per altri ancora …”
“OK, va bene. Insomma ci chiedono anche il passaporto e il visto di soggiorno?!”
“No, per ora no. In futuro forse, bella biondina”
“Biondina certo. Bella chissà. Comunque, sono piuttosto stanca. Andiamo subito a casa tua?”
“Sì subito. Così vedrai il mio castello. Ti ho già preparato la poltrona letto in soggiorno”
“E hai cucinato anche una succulenta cenetta?”
“Manco per niente. Andremo a mangiare fuori. C’è un ristorante, non lontano da casa, gestito da un egiziano. Si mangia bene e i prezzi sono abbordabili. A portata delle mie tasche comunque.”
“Bene. E hai già qualche programma per domani?”.
“Nessun programma. Dipende tutto da te. Potremmo girare da turiste o fare shopping oppure … potresti aiutarmi a pulire la casa”
“Bella proposta! Credo che opterò per un giro per negozi in centro. Così, tanto per e senza impegno”
“OK. Tanto per …E tu hai qualche programma per il tuo domani?”
“Programmi precisi no. Ma, visto che posso godere della tua ospitalità, penso di provare a cercarmi un lavoro nella grande città. Qui dovrebbe essere più facile. E poi di cercare un angolino tutto per me”
“Sono possibili entrambe le cose. Sia trovare lavoro che trovare casa. Anche se la ricerca non è semplice. Comunque basta impegnarsi e non demoralizzarsi ai primi insuccessi”
“Insuccessi?”
“Beh … non penserai di trovare lavoro e casa rispondendo al primo annuncio?! Saresti troppo fortunata. Occorre far ricorso a una buona dose di pazienza per trovare gli annunci, leggerli, rispondere, fissare appuntamenti, vedere le case, accordarsi. E, all’inizio, bisogna sborsare anche una somma non indifferente tra caparra, affitto anticipato e spese varie. In quanto a trovare lavoro …”
“Sì, lo so, non ho esperienza, non ho mai fatto niente …”
“Non è questo. È che non è semplice e, come ti ho detto, occorre molta pazienza”
“Pensavo di cominciare con le agenzie di lavoro temporaneo. Andrebbe bene anche a me trovare un lavoro che non mi leghi per troppo tempo … Poi, se il lavoro mi piace, potrei sempre avere la possibilità di continuare … Adesso vanno di moda lavori con nomi nuovi come ‘operatrice di call center’ o ‘data entry’”.
“Entrambe le cose sono alla tua portata, anche perché in genere le aziende fanno dei corsi di inserimento e formazione”
“Bene. Trascorriamo questo fine settimana a poltrire e poi da lunedì comincerò a cercare e a portare il mio misero CV alle agenzie di lavoro temporaneo”
“Te ne farò vedere alcune già domani”
Trascorsero il sabato andando in giro per negozi in centro. Si divertirono ad indossare abiti che non avrebbero mai portato e a provare profumi fino a non distinguerne più nemmeno uno.
La sera, con le gambe a pezzi, decisero di andare al cinema e, della serie, “noi siamo a prova di depressione”, andarono a vedere “Parla con lei” di Almodovar.
“Hai letto anche tu che il regista si è ispirato ad alcuni fatti di cronaca?”
“Sì, per esempio, non mi ricordo dove, un uomo aveva violentato una ragazza di cui si era invaghito e che era in coma. La ragazza si era risvegliata, i familiari paradossalmente furono grati all’uomo che però venne incriminato”
“Già: ecco uno di quei casi in cui bene e male hanno la stessa faccia …”
“E per di più a sentire queste storie vengono molti dubbi sui trapianti da cadavere”
“Sì, anche il concetto di morte è stato cambiato più volte e chi ci dice che quella che è la morte di oggi non sia la vita di domani?”
“Tu hai espresso il tuo dissenso sulla disponibilità all’espianto? Io si”
“No, io no. Più che altro perché penso che l’idea del cartoncino sia abbastanza scema. Basta smarrirlo o potrebbe andare bruciato in un incidente e allora che farebbero? Pensi che starebbero a pensarci due volte?”
“No penso di no. Pensi che sia egoista e retrograda?”
“No. Penso che abbia il diritto ad avere i tuoi dubbi. Anch’io del resto ho i miei. Solo che la tua bilancia pendeva da una parte e la mia dall’altra”
“Già: qualche granello in più dalla parte della vita o della morte”
“Comunque ho letto che il film è anche una gran storia d’amore. È un gran bel film. È un Almodovar d’annata”
“Sarà sicuramente così. Ricordi il primo Almodovar che avevamo visto a Cagliari?”
“Donne sull’orlo di una crisi di nervi …”
“Eravamo scoppiate a ridere prima che iniziasse perché c’eravamo solo noi e altre tre persone”
“E poi non è che ci avessimo capito granché”
“Però avevamo notato già da allora il bell’Antonio”
“Oh! Antonio! Mon amour. Sapevo che avrebbe fatto strada il ragazzo”
“E ne ha fatta sì. Vendendosi a Hollywood!”
“Vendendosi … Ha colto l’attimo e ha seguito l’onda. E, come Sean, migliora col tempo”
“Chissà perché è una cosa che si dice solo degli uomini”
“Non solo. E allora ‘gallina vecchia fa buon brodo’?”
“Gallina liftingata. E poi non credo che lo si dica con lo stesso spirito”
“Vabbè. Amen. Come sono i tuoi cannelloni di magro?”
“Niente male. E il tuo risotto?”
“Passabile. Vieni spesso a mangiare in questi posti?”
“Non spessissimo. Quando non voglio mangiare un panino ma non posso nemmeno permettermi di essere servita in ristorante”
Dopo una macedonia di frutta, si diressero verso il multisala a godersi il film.
Passarono la domenica prevalentemente in casa: uscirono solo la sera a fare una passeggiata nel parco.
Per Giulia era giorno di pulizie e di Silk Epil. E Rita preparò il suo curriculum e organizzò il suo tour per agenzie di lavoro interinale.
IX
Francesca la guardava mentre compilava il modulo. Poco prima l’aveva sentita parlare con la sua collega e dall’accento aveva capito subito che, come lei, era sarda. A vederla, chiunque, prigioniero dell’immagine stereotipata della “sarda”, avrebbe stentato a credere che quella slanciata biondina dagli occhi chiari lo fosse davvero. E invece l’accento non lasciava alcun dubbio. Certo, come diceva il suo amico John, i Normanni avevano trombato molto nei luoghi in cui erano passati. Forse non erano stati i Normanni a passare in Sardegna secoli addietro, i Normanni erano stati in Sicilia, ma comunque tra gli antenati di quella ragazza doveva esserci un uomo del Nord. O una donna. Ma questa era un’ipotesi remota. Per secoli erano stati gli uomini a fecondare le donne delle terre di conquista. Difficile che una povera schiava del Nord fosse stata ingravidata da un ricco indigeno della Sardegna o che un’improbabile matrona straniera si fosse concessa ad un baldanzoso “sardegnolo”. Chissà come li chiamavano, chissà come ci chiamavano, si chiese.
Lo squillo del telefono la distolse dai suoi pensieri.
Notò che la sua conterranea stava per terminare il colloquio e decise di presentarsi.
“Ciao! Sei sarda vero?!”
“Sì. Si sente?”
“Sì. Sono sarda anch’io …”
“Ah … Sei qui da tanto?”
“Dai tempi dell’Università. Ho studiato qui perché allora a Cagliari Psicologia non c’era”
“Ti trovi bene?”
“Diciamo che mi sono adattata. Alla città, ai suoi ritmi, alla gente.”
“A me la Sardegna manca tantissimo”
“Anche a me se è per questo. Non sperare di togliertela dal cuore col tempo. La nostalgia resterà sempre. Dovessi restare qui per una vita”
“Già …”
“Comunque, sai che c’è anche il Circolo dei Sardi qui a Milano?!”
“Ne ho sentito parlare. La sede dà proprio su Piazza del Duomo, vero?”
“Sì. So che ora MTV trasmette da lì … ma, a dire il vero, ci sono stata solo una volta. Il programma era troppo … culturale”
“Troppo culturale uguale palloso?!”, sorrise Rita
“Sì”, annuì sorridendo di rimando Francesca,“ho già le mie di palle quotidiane …”
“Come tutti”
“Già. Ora devo tornare al lavoro. Ti lascio il mio numero di cellulare nel caso ti andasse di uscire assieme ad una conterranea”
“Va bene. Grazie. Ti chiamerò!” si congedò Rita, stringendole la mano.
La sera, come accadeva da mesi, accese il computer, cliccò su Outlook Express e con impazienza aspettò che si attivasse la connessione ad Internet e la sua posta venisse scaricata.
Anche lei, come Meg Ryan, era stata colpita dalla sindrome “C’è posta per te!”. Aveva tre indirizzi di posta elettronica e, anche quella sera, c’era posta … aveva posta …
Scorse frettolosamente i messaggi che non le interessavano e si concentrò invece su quello che, come tutti gli altri provenienti da quell’indirizzo e indirizzati a quell’indirizzo, avrebbe conservato nell’apposita cartella “John and me”.
Non era cominciata così. Era cominciata con uno scambio di tradizionali lettere via posta ordinaria.
Un annuncio su una rivista di respiro internazionale e così l’Americano e l’Italiana si erano messi in contatto. Poi si erano scambiati gli indirizzi di posta elettronica e, da allora, non passava giorno che non si scrivessero. Quotidianamente, come un rito, leggevano la mail in arrivo che avevano aspettato per tutto il giorno e rispondevano a quella mail sapendo che quella risposta era attesa con uguale trepidazione.
Era diventata una droga e non volevano disintossicarsi. Non ne avevano alcuna intenzione.
A loro piaceva e non vedevano ragione perché dovessero smettere.
Un estraneo avrebbe potuto chiedersi cosa avessero da dirsi quotidianamente, cosa potesse accadere nelle loro vite piatte e monotone di così importante o rilevante da dover essere urgentemente comunicato in tempo quasi reale.
Ma non era l’urgenza di comunicare nuovi eventi che li spingeva a tenersi in contatto.
Come diceva lei, la vita, la loro vita andava avanti “as usual” o, come diceva John “S.S.D.D.” vale a dire, “same shit, different day”.
Per entrambi un lavoro di cui erano poco entusiasti e che desideravano lasciare se solo si fosse prospettata la possibilità di cambiare per il meglio, una vita sociale poco esaltante, un letto vuoto … e tanti sogni in testa.
Certo avevano le loro rispettive famiglie e buoni amici attorno ma qualcosa mancava e vedevano l’uno nell’altro il pezzo mancante del puzzle che era la vita. O almeno proiettavano l’uno nell’immagine dell’altro i desideri, le aspettative, i sogni che popolavano le loro teste di romantici idealisti. Erano consapevoli di questo rischio, del rischio di costruire immagini mentali che non trovavano corrispondenza nella realtà ma ciononostante continuavano. Volevano correre il rischio. A loro piaceva troppo …
Sapevano che la loro storia virtuale era anche una fuga dalla realtà e dalla quotidianità ma, con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, continuavano a nutrirsi vicendevolmente di parole e pensieri.
La loro unica forma di contatto erano appunto le parole che affidavano all’etere.
Parole che nascevano nella testa di uno dei due e poi, digitate sulla tastiera del computer di chi scriveva e materializzate sullo schermo del computer di chi riceveva il messaggio, entravano nella testa dell’altro.
Parole che talvolta li catturavano in inevitabili malintesi, dovuti sicuramente al fatto che comunicavano in Inglese e che, per Francesca, questa non era la sua lingua madre. E dovuti soprattutto alle trappole della comunicazione linguistica quando non è supportata dalla comunicazione extra-linguistica. Potevano ricorrere alla novità della comunicazione virtuale, gli emoticon, ma la conoscenza di Francesca era alquanto limitata in questo campo. A parte :-) e :- ( conosceva ben pochi altri simboli per manifestare lo stato d’animo con cui esprimeva un suo pensiero. John aveva un repertorio più ampio e talvolta faceva ricorso a simboli che Francesca non riusciva a trovare nemmeno nei siti dedicati alla spiegazione dei vari tipi di faccine stilizzate.
Ma non c’erano intonazioni della voce, sguardi, sorrisi, gesti reali che potessero affiancarsi alle parole che erano, allo stesso tempo, veicolo e schermo dei loro pensieri.
Eppure, con le parole, avevano creato un mondo mentale che condividevano, un mondo fatto di pensieri, sogni, desideri … perfino emozioni.
Si, sapevano emozionarsi davvero: potevano provare gioia, eccitazione, entusiasmo e anche delusione, disappunto, dolore, perfino rabbia a volte. E tutto questo era indubbiamente reale.
E che tutto questo fosse nato da un annuncio su un giornale, a loro sembrava addirittura strepitoso.
Perché non è poi così facile trovarsi in sintonia con una persona, per quanto questa sintonia sia solo “virtuale”.
E naturalmente, poiché non era una relazione virtuale quella che entrambi volevano, vivevano nell’attesa del momento in cui si sarebbero incontrati.
Sentivano di doversi incontrare per scoprire se davvero si attraevano nella realtà oppure per ritrovarsi delusi l’uno dell’altro e realizzare che per mesi avevano vissuto nell’illusione.
Un’illusione creata dalle loro stesse menti.
Si erano scambiati anche delle foto, nella consapevolezza che una foto può rivelare molto ma può anche mentire altrettanto.
E si erano piaciuti anche per foto.
Lui l’aveva trovata “lovely”, lei di lui aveva apprezzato soprattutto le gambe …
Non erano arrivati a fare sesso virtuale ma alle avances esplicite sì.
Lui le scriveva che lei lo faceva sentire “sexual” e lei, parlando di “cogliere le rose della vita”, pur sentendosi alquanto stupida, era arrivata a scrivergli “come and … pick me” non senza avergli chiesto dapprima di fare il test per l’HIV e di spedirle il certificato del medico (cosa che lui aveva fatto).
E così, nell’attesa di cogliere … una – così sembrava – rosa della vita o, in altre parole, nell’attesa di cogliersi a vicenda o, in altre parole, … meglio non dirlo in questa sede, vivevano il loro “virtual romance”.
Quella sera, delusa, si disse “Era troppo bello per essere vero”.
Naturalmente gli rispose manifestando quello che sentiva.
X
“Mi avevi avvisato ma non pensavo fosse così!”
“Così come?!”
“Così … umiliante … Non trovo altre parole”
“Cosa hai trovato umiliante?”
“Stare lì come se stessi mendicando o come se ti dovessi vendere… davanti a quelli che, anche se si tratta di un posto come data entry o in un call center, ti sottopongono a test psicologici manco dovessi occuparti di chissà che …”
“Eh, gli immancabili psicologi del lavoro … Ho sbagliato laurea. Vabbè che adesso c’è pure l’inflazione degli psicologi. Non c’è azienda che ne faccia a meno. Ed è inesorabile: se vuoi passare attraverso il processo di selezione del personale non puoi evitare di cadere nelle loro grinfie. Sai poi quanta simpatia io nutra per gli psicologi … O comunque se non c’è lo psicologo sul posto, non mancheranno i test psico-attitudinali e simili”
“Lo so. Gli psicologi non saranno certo tutti uguali ma ci sarebbe da chiedersi a chi è venuta la brillante idea di impiegarli, assumerli, intrupparli massicciamente per collaborare nell’assunzione del personale. Avranno superato anche loro, a loro volta, gli esami dei loro colleghi?!”
“Chi lo sa. Comunque la maggior parte di loro ragiona per schemi fissi e si preoccupa solo di incasellarti in quegli schemi, di appiccicarti un’etichetta e di rilevare in te tutte le ‘incongruenze’, le ‘stranezze’, le ‘bizzarrie, le note stonate rispetto all’etichetta che loro stessi ti hanno appiccicato.
Etichette che non sono altro che la riproduzione di stereotipi da manuale o, forse peggio, la proiezione del mondo mentale, spesso alquanto limitato, dell’esperto in psicologia che si trastulla con poche idee che lui trova assolutamente illuminanti manco fossero verità rivelate.”
“Vabbè, non saranno tutti così. Oggi ne ho conosciuta una, in un’agenzia di lavoro interinale, che non sembrava male. E poi è sarda”
“Oh, questo è sicuramente un’attenuante”, sorrise Giulia
“Mi ha dato il suo numero di cellulare. Potrei anche chiamarla …”
“Ma certo. Perché no? Non sono io la laureata in psicologia e non le appiccicherò l’etichetta che ho in mente per gli ‘psicologi’ … Ma sì, potrebbe essere un’eccezione”
“Nessuna novità sul tuo fronte?”
“No. Calma piatta. Silenzio di tomba. Non posso dire nemmeno ‘Quiete dopo la tempesta’ perché non c’è stata alcuna tempesta … Insomma, che palle!”
“Amen! Ogni salmo finisce in gloria!”
“ E vabbè … Che dovrei dire? Uno che sembra un dio greco piovuto dal cielo, che dice che vuole farti innamorare di lui, che (senza alcuna fatica, a dire il vero) ti seduce … e che poi si dilegua avvolto nel mistero e racchiuso nel silenzio. Un mistero e un silenzio che adesso durano da parecchio. ‘Che palle!’ è il minimo che possa dire”
“Non che abbia aspettato il dileguarsi di Mr. Right per dire ‘Che palle!’ ogni due per tre”
“Questa volta era un ‘Che palle!’ sentito. Pronunciato con tutti i sacramenti”
“OK. Ci sono sicuramente palle e palle”
“Su questo non c’è dubbio. A proposito, ti ho parlato di Alberta? La nostra segretaria … È molto attiva da quel lato. Con gli uomini, intendo. Lei dice che non trova quello giusto e così, alla ricerca, li prova tutti.”
“Si dice che bisogna baciare molti ranocchi prima di trovare il principe azzurro …”
“Beh, lei sicuramente non si limita a baciarli. E poi … racconta al lavoro. Soprattutto se il mister di turno e le sue prestazioni non sono state all’altezza delle aspettative.”
“Non proprio una gentildonna, direi”
“Sai come si dice … ‘Il gentiluomo gode e tace’. Primo, lei è una donna. Secondo, se non gode …” lasciò in sospeso Giulia
“Se non gode, parla … e sparla” terminò Rita.
“Già. Comunque ho tirato in ballo lei a proposito di palle perché, proprio stamane, in pausa pranzo, si stava lamentando di quanto avesse trovato deludenti le … ehm … palle appunto del suo nuovo amante. Incredibilmente di misura ridotta.”
“Se lo dice lei … sarà vero. Da quanto dici, è un’esperta sul campo dopotutto”
“Questo è innegabile”
E scoppiarono a ridere … per il tono serio con cui fino a quel momento avevano affrontato un tema così … palloso.
La sera Rita si preparò mentalmente ad affrontare un altro “umiliante” tour per agenzie di lavoro interinale e Giulia cercò di non pensare allo stressante tour de force che l’attendeva al lavoro il giorno seguente.
Le “cose pratiche” della vita quotidiana che distoglievano l’attenzione dalle “cose non pratiche” … come un amore finito o un uomo che si dilegua.
Il sonno e la stanchezza prendevano il sopravvento e avvolgevano le loro menti nella evanescente irrealtà del sogno.
E di questo potevano essere grate a chi vegliava su di loro. Sarebbe stato sicuramente peggio se le loro menti fossero restate prigioniere dei loro pensieri e dell’insonnia.
Prevedendo qualche difficoltà ad addormentarsi, Francesca si preparò una camomilla doppia.
John, non per colpa sua certo, l’aveva in qualche modo delusa.
Le aveva scritto di aver ricevuto una buona offerta per un nuovo lavoro e ovviamente lui ne era entusiasta. Questo poteva però essere d’ostacolo ad un loro incontro in tempi brevi.
Lui si sarebbe dovuto rendere disponibile dai primi di dicembre e, se fosse stato assunto, non poteva certo dire: “Ho bisogno di quindici giorni di ferie” subito dopo.
Sì, stavano programmando di incontrarsi a Dicembre, approfittando delle vacanze natalizie.
Durante l’estate non avevano potuto e aspettare ancora sarebbe stato troppo.
E Francesca pensava appunto che l’idea del protrarsi dell’attesa indefinitamente non era certo quello che ci voleva. Diventava snervante.
E poi lasciò che, come un serpente viscido, s’insinuasse nella sua testa il pensiero che fosse solo una scusa, che lui non volesse incontrarla davvero.
Ma dopo si disse che era inutile preoccuparsi in anticipo e stare lì a logorarsi.
Dopotutto lui non aveva ancora affrontato il colloquio e valutato quanto buona fosse l’offerta per il nuovo lavoro.
E così, con la speranza che non fosse il lavoro che lui voleva e dopo aver sorseggiato la sua camomilla doppia, si mise a letto e Morfeo non tardò a farle visita e a tenerle compagnia per tutta la notte.
Mentre Giulia, Rita e Francesca giacevano nei loro letti, una battona di strada saliva sulla prima macchina che si era fermata, un povero alienato di mente urlava la sua verità mentre rovistava tra le immondizie di un cestino dei rifiuti (che i cassonetti – visto che c’è la raccolta differenziata - scarseggiano in questa città), un’ambulanza accorreva in soccorso di una vecchietta colta da malore in una delle sue notti insonni, un dj parlava alla radio con voce ovattata annunciando canzoni più sonnacchiose di lui, un’infermiera dava il cambio alla collega e si preparava ad affrontare il suo turno di notte, una mamma ed un papà facevano l’amore in silenzio per non farsi sentire mentre un bambino – loro figlio – li sentiva ugualmente e, a sette anni, si chiedeva quale strano, sconosciuto male avessero i genitori al punto di gemere come gemevano, uno studente sotto esame imbottito di caffè e chissà cos’altro era disperatamente immerso nei manuali universitari, un arrapato senza trippa per gatti faceva zapping da un canale all’altro per vedere le pubblicità con le donnine seminude, un altro arrapato anch’egli senza trippa per gatti digitava uno di quei numeri di telefono per sentire la voce di una di quelle donnine seminude, un altro arrapato ancora decideva di andar a cercar trippa per gatti e si caricava in macchina la prima battona di strada che trovava.
E intanto, foglia dopo foglia, gli alberi dei viali si spogliavano.
E intanto, al di sopra della cappa di fumi molesti sospesi nell’aria, la luna e le stelle contemplavano placide di quel campione di umanità le miserie e gli affanni.
Passò una settimana di messaggi dal tono “blue” per entrambi.
Perché anche John, pur essendo eccitato per la prospettiva di cambiare lavoro, non gioiva al pensiero di dover ulteriormente rimandare l’incontro con chi da mesi lo teneva legato a quel guinzaglio virtuale che poi tanto virtuale non era.
Arrivò il giorno del colloquio e la sera Rita ricevette un messaggio che rinvigorì le sue speranze infiacchite per l’attesa e l’incertezza.
John, che non peccava certo di eccesso di modestia, le scriveva che “loro” non potevano permetterselo. E così, liquidato in poche righe il discorso “nuovo lavoro”, le raccontava di come il pensiero di lei riuscisse ad accendere i suoi sensi e lo facesse sentire davvero (così asseriva) “horny” … suggerendo , alludendo, lasciando intendere.
Ora potevano pianificare il loro incontro. Decidere dove e per quanto tempo.
Ora sapevano che presto si sarebbe avverato quello che mesi prima non avrebbero nemmeno potuto immaginare.
Francesca era sicuramente lusingata al pensiero che un uomo decidesse di attraversare l’oceano per conoscere lei.
E John era genuinamente eccitato al pensiero di … attraversare l’oceano per conoscere lei.
Cuelleuz des aujourd’oui les roses de la vie …
Una rosa? Era davvero una rosa il fiore che tentavano di cogliere?
Era un fiore almeno?
Chiusa nel suo appartamento, Francesca non poteva vedere le stelle nemmeno affacciandosi alla finestra.
I palazzi erano alti e lo sguardo non poteva spingersi al di là della rosata coltre di smog che ammantava la città.
Ma pensò comunque che le stelle in cielo seguivano i loro passi e i loro sospiri di amanti virtuali trovandoli forse ridicoli e patetici … come ridicola e patetica deve apparire ogni umana inquietudine a chi può permettersi di contemplarla dall’alto.
“Domani è un altro giorno” sorrise tra sé.
E sorridendo ripensò alla lettera che aveva scritto qualche anno addietro un po’ sul serio e un po’ per gioco, che non aveva mai spedito a nessuno e che teneva nel cassetto riesumandola ogni tanto per trovarsi umanamente … ridicola e patetica.
Gentile Dottore,
è la prima volta che oso scrivere ad un giornale. Da anni seguo con interesse la sua rubrica nella mia rivista preferita e stimo molto, oltre che la sua innegabile professionalità, il buon senso e il calore umano che traspare dalle sue parole. Devo avvertirLa che sono un po' grafomane ma, se dovessi annoiarLa, il che accadrà sicuramente, potrà sempre leggermi a puntate. Probabilmente, non troverà il mio caso particolarmente interessante - ho letto spesso lettere di donne con problemi simili ai miei - ma sono sicura che mi dedicherà l’attenzione che solitamente riserva anche al meno clinicamente stimolante dei suoi pazienti e che mi tenderà la sua mano in aiuto.
Le fornisco i primi dati del caso.
“E che dire ancora, prima di chiudere quest’agenda che ha fatto da diario e prima di riporla insieme agli altri quaderni - diario a testimonianza e ricordo di una pallosità impietosamente scaricata sulle pagine mute che non protestano? Non lo so”.
“A cosa serve un diario se non a scaricare la pallosità e l’angoscia?! A me serve a questo. Soprattutto a questo. E infatti è un diario di pallosità e angoscie. Bella la striscia di “Momma” per festeggiare il nostro settimo anniversario ...: decisamente azzeccata”.
Ora Le spiego.
La striscia in questione ha per titolo “In fondo nulla di diverso”. Nella prima vignetta la “figlia di Momma” mostra sorridente uno scaffale pieno di volumi dicendo “Sette anni di diari!”. Nella seconda vignetta, è seduta a leggere, ancora sorridente, uno dei volumi, mentre altri sono impilati sul pavimento: “Quando avevo dodici anni, non facevo che scrivere della mia stupida cotta per un bambino brutto e antipatico, che preferiva dar la caccia agli scarafaggi piuttosto che uscire con me!”. Terza vignetta: lei legge ma il sorriso è scomparso dal suo volto. Quarta ed ultima vignetta: ha smesso di leggere e, con lo sguardo rivolto a noi lettori, senza sorridere e con le sopracciglia leggermente aggrottate “Almeno quelli di adesso sono un po' più grandi ...”.
Credo, dottore, che lei abbia prontamente afferrato l’essenza del mio problema. Come avrà capito, avevo festeggiato il mio settimo anniversa(dia)rio proprio con la striscia di Momma. Già, perché una delle pallosità dominanti nelle pagine che, avendo fatto mio il motto di Anna Frank “La carta è più paziente degli uomini”, continuo impietosamente a riempire, sono proprio quelli che io chiamo “Amori a perdere” “AAap”. Amori con la A maiuscola perché, per me, sono sempre grandi, complessi, tormentati, intimamente vissuti. “A perdere” perché, lei l’avrà già intuito, li vivo appunto nella mia intimità. In realtà non sono facile alle cotte, ma, quando capita, sono solo parole e pensieri. Sì. Elucubrazioni cerebrali, masturbazioni mentali (perché, i militanti del movimento per la consapevolezza delle vie verso il piacere femminile e le femministe emancipate e “La ragazza di nome Giulio” e la protagonista di “Lettere a Marina” e compagne mi perdoneranno, in quanto a masturbazioni fisiche, sono decisamente negata). Dicevo, le mie cotte sono solo ossessioni deprimenti alla lunga.
Cominciamo con Clodoveo (non era certo il suo vero nome, ma mi prendo la libertà di affibbiargliene uno brutto quanto basta). Non è stato il primo e, dopo averlo definitivamente archiviato nel dimenticatoio, lo riesumo per l’occasione solo per darLe l’idea di cosa riesco a scrivere quando mi sento “in amore”.
Ho poca voglia di leggere
E non molta di scrivere
Ho visto il mio lui dalla finestra
Ma non è venuto qui
O non era lui?
Vorrei e non vorrei...
A qualche minuto dalle undici della sera
Seduta sul letto
Con la radio accesa
Dopo le operazioni notturne
Aspetto il mio amante
Il mio amante che non verrà
Cremina e speranza
Illusione e lievito
...
Qual’è il mio attimo fuggente?
Innalzerò la vela per cogliere i venti del destino?
O appassiranno le rose della vita prima che l’abbia colte?
Orazio, Masters, Ronsard
E tutti voi
Lasciatemi vaneggiare
Nell’attesa di un’illusione.
Ascolterò la radio
Aspettando
E mi addormenterò
Sperando
Che qui non facciano casotto
Ed io
Riesca ad averti
Almeno nel sogno.
Sicuramente, gli esperti estimatori di bei versi penseranno che, visto quello che scrivo, sarebbe meglio per me non cadere in amore. Ma è la prima volta che rendo note alcune delle mie “elucubrazioni cerebrali” ad una terza persona. E lo faccio proprio perché Lei capisca appieno la gravità del mio caso.
Non so se quella notte di tanti anni fa avessi avuto Clodoveo in sogno. Suppongo di no.
Come Le ho detto, Clodoveo non è stato il primo. E nemmeno l’ultimo, questo è ovvio. Si sono susseguiti altri AAap, magari non numerosissimi ma tutti pietosamente unilaterali. A dire il vero, ho spesso avuto l’illusione che non lo fossero, che fossero pienamente corrisposti, ma appunto si trattava di illusioni. Ne sono consapevole. E presa com’ero da questi (rubacchio le parole a Erica Jong) impossibili lui che vivevano dentro di me, non volgevo lo sguardo verso i vari possibilissimi “lui” che avevo vicino.
Arrivo a Terenzio (anche in questo caso ricorro al nome fittizio che mi aggrada). Anche lui non è l’ultimo ma è recente abbastanza da poterLe fornire elementi utili per la configurazione di un quadro clinico aggiornato.
“E poi forse devo stare un po' male per scrivere. Non per niente ho ripreso in mano l’agenda per comunicare la partenza di Terenzio. Per non diventar scema penso a tutte le nuove possibilità d’incontro che ho qui (già la sera in cui lui è partito Omissis); penso che il tempo è un gran consolatore e che si sopravvive a tutte le partenze, le lontananze etc; penso che ha la ragazza, che ha la sua vita, penso che non pensa a me ... Omissis Già, penso (è una bugia) a queste cose. Mi dico di pensare a queste cose. E quando son con gli altri sono in uno stato di contentezza artificiale per non pensare a lui. La verità è che sogno tanto ad occhi aperti, e ad occhi chiusi. Anche stanotte mi son svegliata pensando a lui. Ma è vero. Il tempo passa e altre cose succedono. Omissis Ho desiderato, desidero l’uomo altrui. La ragazza potrebbe (l’ho pensato) anche averlo lasciato. Naturalmente non sarà così e staranno godendosela ma l’ho pensato. Ora piove. Non penso, cerco di non pensare: che per quante nuove persone possa incontrare, per quanto carine, simpatiche, piacevoli etc. non saranno lui (potrebbero anche essere meglio ma non saranno lui); che il tempo passa e il ricordo diventa evanescente ma che è un dolore (forse salutare, forse vitale) questo stesso sbiadirsi; che, cavolo, mi è piaciuto ballare con lui, sentire la sua coscia, la sua spalla, la sua mano etc. etc. Lo sai, non sono facile alle attrazioni ... Avevo ballato anche con Gesualdo, tempo fa, e per quanto sia muscoloso e abbia cosce, spalle, mani ... nessuna particolare sensazione nel contatto. Non ci dovevo pensare. Sono lacrime adesso. Omissis Tirando le somme: 1) lui non c’è; 2) lui ha la ragazza; 3) tu sei la solita stupida. Anche se non è proprio la solita stupidità. Stop”.
Dottore avrà notato, spero, qualche piccolo ma non insignificante progresso rispetto alla storia con Clodoveo. Intanto, sicuramente avevo sognato, ad occhi chiusi, Terenzio. Ed è probabile che fossi riuscita ad averlo, a conoscerlo in senso biblico intendo. Clodoveo, nemmeno lo conoscevo. Solo di vista e poco più (“Ciao” “Ciao”). Con Terenzio, invece, avevo persino ballato coscia a coscia! (A proposito, ci tengo a precisare che Gesualdo non è mai stato un “Aap” - e nemmeno a vincere -, insomma non è mai stato una mia cotta). Sono anche rimasta in contatto con Terenzio, che non era solo un esemplare della mia particolare collezione, era soprattutto un caro inaspettato amico. Ma, per colpa di uno stupido malinteso, io stessa avevo interrotto la nostra celeste corrispondenza (perché, mi perdoni Foscolo, la “corrispondenza” tra amici è sempre celeste). Insomma, nel caso di Terenzio, non era stato un “impossibile lui dentro di me” ad accendermi d’amore.
Come Le ho detto, Terenzio non è stato l’ultimo. Dopo di lui sono venuti Gilberto e, roba passeggera, Romualdo.
Arrivo adesso alla situazione attuale. Desolata d’averLa annoiata finora.
Purtroppo, non c’è nessun colpo di scena.
Il quadro clinico si presenta, nel complesso, assai simile a quello degli altri “AAap”.
Peggio, c’è stato un regresso rispetto al “caso Terenzio” e, peggio ancora, anche rispetto al “caso Clodoveo”. Con Terenzio avevo ballato ed ero rimasta in contatto, a Clodoveo almeno avevo la possibilità di dire “Ciao” ma, in questo caso, non ho finora avuto nemmeno l’opportunità d’incontrare personalmente il mio impossibile lui. È quello che si dice un uomo maturo che, fortunatamente, non ha ancora fatto ricorso alla chirurgia estetica per attenuare i segni del tempo sul suo viso. È una persona affascinante, che infonde sicurezza e trasuda affidabilità. È un uomo che, non lo nego, infiamma le mie fantasie sessuali e, benché non lo abbia mai nemmeno sfiorato, sono riuscita a conoscerlo in senso biblico, in sogno s’intende. Ormai è diventato padrone dei miei pensieri, ha preso possesso della mia mente: vi si intrufola anche nei momenti più impensabili. Ho provato ad archiviarlo ma senza successo finché, leggendo un Autore a me caro, ho scoperto che, non sono le sue testuali parole, gli uomini spesso vanno a letto con le donne per poterle dimenticare. E allora ho cominciato a pensare ... Perché no? Perché non dovrebbe funzionare anche nel caso delle donne affette da sindrome da “AAap”? Perché non nel mio caso?
E così ho deciso di scriverLe. Non Le chiedo soltanto un parere professionale sulle mie paranoie sentimentali. Le chiedo di più. Le chiedo di curarmi. ...
Sì, ha capito bene. È Lei il mio impossibile lui del momento. È Lei che sogno. Lei che bramo avere. Lei che non mi dà pace. Solo Lei può guarirmi dal mio male.
La cura è semplice. È quella che ho suggerito poche righe fa. Sono sicura che anche Lei concorderà con me: è una buona idea, la mia, ne conviene?, è una proposta più che decente. E non solo: è una buona strategia terapeutica. Non posso dirLe preventivamente quanto lungo dovrà essere il trattamento ma, si sa, in questi casi non ci si può aspettare una guarigione immediata. Come Lei m’insegna, psicanalisi docet! Naturalmente, poiché so che di gratificazioni professionali (e Le assicuro che, in questo caso, Lei si sentirebbe professionalmente, e non solo, gratificato) non si campa, sarebbe Lei a stabilire il suo onorario.
Per me sarebbe un investimento. Sul mio equilibrio, sulla mia salute mentale prima di tutto.
Mi spiace di non aver trovato, nella mia raccolta di cartine di cioccolatini, due versi di Sheakespeare che avrei tanto voluto dedicarLe. Rimedierò al più presto.
Nel frattempo, La ringrazio di cuore per la pazienza con cui mi ha seguito e per il tempo che mi ha voluto dedicare. Confidando nella Sua disponibilità ad un incontro a due, La saluto affettuosamente
Sua
Genoveffa
(Naturalmente non è il nome che i miei genitori mi hanno dato, ma è quello che Lei potrebbe appiopparmi nel caso in cui anche Lei soffrisse di sindrome da Aap. A proposito, colpisce anche gli uomini? Non credo).
Il numero al quale può contattarmi è il seguente: 0101 - 100101.
Questa volta non si faceva nessuna illusione sul fatto che la sua storia virtuale potesse essere un “Amore”.
Per piacevole ed intrigante che fosse non poteva certo essere … amore.
Ma era sicuramente una storia a due. Un rapporto. Alleluia!
“Sì” pensò “Viva Orietta Berti!” e canticchiò tra sé i famosi indimenticabili versi:
“Finché la barca va, lasciala andare
Finché la barca va, tu non remare
Finché la barca va, stai a guardare
Quando l’amore viene il campanello suonerà
Quando l’amore viene il campanello suonerà”
E, se non l’Amore, sarebbe arrivato lui.
E lui, ovvio, non era Doctor Love ma … ecco … lui era un lui.
E lei immaginò se stessa declamare solennemente e appassionatamente ad alta voce (o magari ad alta voce no … chissà cosa avrebbe potuto pensare …): “E giuro davanti a Dio … Mai più soffrirò la fame!!!” col … “col coso in man”, come diceva quella canzone che i suoi compagni cantavano sempre quando andavano in gita scolastica.
Sì, perché, tanto per fare un’altra citazione erudita, se si era preoccupata negli anni di soddisfare la “sete del cervello”, non altrettanto si era data da fare per placare la “fame della fica” (parole di Erica … Jong , Erica Jong – mica una “Erica” qualunque … -).
E lei, lo sapeva dai suoi studi, questo non poteva non essere deleterio per il suo equilibrio psico-fisico. Questo poteva essere causa di gravi squilibri interiori.
Ma ora, clic dopo clic, thank God, qualcosa stava cambiando.
Forse.
Intanto mise su il CD di Nina Simone e ascoltò la sua canzone del momento (oltre quella di Orietta Berti, of course): Turn me on.
Like a flower waiting to bloom
Like a light bulb in a dark room
I’m here waiting for you to come home and turn me on
Like a desert waiting for rain
Like a school kid waiting for Spring
I’m here sitting waiting for you to come back home and turn me on
Si chiedeva se John l’avrebbe davvero “turned on”.
XI
Rita era stata convocata per un colloquio di gruppo ed era impegnata a rispondere ad una serie di domande che avrebbero messo in luce la sua personalità.
Domande come “Cosa associ alla frase ‘Il cielo è blu’?”
Risposte: a) acqua; b) roccia, c) colore.
Oppure “Cosa preferiresti essere?”
Risposte: a) un vescovo; b) un generale; c) non so.
E così per altre cinquantotto quesiti che avrebbero illuminato i suoi selezionatori sulle sue capacità e sulle sue doti come possibile operatrice di call center.
Le avevano detto di non pensare troppo alle risposte da dare, di rispondere d’impulso e che non c’erano risposte giuste o sbagliate. Ognuno è come è.
Ma lei non poteva non pensare a quale lato della sua personalità avrebbe messo in luce rispondendo “acqua” anziché “roccia” oppure “colore”. Chissà quali bizzarre associazioni mentali avevano portato coloro che avevano elaborato il test a formulare quelle domande.
E poi se uno non voleva essere né vescovo né generale né “non so”?!
Certo doveva scegliere la risposta più vicina a quella che avrebbe dato ma …
Tutto questo per diventare operatrice di call center?!
E poi non era mica finito …
Dopo avrebbe dovuto tradurre alcune frasi in una lingua straniera a piacere … e i dialetti non erano ammessi. E, dulcis in fundo, avrebbe dovuto parlare a voce alta di se stessa e delle sue aspirazioni professionali … in presenza di una cinquantina di persone sedute nella stanza davanti ai banchi disposti a ferro di cavallo e col manager-selezionatore seduto di fronte a tutti loro.
Aspettava quel momento di gloria con gioia infinita, lei che detestava parlare in pubblico.
E con gioia infinita non le parve vero quando quella tortura finì.
Se l’era cavata egregiamente dopo tutto.
Ora avrebbe dovuto aspettare per una settimana.
Sarebbe stata ricontattata in ogni caso, sia di esito positivo che negativo.
E anche se alla domanda “Cosa vuoi essere?” non avrebbe sicuramente risposto “un’operatrice di call center”, sperava che l’esito fosse positivo.
Anche perché, solo esibendo una busta paga, poteva sperare di trovare un alloggio in affitto.
Dopo una settimana Rita venne convocata per un colloquio individuale al quale si presentò, vestita di un tailleur sobrio ma elegante, abbastanza nervosa.
Riuscì tuttavia a cavarsela anche questa volta, perfino quando le chiesero come mai non aveva lavorato fino a quel momento. Le dissero che l’avrebbero contattata a breve e, infatti dopo pochi giorni, la chiamò il responsabile della selezione per comunicarle la disponibilità della società ad assumerla. E lei, arcicontenta, disse di sì. Avrebbe cominciato di lì a una settimana.
Giulia si congratulò con lei e decisero di festeggiare cenando in un ristorante cinese rimpinzandosi di cibi forse poco salutari ma che loro trovavano sfiziosi e sostanziosi godendosi tutto il pasto fino al gelato fritto e al sakè. Tornarono a casa sazie di cibo e di chiacchiere sentendosi vagamente felici anche perché al ristorante avevano dato loro due foulard in omaggio. Sicuramente non erano capi di valore ma lo giudicarono un gesto carino.
Il primo giorno di lavoro giunse velocemente.
Tornò a casa stordita per il chiasso e la frenesia del luogo di lavoro ma, con l’aiuto e i consigli di Giulia, non si perse d’animo.
Ci sarebbero state due settimane di affiancamento dopo le quali Rita avrebbe dovuto camminare da sola.
Per fortuna non si trattava di vendita ma di assistenza ai clienti. Se si fosse trattato di vendita avrebbe senz’altro rifiutato perché non si sentiva per niente portata in quel campo.
I colleghi le erano sembrati un po’ scostanti ma Giulia la rassicurò dicendo che nei luoghi di lavoro va sempre così e si deve a volte faticare un bel po’ prima di essere accettati dal gruppo, o dal team come ora si dice.
Rita, con tenacia e abnegazione, superò il periodo di prova e quindi decise che era giunto il momento di lasciare l’appartamento di Giulia e di cercarsi un monolocale da sola.
Sarebbe stata dura sbarcare il lunario, visto che lo stipendio non raggiungeva i mille euro, ma riteneva che fosse la cosa giusta da fare: non poteva stare accampata e doveva restituire a Giulia la sua sacrosanta intimità.
La sua ricerca di una stanza tutta per sé fu facilitata dal fatto che il padrone di casa di Giulia investiva nel mattone: acquistava immobili per poi darli in affitto e fortunatamente aveva un monolocale libero non molto distante dall’appartamento di Giulia. Era un po’ costoso ma Rita decise di accettare e quindi si trasferì nella sua nuova dimora.
Giulia intanto non aveva ricevuto nessuna nuova dal suo lui che si era volatilizzato e pertanto continuava a barcamenarsi come al solito tra lavoro, casa e amici.
Decise di invitare Rita per un thé e le chiese di estendere l’invito anche a Francesca.
Così si ritrovarono un sabato pomeriggio e, nonostante l’avversione di Giulia per la categoria degli psicologi, Francesca le risultò simpatica, forse un po’ chiusa ma comunque simpatica. Si creò un’atmosfera positiva e confidenziale tra le tre emigrate sarde e, visto che potevano godere niente di meno che dell’ausilio gratuito di una psicologa, cominciarono a stilare un lista delle ragioni, senza nessuna pretesa di esaurirle tutte, dell’improvvisa scomparsa di Mr. Right.:
1 – è semplicemente un puttaniere e voleva solo un’avventura
2 – è sposato o altrimenti “impegnato”
3 – sta male e/o gli è successa una disgrazia
4 – fa un lavoro poco pulito
5 – aveva fatto una scommessa
6 – sta bene ed è felice di aver scampato una disgrazia
7 – aveva perso una scommessa
Esaminarono l’ipotesi 1.
Un puttaniere, per definizione, non può non volere più che avventure.
Un puttaniere, per definizione, non si presenta come tale dicendo: “Ciao sono un puttaniere! Ti va di spassartela con me?”
Un puttaniere, per definizione, non può non creare illusioni.
Un puttaniere, tale è la sua natura, non può non nutrire quelle illusioni col solo intento di spassarsela.
Un puttaniere, tale è la sua natura, dopo essersela spassata non può non dileguarsi senza lasciare traccia.
Domanda: Michele poteva essere un “puttaniere”?
Risposta: Michele poteva essere un “puttaniere”.
Quindi passarono all’ipotesi 2.
Un uomo sposato o altrimenti “impegnato”, senza per questo ricadere nell’ipotesi 1-puttaniere, spesso sente il bisogno o il desiderio di evadere. Spesso col pensiero tradisce la sua compagna.
Un uomo sposato o altrimenti “impegnato” ogni tanto … evade e, ogni tanto, tradisce la sua compagna più che col pensiero.
Un uomo sposato o altrimenti “impegnato” sovente non desidera “impegnarsi” più di tanto in una relazione clandestina.
Un uomo sposato o altrimenti “impegnato”, soddisfatto il suo bisogno o desiderio d’evasione, sovente si dilegua, se possibile, senza lasciare traccia.
Domanda: Michele poteva essere un “uomo sposato o altrimenti impegnato”?
Risposta: Michele poteva essere un “uomo sposato o altrimenti impegnato”.
Si concentrarono poi sull’ipotesi 3.
L’ipotesi 3 era un’ipotesi assolutoria.
Una persona, per scomparire senza più dar segni di vita, doveva star male davvero, doveva essere moribonda o almeno affetta da male incurabile e sottoposta alle torture dei medici in una qualche clinica privata dove più duri più paghi (quindi è meglio se più duri). Oppure poteva essere finita sotto un treno, uscita fuoristrada con la macchina, precipitata in un burrone, scivolata nella vasca da bagno rompendosi l’osso del collo, essere caduta malamente da cavallo, essere stata sbranata da un leone fuggito da uno zoo, avere mangiato una piccola porzione di tiramisù fatto in casa col mascarpone infettato dal clostridium botulini, essere stata improvvisamente colta da shock anafilattico dopo aver deglutito alcune gocce di un nuovo medicinale cui era senza saperlo allergica (e nel foglietto vi era come controindicazione solo “ipersensibilità individuale accertata verso il prodotto”), poteva essere stata ferita a morte mentre cercava di separare due sconosciuti che si scannavano in discoteca per la stessa donna (naturalmente i due sconosciuti erano ora vivi e vegeti da qualche parte a tracannare birra o altro), poteva essere stata colto da infarto dopo aver scoperto che per anni i suoi contabili l’avevano truffata e se l’erano svignata con tutti i suoi soldi, poteva essere stata sopraffatta dal senso della vanità della vita ed essersi lasciata cadere dal palazzo più alto della città (naturalmente non era trapelato nulla attraverso i media perché i familiari stra-stra ricchi avevano pietosamente messo a tacere tutto elargendo somme tali da placare la fame degli sciacalli in cerca di scoop).
Domanda: Michele poteva star male e/o poteva essergli successa una disgrazia?
Risposta: Michele non poteva star male né poteva essergli successa una disgrazia.
Continuarono con l’ipotesi 4.
Chi fa un lavoro poco pulito senza coperture salva-apparenza, è, per ragioni di lavoro, sfuggente e avvolto nel mistero.
Chi fa un lavoro poco pulito sovente gode di guadagni incomparabilmente superiori a chi fa un lavoro pulito.
Chi fa un lavoro poco pulito sovente … deve assentarsi per lunghi periodi … per ragioni di lavoro.
Domanda: Michele poteva svolgere un lavoro poco pulito?
Risposta: Michele poteva svolgere un lavoro poco pulito.
Vennero all’ipotesi 5.
Si posero subito la domanda: Michele poteva aver fatto una scommessa?
Con la maggioranza di due a uno, si diedero la risposta: Michele poteva aver fatto una scommessa.
Ad esprimere voto contrario era stata la persona direttamente interessata che non vedeva per quale ragione e con chi Michele avesse potuto scommettere di portarsi lei a letto. Sai che fatica … visto che Michele era Michele …
Ipotesi 6.
Domanda: poteva Michele star bene ed essere felice di aver scampato una disgrazia?
Ancora una volta con una maggioranza di due a uno, si diedero la risposta: Michele non poteva star bene ed essere felice di aver scampato una disgrazia.
Ancora una volta ad esprimere voto contrario era stata la persona direttamente interessata che si era premurata di far notare alle amiche come il loro desiderio di carinerie verso di lei le aveva portate a dare una risposta in qualche misura incoerente con quella che avevano dato, all’unanimità, all’ipotesi 3.
Giunsero infine all’ipotesi 7.
Domanda: poteva Michele aver perso una scommessa?
Per la terza volta con una maggioranza di due a uno, si diedero la risposta: Michele non poteva aver perso una scommessa.
E per la terza volta ad esprimere voto contrario era stata la persona direttamente interessata che vedeva come perfettamente plausibile e verosimile che, avendo Michele perso una scommessa qualsiasi, gli fosse stata comminata la punizione di portarsi lei a letto.
“Beh?! … La sapete la barzelletta? ‘Tu che dalla vita hai avuto tutto … adesso beccati questo!’ … Solo che a lui sarebbe capitato su questa terra. Ovvio che dopo aver pagato fio si sia dileguato” aggiunse Giulia.
“Ma va … Non ci credi neanche tu che lo dici”, replicò Francesca.
“No, non ci credo, ma la verità potrebbe essere anche questa”.
“Come potrebbero essere vere le ipotesi 1, 2, 4 …”, osservò Rita sorridendo.
“Urrà! E cosa abbiamo concluso adesso?” chiese Giulia.
“Grazie alle mie qualità professionali, posso permettermi di concludere che, dopo un’accurata analisi del caso, non sappiamo ancora la vera ragione del perché Michele si sia dileguato. Né del mistero che l’avvolge. Diverse sono le ipotesi possibili” declamò lentamente Francesca “Potremmo chiederci se non fa ritorno perché si è dimenticato di Giulia …Oppure perché … si ricorda di Giulia. Oppure perché … ha trovato una meglio di Giulia …”
“Brava! Brava!” applaudirono le altre.
“Grazie! Grazie! Ora, per ritemprarci nella mente e nel corpo, dopo tante fatiche intellettuali, propongo di aprire il pacco di pasticcini che è in cucina …”
La proposta fu approvata all’unanimità e così le tre donzelle si dedicarono all’impegnativa attività di selezionare e gustare un pasticcino dopo l’altro per il totale di un chilo ripartito in tre.
Prima quel piccolo bignè con la crema allo zabaione o la crostatina con la fragolona?
Dopo la sfogliatina con lo zucchero a velo o il mini babà inzuppato di rhum?
E poi il tartufo al cioccolato o quel fagottino con la panna montata?
E ancora, quella pralina ricoperta di scaglie di nocciole o quel canestrino di marzapane?
Pare poco, ma è pur sempre fatica impegnare il cervello in tale attività di selezione e reclutamento del pasticcino quando se ne ha a disposizione un chilo per esercitare le proprie facoltà di scelta e il tempo, tra una scelta e l’altra, è quello che è visto che c’è sempre il pericolo che, mentre tu sei impegnato ad assaporare quello che per primo ti ha catturato, chi ti sta vicino ti sottragga proprio quello che tu avevi nel frattempo notato e che stavi corteggiando con gli occhi.
Dopo che l’intero vassoio venne spazzolato, Rita e Francesca si accomiatarono. Le tre comunque si ripromisero d’incontrarsi ancora.
XII
Francesca continuava col solito tran tran e aspettava che arrivasse il momento in cui avrebbe incontrato John.
E quel momento giunse di lì a breve.
John infatti le scrisse che era riuscito a farsi concedere una pausa dal suo datore di lavoro e che perciò potevano programmare e organizzare il loro incontro.
Entrambi concordavano nel trascorrere la loro vacanza non a Milano, assai poco poetica e romantica, ma a Venezia oppure a Roma o Firenze.
Alla fine scelsero Firenze. John sarebbe tuttavia arrivato a Milano e avrebbe trascorso la notte nell’appartamento di Francesca. Il mattino seguente avrebbero preso il treno per raggiungere la città di Dante.
Erano entusiasti come bambini che scoprono un nuovo gioco: “come un bimbo felice vado giocando nel tuo caro mondo, o Dio”, diceva infatti quella preghiera indiana che Francesca amava tanto.
Si preoccupò dei biglietti per il treno e di trovare una camera presso un bed and breakfast.
Giunse così anche il giorno dell’arrivo di John in Italia.
Francesca si recò all’aeroporto di Linate per accogliere il suo spasimante.
Era in perfetto orario per l’arrivo dell’aereo ma di John nessuna traccia.
Stava quasi per lasciare l’aeroporto, pensando che lui aveva il suo indirizzo e l’avrebbe potuta raggiungere direttamente là, quando il suo cellulare squillò. Era lui, si trovava all’aeroporto e stava aspettando. Francesca fece quindi dietro front e lo vide presso un apparecchio telefonico, di quelli che ora, dopo l’avvento dei cellulari, sono diventati una rarità.
La colpì la sua statura: lo immaginava parecchio più alto di quanto in realtà fosse.
Si guardarono sorridenti l’uno con l’altra, un po’ impacciati e intimiditi forse. Il ghiaccio fu rotto con un abbraccio. John però le comunicò che il suo bagaglio era andato smarrito e che sarebbe stato recapitato a casa sua in serata. Per fortuna John aveva lo stretto indispensabile nel bagaglio a mano e così si diressero verso casa in autobus.
Faceva parecchio freddo e fu un sollievo giungere all’appartamento che era riscaldato a dovere.
Era ora di pranzo e così, mentre John si rinfrescava con una doccia dopo dodici ore circa di viaggio, Francesca si diede da fare in cucina: nessuna prelibatezza particolare. Il menù prevedeva pasta al pesto, una fettina con contorno di verdura e poi la frutta.
Per John anche il pesto era una novità e fu entusiasta del pasto. Volle assaggiare anche il caffè italiano, che nulla ha a che vedere col caffè americano, e quindi Francesca mise la caffettiera sul fuoco.
John era seduto sul divano e le chiese di raggiungerla. Lei gli si sedette accanto e subito lui le fu addosso o quasi. Cominciò accarezzandole i capelli … per poi passare al resto.
“Che bel corpo che hai! Che pelle liscia!” e lei non ebbe la forza di fermarlo.
Lui in seguito le avrebbe detto che lei era stata come un impala preda di un leone.
E così mentre loro si dedicavano a fare la reciproca conoscenza biblica, il caffè era salito e bolliva bolliva bolliva sul fornello: la caffettiera sarebbe potuta anche esplodere!
Quindi fecero la doccia assieme anche se Francesca era un po’ perplessa per la rapidità degli eventi che si erano succeduti dopo pranzo ma non disse niente a John perché, a suo avviso, sarebbe stato una maleducazione.
Si chiese se mai sarebbe riuscita a liberarsi del “malconcetto” (usava questa parola anche se non era sicura che esistesse) che lei aveva di “educazione” e “maleducazione” … Si chiese se era vero quello che diceva Woody Allen, vale a dire che "Il sesso senza amore è un'esperienza vuota, ma tra le esperienze vuote è una delle migliori".
Dopo un’ora circa arrivarono i bagagli e, risolto questo problema, decisero di fare qualche passo. Rientrarono a casa presto sia perché il freddo era pungente sia perché non volevano far tardi in quanto l’indomani sarebbero dovuti partire presto.
Passarono il tempo a raccontare e raccontarsi. Francesca ogni tanto era costretta a dire “Sorry?” “Can you repeat please?” ma nel complesso riuscivano a comunicare e capirsi.
Durante il viaggio Francesca fu alquanto taciturna mentre John era incuriosito dal paesaggio che guardava quasi con avidità: lo colpì, chissà perché, soprattutto il numero delle gru che si potevano vedere e continuava a dire: “Look! Another crane!”: che dire? evidentemente c’erano molti lavori in corso lungo il tragitto ferroviario Milano – Firenze …
Francesca invece pensava alla loro frettolosa conoscenza biblica e rifletteva dicendosi che, dopo tutto, si trovava a fianco uno sconosciuto e aggiungeva, rimuginando coi pensieri, “Non voglio farlo più. Sei patetica! Patetica! Patetica!”.
Non era del tutto scontenta ma, forse per il fatto di non essere riuscita a dire no, aveva l’amaro in bocca. Inutile, doveva ammettere che, nonostante avesse pensato durante tutti i mesi di corrispondenza elettronica di essere una donna moderna, al passo coi tempi e senza inibizioni, si era rivelata ancora una volta preda delle sue fisime. Inoltre era anche un po’ delusa perché la conoscenza virtuale non corrispondeva a quella reale e quindi sbottò con sincerità: “Cosa siamo noi? Non siamo amici. Non siamo innamorati. Cosa siamo? Siamo patetici?!”. John non la pensava come lei e sembrava che nemmeno il malumore di Francesca potesse togliergli il sorriso dalle labbra: lui era entusiasta, o almeno così diceva.
Anche a Firenze non faceva caldo ma l’atmosfera era completamente diversa da quella di Milano. Raggiunsero il bed and breakfast in taxi e dopo aver fatto la conoscenza dei padroni di casa, Carla e Carlo, si sistemarono nella loro camera.
Si trovavano all’ultimo piano di un palazzo senza ascensore (erano praticamente in centro) e subito spalancarono la finestra per ammirare il paesaggio: si vedevano tutti i tetti della città e quello del mercato comunale era in primo piano. La stanza era piuttosto modesta ma era arredata con gusto e vi troneggiava un grande letto di ferro battuto, di quelli che a Francesca piacevano tanto.
Di lì a poco uscirono per andare a zonzo senza meta precisa. Proprio sotto casa, intorno al mercato comunale, c’era il mercatino con le bancarelle e John camminava lento curiosando senza tralasciarne una. E Francesca ammise, tra sé e sé, che non è facile trovare uomini che non si spaventano di fronte all’eventualità dello shopping avendo una donna a fianco.
Raggiunsero poi il Duomo, il Battistero e il campanile di Giotto. Avevano acquistato una guida in inglese e John chiese a Francesca di leggere perché gli piaceva il suo accento: diceva che aveva lo stesso accento della Cucinotta.
Francesca si vergognava un po’ ma comunque lesse a voce alta: “Il Battistero, una volta noto come ‘Basilica di San Giovanni’, è una delle costruzioni più importanti della città dal punto di vista storico e artistico. Costruzione romanica del secolo XI, è di forma ottagonale rivestito di marmi bianchi e verdi. Fu Cattedrale di Firenze fino al 1128. La Porta del Paradiso, situata di fronte al Duomo, è il capolavoro del Ghiberti” e poi “Il Campanile fu iniziato da Giotto nel 1334, continuato da A. Pisano e completato dal Talenti nel 1359” e poi ancora “Il Duomo fu iniziato nel 1296 da Arnolfo di Cambio e portato a compimento da altri artisti tra i quali Giotto e Francesco Talenti . Papa Eugenio IV consacrò il tempio nel 1436 dedicandolo a Santa Maria del Fiore” eccetera eccetera.
La piazza era gremita di turisti e di artisti di strada e per entrare al Duomo c’era una lunga fila. Loro si misero in coda senza barare come gli immancabili furbi che non facevano eccezione neanche in questa occasione.
Nei cinque giorni successivi che si erano concessi come vacanza romantica ammirarono parecchie delle bellezze di Firenze respirando l’atmosfera della città in periodo pre-natalizio.
John fu particolarmente colpito dal David di Michelangelo e fece un’osservazione assai poco poetica dicendo che i piedi della statua erano sporchi come sempre sono sporchi i piedi. Francesca non volle replicare dicendo che se lui era abituato, come evidentemente era, a camminare scalzo per casa, non tutti facevano altrettanto. Anche Francesca ammirò a lungo il David ma lei era colpita soprattutto dallo sguardo inquieto della statua. Nella Galleria degli Uffizi si fermarono parecchio di fronte alla “Nascita di Venere” e alla “Primavera” di Botticelli.
Francesca, che ricordava come quei dipinti l’avessero entusiasmata un secolo prima durante la gita scolastica di terza media, non fu delusa nel rivedere quei capolavori: li trovava pieni di fascino delicato e di grazia pudica.
Mangiarono soprattutto nelle trattorie tipiche senza però azzardarsi a prendere la fiorentina. Francesca poi rimase perplessa per il fatto che John avesse chiesto un thè alla pesca durante il suo primo pranzo assieme. Aveva suo malgrado pensato che i gusti culinari di John fossero quantomeno bizzarri, per non dire poco raffinati.
Il tempo che rimaneva tra sightseeing e scorpacciate di cibo succulento lo dedicavano alla loro reciproca conoscenza biblica. Francesca aveva superato le remore sorte dopo la loro prima volta a Milano e John era davvero entusiasta tanto che, quando lei gli chiese “Are you enjoying Florence?”, lui rispose divertito: “Your name is Florence!”. Oltre che “Florence” la chiamava anche “Miss Italia” e le disse che era una vera lady.
L’ultima notte che trascorsero nella loro camera al bed and breakfast, Francesca a un certo punto fu svegliata da John che la cercava coi piedi e così ancora una volta si dedicarono alla pratiche dell’ars amandi. Jonh volle anche andare in cucina a cercare l’olio d’oliva (che aveva già adocchiato) che lui riteneva ottimo per i massaggi perché voleva concludere in gloria la loro gita e a Francesca che si prodigava con le sue mani, benché non avesse nessuna esperienza di massaggi, disse con convinzione: “You are a hot woman!”.
Senza che lei se ne accorgesse, mentre stava sdraiata sul letto dopo le fatiche d’amore e mentre fuori albeggiava, le aveva anche scattato una foto nuda ma lei non se ne ebbe a male.
Nel pomeriggio si recarono alla stazione per prendere il treno che li avrebbe ricondotti a Milano. Mentre attendevano, John abbracciò Francesca alle spalle e le disse: “You are a sweetheart!” e Francesca, lusingata, pensò che John non era certo avaro di complimenti.
In treno si assopirono e quando si svegliarono parlarono dei loro programmi a breve termine. Francesca sarebbe tornata al lavoro il giorno dopo mentre John disse che avrebbe affittato una macchina per andare in giro nel nord Italia. Francesca, benché l’avere un quasi sconosciuto in casa le lasciasse ancora qualche perplessità, ne fu delusa perché pensava che John sarebbe rimasto per qualche giorno ancora a Milano. Non disse niente tuttavia e rimase taciturna durante il resto del viaggio. Quella sera respinse le avances di John e si ritirò in bagno per le solite operazioni prima di andare a dormire. Quando rientrò in camera, John era già a letto.
L’indomani mattina si salutarono con un bacio appassionato e Francesca, prima di recarsi al lavoro, vide John uscire dalla sua casa e dalla sua vita, forse.
Al lavoro si trattenne ma, rientrata a casa, pianse.
XIII
Natale si avvicinava e Giulia, Rita e Francesca si preparavano alla loro rimpatriata in Sardegna per trascorrere le feste in famiglia come solevano fare ogni anno.
Al loro rientro, decisero di incontrarsi ancora per scambiarsi gli auguri per l’anno nuovo.
Questa volta si incontrarono a casa di Francesca, un monolocale con cucina abitabile arredato graziosamente coi mobili dell’Ikea. Nella stanza che fungeva da soggiorno e camera da letto troneggiava un poster de “La Nascita di Venere” di Botticelli mentre su un’altra parete era in bella vista la locandina di “Vacanze Romane”.
“Audrey Hepburn è la mia attrice preferita e il mio ideale di bellezza femminile” disse Francesca.
“Sono d’accordo con te. Per donne e attrici al suo livello hanno perso lo stampo” replicò Giulia
“Difficile davvero eguagliarla. Resta un modello per molte” aggiunse Rita.
“Allora, visto che sull’impareggiabile Audrey siamo tutte d’accordo, ora raccontiamoci un po’ …” continuò Giulia.
“Bene. Comincia tu!” disse Francesca che si era decisa a tacere della sua avventura con John.
“Veramente non ho molto da raccontare. Vacanze in famiglia come ogni anno …” cominciò Giulia
“Dici raccontiamoci e poi dici di non aver niente da raccontare …” la interruppe Rita
“E poi non è propriamente sulle tue vacanze che vogliamo essere aggiornate …” aggiunse Francesca.
“Beh, sul fronte Michele purtroppo non ho davvero nessuna novità da raccontare. Calma piatta: niente, nisba, nein!”
“Peccato! Certo che è un bel mistero quell’uomo! Allora comincia tu”, disse Francesca rivolgendosi a Rita
“Anch’io sono stata dai miei. Sarà perché mi son trovata un lavoro e perché ora vivo autonomamente ma sembra che abbia aggiunto un punto in più alla stima che avevano di me. Non hanno nemmeno accennato alla mia separazione e non mi hanno asfissiato con quello che era il loro ritornello quando ero sposata …”
“E sarebbe?”, interruppe Francesca
“Mi asfissiavano per il fatto che non avessi avuto figli e che loro quindi non avessero nipotini da coccolare ma questa volta l’atmosfera era decisamente pacifica, natalizia quasi quasi come nelle pubblicità”
“E al lavoro come va? Non è che nel frattempo hai incontrato lì il tuo principe azzurro …?!” chiese Giulia
“Non vorrai cominciare tu adesso con la storia che mi manca il principe azzurro?!” sbottò Rita
“Non inalberarti. Chiedevo così per dire” replicò Giulia
“Veramente sono curiosa anch’io sul versante principi e anche sul versante lavoro …” aggiunse Francesca.
Rita decise di accontentarle almeno un po’: “Beh il lavoro è stancante, faticoso e monotono. Pensate … : stare per otto ore al telefono e sentire ininterrottamente le lamentele dei clienti non è affatto facile! Prima si chiamava “ufficio reclami”; ora si dice “customer care”: occorre molta dedizione, pazienza e tolleranza. E poi occorre essere simpatetici coi clienti, occorre farsi carico dei loro problemi ed aiutarli a risolverli. Per fortuna non sono in un call center in cui si fa telemarketing e si lavora a provvigione: sarebbe ancora più frustrante. I call center sono al giorno d’oggi quello che erano le fabbriche nell’Ottocento. Comunque, visti i tempi e vista la mia inesperienza nel mondo del lavoro, non mi lamento … O meglio, mi lamento ma mi accontento”.
Francesca aggiunse: “Lasciatelo dire da una che lavora nel campo reclutamento del personale: di questi tempi bisogna restare attaccati al posticino che si trova anche se può essere scomodo …”.
“Però … che tristezza!!!” commentò Giulia “E allora non ci vuoi dire niente di nuovi amori, principi azzurri … oppure anche rospetti … Proprio niente da aggiungere?!”
“E va bene, visto che insistete. C’è un ragazzo che mi piace. È stato carino con me fin dall’inizio. Mi ha rassicurata dicendomi di non lasciarmi scoraggiare alle prime difficoltà. Le nostre postazioni sono distanti ma ci vediamo sempre durante le pause”
“E com’è? Siete già usciti insieme?”
“È quello che si dice un bel fusto: moro con occhi e capelli scuri e pelle ambrata … ma voi correte troppo. No, non siamo ancora usciti insieme”
“Un bel fusto?! E come si chiama, almeno questo potrai dirlo visto che sul resto sei reticente … E non la sai la verità di Alice? Te ne sei dimenticata anche tu?”
“Si chiama Nicola ma per il resto non voglio davvero più dire niente. Sono reticente apposta: sembra che porti sfiga parlare troppo presto di un nuovo possibile amore … E non ho scordato la verità di Alice: sembra proprio che abbia trovato un’eccezione alla regola! Tu piuttosto non hai niente da dire?” disse Rita rivolgendosi a Francesca.
“Beh, a dire la verità, avrei qualcosa da dire ma non voglio farlo”
“E perché mai?” chiese Giulia
“Perché è ancora tutto troppo fresco, tutto accaduto da così poco tempo … e poi la privacy dove la mettete?!”
“Non siamo in ambiente di lavoro. È un pacifico incontro tra tre amiche, o no?”
“Vero, verissimo ma non mi va lo stesso. Più in là magari. Capiterà senz’altro un’altra occasione”
“E va bene. La prendiamo come una promessa!”
Dopo aver sorseggiato il thè accompagnandolo con torroncini e cioccolatini post festività natalizie, Giulia e Rita si accomiatarono riproponendosi di incontrarsi ancora, questa volta a casa di Rita.
Giulia e Rita si diressero insieme verso la metropolitana: Giulia doveva prendere la verde per andare in zona Città Studi mentre Rita doveva prendere la rossa per dirigersi verso il Duomo, perché non aveva voluto dirlo, visto che anche lei viveva in zona Città Studi.
Rita si rivolse a Giulia: “Ti vedo pensierosa e anche un po’ abbacchiata o forse mi sbaglio?”
“No, non ti sbagli. Ma non è niente. Alla solita malinconia per il mio fuggitivo, si aggiunge quella per i tre chili che ho messo su durante queste vacanze. Devo proprio mettermi a dieta o non starò più nei miei vestiti. Già questi pantaloni che ora indosso mi vanno strettini. Oggi è la giornata dei misteri … Allora non vuoi dirmi cosa vai a fare in centro senza di me!?!”
“Beh, se non stai più nei pantaloni meglio correre subito ai ripari altrimenti diventa sempre più difficile riguadagnare la forma perduta. Per oggi resterò misteriosa ma ti do un indizio: sono generosa. Comincia con la lettera N: facilissimo! Ti ho detto tutto! Siamo arrivate. Allora ci sentiamo presto. Alla prossima!”, disse Rita porgendo la guancia a Giulia per un bacio veloce.
“Si, alla prossima e salutami il bel Nicola!”
“Non mancherò. Ciao!”
Giulia, come aveva notato Rita, era davvero malinconica: i chili di troppo certo contribuivano a farle passare l’allegria ma soprattutto, ora che era rientrata a Milano, aveva ricominciato a pensare a Michele, che ora chiamava “Il fuggitivo”, quasi ossessivamente.
Era distratta anche al lavoro e aveva dovuto sorbirsi i rimbrotti del capo che, una volta tanto, non aveva tutti i torti.
Che male aveva mai fatto lei per meritarsi la tortura che stava vivendo? Valeva davvero la pena viverla come una tortura? O non avrebbe fatto meglio a scacciare i pensieri e a trovare un altro bel fusto mettendo in atto la politica del “chiodo scaccia chiodo”?!
Quanto tempo era ormai passato senza che Michele avesse dato segnali di vita?
Doveva accordargli una tale smisurata fiducia? E perché non riusciva a fare come tante fanno … perché doveva accordagli l’esclusiva del suo cuore (e non solo)? Perché di fatto stava facendo così? Si era chiusa alla possibilità di nuovi incontri, nuove conquiste, nuove avventure, nuovi amori.
Rischiava di ledere la sua salute, la sua salute mentale. Vivere l’assenza, vivere nell’assenza senza alcun barlume di speranza poteva essere assai deleterio. E lei non riusciva nemmeno ad intravedere quel barlume di speranza che l’avrebbe tirata su.
Certo non poteva alleggerire le sue pene parlandone coi genitori. Non poteva e non voleva farlo così come non voleva farlo coi suoi amici e nemmeno con Rita.
Non voleva diventare asfissiante con le sue fisime e non voleva diventare un’ossessione lei stessa.
Il giorno seguente al lavoro anche la sua collega le chiese se stesse bene e se fosse tutto a posto, al che lei si chiese se fosse giunto il momento di cominciare a preoccuparsi seriamente visto che ormai non riusciva più nemmeno a nascondere il suo stato d’animo.
Rientrando dalla pausa pranzo, si accorse che il suo capo non era solo nel suo studio e, al sentire quella che non era la voce del suo capo ma che tanto aveva aspettato di risentire, il cuore le salì in gola.
E la voce le si strozzò quando dovette rispondere al suo formale saluto “Buongiorno”.
“’Ngiorno” riuscì a dire con voce piatta.
XIV
“L’hai vista?”
“Si l’ho vista”
“E cosa vi siete detti?”
“Praticamente niente: solo ‘Buongiorno – Buongiorno’”
“Quindi lei è ancora all’oscuro di tutto?”
“Si, ancora non sa niente”
“Devi parlarle al più presto. L’hai tenuta sulla graticola fin troppo a lungo”
“Lo so da me. Non c’è bisogno che tu lo sottolinei”
“Secondo me tanto mistero è stato ed è eccessivo. In fondo non devi rivelare nessuna verità che una qualsiasi persona di buon senso non possa accettare”
“Non me la sentivo di dirle tutto subito. Non volevo fare il caso penoso e non volevo suscitare nessun sentimento di pietà”
“E allora io? Sono forse un caso penoso? È questo quello che pensi?”
“Alberto, sai bene che non è così ma c’è sempre il rischio di essere fraintesi. La chiamerò più tardi: anche se Oscar Wilde dice che l’attesa del piacere è essa stessa piacere non sono tanto sicuro che questa attesa sia stata un piacere. Forse è stato più un tormento”
“Credo anch’io. A stasera dunque!”
“A stasera”
“Allora, come è andata? Racconta!”
“Mi ha rifiutato. Ha detto no”
“Ma tu le hai detto tutto? Le hai spiegato …?”
“No non gliel’ho detto. Le ho offerto l’anello però”
“Calma. Vai piano. Comincia dall’inizio. Dove vi siete incontrati?”
“L’ho chiamata mentre era ancora al lavoro e l’ho invitata a cena. Mi ha detto che non potevo sparire per così tanto tempo e poi ripiombare nella sua vita e pensare di cavarmela con un invito a cena. Le ho detto che non cercavo facili sconti e che ero pronto ad assumermi le mie responsabilità.
Si è quindi ammorbidita ed ha accettato l’invito.
Siamo andati nello stesso ristorante dove l’avevo portata al primo appuntamento. Questa volta però abbiamo preso una pizza tutti e due. Poco romantico certo ma ci andava così. Lei ha preso una vegetariana ed io rucola e grana il tutto annaffiato dalla Guiness. Piace ad entrambi il gusto amarognolo sormontato dalla schiuma bianca e densa. Poi abbiamo preso entrambi l’ananas per rinfrescarci e ripulirci la bocca. Anche questo è un dettaglio assai poco romantico, lo so. E ora giungo al lato romantico. Mentre aspettavamo lei un amaro – vuoi sapere quale? Un Ramazzotti non il mirto come al solito – ed io il caffè, ho tirato fuori la piccola confezione. Difficile mantenere il mistero: dalla forma della scatola si capiva cosa c’era dentro. Lei l’ha presa e l’ha scartata con calma. Le mani le tremavano un po’ mi sembra ma la voce era calma, quasi piatta direi.
“E questo cosa significa?”, mi ha detto.
Ed io: “Secondo te?!”
“Tutto qui quello che hai da dire? Secondo te?! …”
“È evidente cosa significa. È un anello. È un diamante e, come dice la pubblicità, un diamante è per sempre. Non ti sto chiedendo di fidanzarti con me. Ti sto chiedendo di sposarmi …”
“L’anello è splendido. Splendido davvero, non ho altre parole. Ma chiedermi di sposarti mi sembra eccessivo, prematuro e per giunta fuori luogo visto che sei ripiombato nella mia vita dopo essere sparito per mesi senza dare notizia di te”.
“Sei sicura? Non mi dici nemmeno che ci penserai, che hai bisogno di tempo … Il tuo è un no secco?”
“Si, mi spiace, è un no secco”
Ho abbassato lo sguardo perché non leggesse la delusione nei miei occhi.
Non ho nemmeno tentato di giustificarmi. Non ci sono riuscito. È stato più forte di me, te lo ripeto: non voglio suscitare la sua pietà. Non voglio che mi sposi per pietà. Forse sono eccessivo ma non me la sono sentita. E poi dovrò decidermi a dirle come sono arrivata a lei …
Dopo l’ho accompagnata a casa perché mi ha detto che era stanca.
Giunti davanti a casa sua, le ho chiesto: “Almeno un bacio me lo concedi?” e lei mi ha risposto: “Te lo concedo anche se non sono sicura che te lo meriti” e così ci siamo baciati indugiando con tenerezza. Non siamo andati oltre, non volevo fare pressioni. Tu cosa pensi che dovrei fare ora?!?”.
XV
“Pronto Rita! Eri già a letto? Ti ho svegliata?”
“No, non mi hai svegliato. Ma cosa è successo? Mi sembri agitata …”
“Non ci crederai. Michele … Michele è tornato. Dopo la sua lunga assenza, è ricomparso …”
“E cosa è successo?”
“L’ho visto dapprima in studio e quando lui mi ha detto ‘Buongiorno’ a malapena sono riuscita ad articolare ‘Ngiorno’ poi mi ha telefonato verso le diciassette e mi ha invitato a cena. Io sono stata un po’ acida e gli ho chiesto se pensava di potersela cavare con un invito a cena dopo un’assenza così lunga come se niente fosse accaduto. In effetti è il non accadere per mesi che oggi mi ha resa abbastanza scorbutica. Scusa, ti pare normale?”
“No, forse non è nor-ma-le ma avrà anche lui le sue giustificazioni … Cosa ti ha detto?”
“Non mi ha detto niente a sua discolpa ma forse ha fatto di più. Dopo cena, quando eravamo io all’amaro e lui al caffè, mi ha dato un pacchetto”
“Un pacchetto?! Un altro regalo … È all’altezza dell’orologio?”
“Supera l’orologio. È un anello, un solitario”
“Un solitario? Vi siete fidanzati?”
“No, non ci siamo fidanzati. Mi ha chiesto di sposarlo!”
“Di sposarlo?! Non posso crederci …”
“Anch’io stento a crederci ma l’ha fatto”
“E tu cos’hai detto? Come hai reagito?”
“Ero emozionata: mio malgrado mi tremavano le mani ma son riuscita a tenere la voce ferma, acidula forse. Gli ho detto no!”
“No?! Ma sei fuori?!”
“Scusa … ma che avrei dovuto fare? Per mesi non si fa vivo e poi ripiomba nella mia vita chiedendomi di sposarlo. A me non sembra tanto normale …”
“E ridagli con questo ‘normale’ … Che sarà mai questa ‘normalità’ … Dopo quanto hai penato per mesi. Un anello con solitario vale mille giustificazioni …”
“Tu credi? Io credo che restiamo ancora estranei l’un l’altro … nonostante, abbia penato – lo ammetto – per mesi”
“Io ti dico ‘Se l’idea, per quanto irrazionale, ti rende felice, ti fa sentire felice, cogli l’attimo, cogli la rosa. Ceullez des aujourdi le roses de la vie’ … Non diceva così Ronsard?”
“Bisogna vedere se son rose davvero. Ed io comunque finora ho toccato solo le spine”
“Appunto per ciò: basta con le spine. Cogli il fiore!”
“No, è un’idea che non posso nemmeno prendere in considerazione almeno finché non mi avrà fornito delle spiegazioni per la sua lunga assenza”
“Secondo me sei eccessiva. Non eri tu quella che diceva che bisogna fidarsi …”
“Si, forse lo dicevo ma ora mi sembra diverso. Se proprio vuole sposarmi, se per lui è una cosa seria davvero, allora non dovrebbe avere problemi a dire la verità, a svelare i suoi segreti. Se davvero vuole sposarmi, allora non dovrebbero esserci segreti tra noi”
“Vedo che non riuscirei a convincerti oggi. Sai che ti dico? Dormici su! Sicuramente dopo una bella dormita vedrai tutto diversamente”
“Dormire … Spero proprio di riuscirci! Comunque non ti trattengo oltre. Ci sentiamo domani. Buonanotte!”
“Ok, a domani! Notte!”
Giulia, pensando che il sonno avrebbe tardato ad arrivare, si preparò una camomilla doppia prima di mettersi a letto. E infatti sembrava proprio che Morfeo non volesse accoglierla tra le sue braccia.
Si girava e rigirava nel letto pensando alla ricomparsa di Michele e alla sua, quantomeno avventata, proposta.
Si diceva che non avrebbe potuto reagire altrimenti e che, se si fosse ripresentata la stessa situazione, si sarebbe comportata allo stesso modo.
Altre donne sarebbero state arcicontente di ricevere una proposta di matrimonio da un bel principe come Michele ma lei non si sentiva ancora pronta a dire si.
Certo Michele non aveva trovato difficoltà a portarsela a letto ma … sposarsi era tutto un altro paio di maniche. Matrimonio per lei significava impegno, dedizione, rispetto reciproco, fedeltà a lungo termine. E poi il modo in cui Michele era scomparso, il modo in cui era ricomparso, i suoi misteri, le sue incognite la portavano istintivamente a non voler cedere, a non volersi arrendere … non che loro due fossero in guerra e che vedesse in Michele un avversario o, peggio, un nemico.
Voler condividere la buona e la cattiva sorte era una decisione importante, era un grande passo.
Forse stava razionalizzando troppo o forse no, forse la sua era una scelta dettata dall’impulso e dall’istinto … Aveva ragione Rita: doveva dormirci su e non rimuginarci troppo.
Finalmente Morfeo arrivò e la prese tra le sue braccia.
XVI
John non era del tutto uscito dalla sua vita. Dopo i giorni di black out in cui era in giro per l’Italia del Nord, avevano ripreso a mandarsi messaggi via e-mail e a stare in contatto virtuale.
Anche John era tornato al lavoro ed era stato riassorbito dal solito tran tran quotidiano ma ciò non gli impediva di scrivere alla sua miss Italia, a quella che era stata la sua Florence e Francesca, benché vagamente delusa e disorientata perché tutto si era consumato in così breve tempo, ne era contenta.
Era delusa perché l’avventura non si era evoluta in qualcosa di più grande e importante ed era disorientata perché l’intimità che si era creata tra loro verbalmente, via mail, non si era sposata con l’intimità che si era sviluppata nel “mondo reale”.
Certo avevano fatto l’amore, o forse avevano fatto solo sesso, e si era creata la naturale intimità tra due corpi nudi coinvolti nell’amplesso. Però l’intimità carnale tra loro, benché leggera e gioiosa, non le sembrava al livello dell’intimità che si era creta con le parole: senza girarci intorno, per dirla francamente, Francesca non aveva avuto nemmeno un orgasmo.
Leggeva regolarmente Cosmopolitan, nella versione british, e sapeva che era un problema (sempre che come “problema” lo si volesse etichettare) comune a molte donne, comprese quelle fidanzate da anni con la stessa persona … però questo non la sollevava.
Se doveva ammettere tutta la verità, John in qualche misura l’aveva delusa: le sue parole che tanto promettevano non si erano tradotte in realtà.
Allo stesso tempo però doveva ammettere che non si era trattato di un’esperienza del tutto negativa o, peggio, patetica. John non la vedeva così e glielo scriveva nelle sue mail.
Dopo due settimane ricevette un piccolo plico dall’America: si trattava delle foto che aveva scattato John durante il loro soggiorno a Firenze. John aveva unito ad ogni foto una breve didascalia e tra le altre c’era la foto “Nuda” (scritto in italiano) come un quadro che avevano visto in un museo.
Lei era sdraiata sul letto rilassata dopo le fatiche dell’amore, non era come i nudi delle riviste patinate, era un nudo “casalingo” e a lei la foto non piaceva. Manco a dirlo, invece a John la foto piaceva tanto.
Francesca si diceva che poteva pur continuare la corrispondenza con John ma doveva cominciare a cercare contatti nel mondo reale.
Certo nel mondo del lavoro non voleva stringere rapporti che non fossero cordialmente superficiali e la cerchia di amici era una cerchia in qualche modo “chiusa” perciò non vedeva all’orizzonte nessuna possibilità di nuovi incontri e di nuovi contatti.
Rientrata a casa dopo una giornata di lavoro piuttosto pesante, prese il telefono e chiamò Rita.
“Ciao Rita! Come stai?”
“Si tira avanti e tu?”
“Anch’io tiro avanti … Ti ho chiamato per fare due chiacchiere e per sapere se ti va di uscire insieme prossimamente”.
“Sì, come no?! Magari possiamo invitare anche Giulia e andare a prendere qualcosa ai Navigli?”
“Mi sa che tu conosci più di me la Milano da bere …”
“No, a dire il vero non tanto ma ultimamente ho reclutato una buona guida …”
“Non dirmelo … Scommetto che questa guida si chiama Nicola …”
“Indovinato! Non era difficile”
“No, non lo era. Allora la vostra storia va avanti … Ci sono nuovi sviluppi?”
“No. Usciamo insieme ogni tanto e stiamo bene insieme ma per ora usiamo solo le marce basse. Non vogliamo accelerare i tempi … non so se capisci …”
“Si capisco …”, replicò Francesca reduce da una storia vissuta con la quinta inserita senza nessuna preoccupazione di andarsi a schiantare.
“E il lavoro?” aggiunse
“Sempre sotto pressione ma, si sa, nei call center funziona così …”
“Sì, l’ho sentito dire da più persone”
“E tu, che mi dici di te?”
“Al lavoro non va male: siamo un gruppo collaudato da anni e funzioniamo bene. So di essere fortunata da questo punto di vista. In quanto al resto, detto francamente, sono a secco”
“Vuoi dire che non c’è un lui con cui uscire, stare assieme eccetera eccetera?!”
“Esatto, proprio quello …”
“Ma, sbaglio, o mi avevi accennato a una tua storia …?!?”
“Si, ma ora è acqua passata o quasi. Allora quando ci vediamo? Venerdi o sabato?”
“Io preferirei sabato ma forse Giulia deve uscire coi suoi amici … Magari le chiediamo di portare anche loro, che ne dici?”
“Ok! Per me sabato andrebbe benissimo. Ci sentiamo per conferma allora. D’accordo?!”
“Bene. Ti chiamo domani per conferma. A presto!”
“A presto!”
Dopo aver concluso la conversazione telefonica con Rita, Francesca uscì a fare la spesa e rincasando vide attaccato a un palo un avviso: si cercavano volontari per insegnare italiano agli stranieri. Francesca staccò il numero telefonico e decise di chiamare.
Così fece e fu invitata ad un incontro fissato per il sabato mattina.
Il sabato mattina puntuale si recò all’appuntamento: si trattava di una iniziativa promossa da un gruppo facente parte del Movimento Umanista di cui, a dire il vero, non sapeva proprio niente.
C’erano anche altre tre persone interessate. Fu spiegato che si trattava non di fare un volontariato di tipo assistenzialista ma un volontariato basato sul principio di reciprocità vale a dire sulla convinzione che tutti abbiamo qualcosa da dare e che chi riceve un aiuto può a sua volta avere qualcosa da dare in cambio, da mettere al servizio della comunità. Era richiesta una piccola quota associativa e Francesca, pensando che ne valesse la pena, decise di aderire. Lei si rendeva disponibile per il sabato mattina perché gli altri giorni della settimana tornava a casa stanca e così le fu assegnata la classe di italiano “avanzata” cioè per persone che sapevano già parlare e capire l’italiano.
Si rese disponibile anche per un’ora di attacchinaggio cioè per attaccare i volantini perché potessero essere reclutati gli allievi.
Tornata a casa cercò su Internet notizie sul Movimento Umanista e sull’insegnamento di Silo e trovò dei siti in cui questo movimento era addirittura considerato una setta sovversiva. A lei non era sembrato così e perciò decise che avrebbe tenuto le sue lezioni di italiano senza per questo farsi fare il lavaggio del cervello. Le era stato fornito del materiale per preparare le lezioni che portò a casa e che decise di integrare con la lettura delle storie sufi de “Il bimbo e lo scorpione” di Leonardo Vittorio Arena: piccole storie di cui fare l’analisi grammaticale o su cui verificare la capacità di comprendere un testo scritto in italiano.
Lei era contenta di questa forma di volontariato e pensava che così avrebbe potuto anche allargare la cerchia delle sue conoscenze.
XVII
Lo portarono in sala operatoria in barella e lo adagiarono poi su un lettino dove gli dissero che lo avrebbero anestetizzato. Inserirono l’ago nella vena del braccio sinistro e gli chiesero di contare. La radio era accesa o, almeno, così gli sembrava.
Sognò.
Sognò uno splendido arcobaleno. Lui stava da una parte dell’arco e sapeva che dall’altra parte c’era lei anche se non la vedeva. C’era lei che lo aspettava: la vide e decise di lasciarsi scivolare verso di lei. Forse era come rinascere: si sentiva immerso in un bagno di acqua calda. Si lasciò scivolare e la raggiunse.
Lo colpirono le luci della stanza e alcune voci ovattate.
Una si fece più chiara: “Si sta svegliando …”
Riuscì a mettere a fuoco un’infermiera che ripeté: “Si sta svegliando …”
Lui accennò un sorriso per far comprendere che a sua volta comprendeva.
“L’intervento è riuscito e anche Alberto sta bene”
Lui sorrise ancora di rimando.
Dopo il necessario tempo di degenza all’ospedale, Alberto e Michele vennero dimessi e poterono tornare a casa.
I medici dissero che era andato tutto bene e che, fatti salvi gli opportuni controlli periodici, avrebbero potuto vivere una vita normale: Alberto col rene del fratello e Michele con un solo rene.
“Ancora non mi spiego perché tu abbia voluto fare tanto il misterioso e non gliel’abbia voluto dire”
“Te l’ho detto. Non volevo dare di me un’immagine penosa; non volevo che mi accettasse per pietà”
“Sei assurdo! Ma ti sei visto?! Come avresti potuto dare di te un’immagine penosa …?!”
“Tutto può succedere”
“Si ma non era necessario nemmeno che ti assentassi tanto a lungo. Ho apprezzato il fatto che tu abbia voluto starmi vicino il più possibile ma non era indispensabile che tu ti alienassi dalla tua stessa vita”
“So che non dovevo ma ero io che volevo. È stato un passo importante, molto importante e non volevo che qualcosa andasse storto. Ora posso riprendere la mia vita”
“Anch’io e te ne sarò per sempre grato, lo sai”
“Si lo so. Non servono tante parole”
“E dovrai rivelarle anche come sei arrivato a lei, come ti sei fiondato nella sua vita, come tu l’avessi conosciuta ancora prima di incontrarla personalmente”
“Già. Ho tergiversato tanto a lungo perché penso che possa aversene a male. Penso che potrebbe vederlo come un tradimento. Un tradimento ‘preventivo’ …”
“Addirittura! Ma comunque su questo sono d’accordo con te. Hai già messo a dura prova la sua fiducia e più rimandi peggio è. Secondo me almeno”.
“La chiamerò oggi stesso, più tardi però, quando sarà uscita dal lavoro”
“Pronto! Ciao Rita. Ti ho chiamato per la conferma per domani. Usciamo assieme allora?”
“Si, l’ho detto anche a Giulia. I suoi amici, Paolo e Giovanni, però non possono venire”
“Pazienza. Sarà per un’altra volta. Saremo quindi noi tre, le sardegnole emigrate.”
“Si saremo noi tre. Andiamo a bere qualcosa ai Navigli”
“Ok, per me va benissimo”
“A domani allora”
“A domani”
“Pronto Giulia?! Ciao sono Michele …”
“Ciao Michele. Come stai?”
“Non c’è male e tu?”
“Anch’io tiro avanti …”
“Ti ho chiamata per sapere se domani ti va di uscire con me”
“Domani non posso: ho un altro appuntamento con due mie amiche. Mi spiace”
“Dispiace anche a me. Potremmo fare domenica allora …”
“Vada per domenica. Però non vorrei fare tardi”
“Non faremo tardi. Vengo a prenderti alle diciotto e trenta e andremo a prendere un aperitivo nella zona di Brera. Poi, sempre in quella zona, conosco un ristorante eccezionale”
“Ok d’accordo. Ci vediamo domenica allora”
“A domenica. Ciao!”
“Pronto?!”
“Pronto. Ciao Francesca. Sono Piero, Piero del Movimento Umanista. Come stai?”
“Non c’è male. E tu?”
“Tutto ok. Ti chiamavo per sapere se domani vuoi unirti a noi. Organizziamo una cena di autofinanziamento al Centro”
“E cosa sarebbe una cena di autofinanziamento?”
“È una cena che ci serve per raccogliere fondi. C’è una quota che ogni partecipante deve versare: la quota è di dieci euro. E non ti dico il menu. Cucina Angelo che è un cuoco provetto”
“Mi spiace ma per domani ho già un impegno …”
“Estendi l’invito anche ai tuoi amici o al tuo fidanzato. Venite tutti assieme, dai”
“No, non per questa volta.”
“Pazienza! Ok, non insisto. Ciao! Alla prossima!”
“Alla prossima!”
“Pronto! Ciao Nicola”
“Ciao Rita! Ti chiamavo per augurarti la buonanotte”
“Grazie, sei gentile”
“Figurati! Ci vediamo domenica allora!”
“Si, domenica come d’accordo”
Il bar era affollato e c’era chi si contendeva i tavolini, le sedie e gli sgabelli. C’era anche chi suonava il bongo e forse non era l’ambiente adatto per le confidenze sussurrate in segreto. Ciononostante, forse complici birra e cocktail, si instaurò tra Giulia, Rita e Francesca un sereno clima confidenziale.
Tema: problemi di cuore.
Giulia cominciò a parlare della ricomparsa di Michele e della sua proposta di matrimonio.
Rita e Francesca pendevano dalle sue labbra.
Francesca disse: “Ma come … hai rifiutato? Ora che avevi la possibilità di affiggere l’etichetta ‘occupato’ …!? Pensa, un bono occupato con te, occupato da te, alla faccia della verità di Alice …”
“Ci ho pensato certo. Ma forse mi è sembrato troppo bello per essere vero o forse no. Non so più se fidarmi. Benché sia bello, affascinante, gentile, colto e per giunta ricco, ci sono ancora dei punti oscuri in lui: per esempio non mi ha dato ragione della sua lunga assenza, del suo lungo silenzio. Assenza e silenzio snervanti, al limite dell’esaurimento nervoso, lo sapete.”
“Si lo sappiamo, ma sicuramente ci sarà una spiegazione. Sarebbe un peccato perderlo solo perché non vi siete chiariti”, replicò Francesca.
“Ci vediamo domani. Spero che sia la volta buona … E voi, che mi dite di voi e della vostra vita sentimentale?”
“In quanto a me” disse Rita “in quanto a me, continuo a vedere il bel Nicola che oltre che bello è anche un bravo ragazzo, o così sembra almeno. Stare vicino a lui mi dà un senso di sicurezza”
“Io al momento sono a secco ma non so se in uomo sceglierei la sicurezza piuttosto che l’avventura …”, replicò Francesca
“Hai avuto avventure di recente? C’eravamo lasciate con una tua promessa la volta scorsa. Dai, racconta”
“Beh, che dire … Lui è lontano ormai. Ha attraversato mezzo mondo per conoscermi …”
“Per conoscerti?! Vuoi dire che si è trattato di un appuntamento al buio?!”
“Beh, in un certo senso. In realtà ci siamo conosciuti con le parole prima che nei fatti. Ci siamo incontrati nel mondo virtuale. Anzi, tutto è cominciato con un annuncio su Newsweek. Io ho risposto, ci siamo poi scambiati l’indirizzo di e-mail e da allora non ci siamo più lasciati. Siamo in contatto anche ora che l’avventura si è consumata”
“I dettagli più sordidi! Vogliamo i dettagli!!!”
“Esagerate! Lui è americano”
“Ugly American, eh?! Abbiamo ragione a chiederti i dettagli più sordidi …”
“Non è tanto alto, ha gli occhi chiari e i capelli salt and pepper. Ha definito il nostro incontro una luna di miele senza matrimonio …”
“E dove vi siete incontrati? Era la prima volta che veniva in Italia? Non lo avrai incontrato a Milano, spero”
“In effetti lui è arrivato a Milano ma poi abbiamo consumato la nostra luna di miele a Firenze”
“Ottima scelta e vi siete goduti la città di Dante?”
“Si, lui non è rimasto deluso … nemmeno del bed and breakfast …”
“E tu sei rimasta delusa?”
“Forse un po’ …”
“Non è stato all’altezza delle aspettative?”
“Sai, è facile essere delusi negli appuntamenti al buio …”
“Beh, questo non era proprio al buio. Forse la sua immagine che mi ero creata nel mondo virtuale in tanti mesi di corrispondenza non è poi risultata esattamente equivalente all’immagine di lui che ho avuto nel mondo reale”
“Anche questo è perfettamente comprensibile: io ho avuto un pen friend quando ero al liceo e quando poi ci siamo incontrati da un lato mi sembrava di conoscerlo da sempre mentre dall’altro lato mi sembrava di avere davanti un perfetto sconosciuto.”
“È stata la prima volta che ti sei lanciata in un’avventura?”
“Si! E, a dire il vero, è stata la prima volta… in assoluto”
“Tu ti eri immaginata chissà che … Sicuramente avevi aspettative tanto alte: immaginavi che tutto sarebbe stato perfettino, tutto come nei tuoi sogni, e invece la realtà è stata diversa”
“Sì, è andata più o meno così. Io ho mantenuto la promessa. Ora, Rita, tocca a te”
“Che dire? Continuiamo a vederci al lavoro e anche nelle ore libere. Sembra uno con la testa a posto. Io cerco sicurezze e lui, lui sta diventando una presenza sicura. Ci vediamo anche domani”
“Ne sono contenta”
“Anch’io”
XVIII
La sala era affollata, come sempre durante l’happy hour. Molti si rimpinzavano per poter saltare la cena ma a Giulia non piaceva fare così: le sembrava troppo sfacciato e da tirchi.
Michele la pensava come lei e così, dopo l’aperitivo e un assaggio di insalata russa, andarono al ristorante. La notte era serena ma si faceva fatica a scorgere le stelle.
“Ti chiederai come mai sia stato via tanto tempo …”
“Ma va?! Certo che me lo chiedo”
“Forse ho fatto troppo il misterioso, mio malgrado”
“Come ‘tuo malgrado’? Non sei tu che hai deciso di sparire per mesi?”
“Si, ho deciso io di sparire ma l’ho fatto per una buona ragione”
“E sarebbe?”
“Ora ci arrivo”
“Sono tutta orecchi”
“Beh vedi. Ho subito un intervento, un intervento chirurgico”
“Ma davvero? Stavi male?”
“No, non ero io a stare male. Era mio fratello Alberto”
“Non me ne avevi mai parlato …”
“Mio fratello era affetto da una grave forma di insufficienza renale cronica ed era costretto al supplizio della dialisi ospedaliera per poter sopravvivere”
“Hai detto ‘era affetto’: questo vuol dire che ora è guarito oppure che …”
“No, lui sta bene ora e anch’io. Gli ho donato un rene perché tornasse alla vita normale”
“Davvero ammirevole ed encomiabile ma perché me l’hai taciuto tanto a lungo?”
“Non volevo suscitare in te un’immagine pietosa di me stesso”
“Non sono una che indulge in facili pietismi. Forse non ritenevi la nostra relazione tanto seria da potermi confidare un ‘segreto’ così importante?”
“No, non è questo. Se avessi ritenuto la nostra solo un’avventura, non sarei tornato affatto.”
“La tua è stata una decisione che ti fa onore”
“Ora che abbiamo fatto luce sul mio mistero, riprenderesti in considerazione la mia proposta?”
“La tua è una proposta lusinghiera e mi scuso per i toni un po’ acidi che ho usato ultimamente ma io non credo di essere pronta per il matrimonio”
“Perché non ti senti pronta? Siamo stati bene assieme e stiamo bene ancora, o no?”
“Sì, sicuramente stiamo ancora bene insieme però il matrimonio per me è importante, il matrimonio è ‘per sempre’ …”
“Per questo ti ho comprato un solitario: anche un diamante è per sempre”
“Non sono sicura di volermi impegnare in un rapporto ‘per sempre’”
“Allora pensi alla nostra come un’avventura?”
“Niente affatto, niente affatto”
“Allora hai paura degli impegni seri?”
“Forse ho paura e basta. Si sente sempre più spesso di matrimoni che naufragano dopo brevi periodi”
“Non abbiamo la sfera magica ma perché il nostro legame dovrebbe essere destinato a naufragare?”
“Non dico che sia destinato al fallimento. Dico solo che io non mi sento pronta”
“Dimmi almeno che ci penserai”
“Si, ci penserò ma non voglio crearti false illusioni che poi potrebbero andare deluse”
“Ok, non mi illuderò, almeno non fino a quando non mi darai la tua risposta definitiva”
“La risposta da un milione di dollari”
“Allora gliel’hai detto?”
“Si Alberto, gliel’ho detto”
“E lei cosa ha risposto? Come ha reagito?”
“Mi ha detto che non è pronta per il matrimonio”
“Come ‘non è pronta per il matrimonio’?”
“Così mi ha detto. Mi ha detto di non sentirsi pronta per un legame ‘per sempre’ …”
“Ma tu sei sicuro della tua scelta? Sei sicuro di lei?”
“Sono arcisicuro e non voglio perderla”
“Pronto Rita! Ti disturbo?”
“No, non mi disturbi. Cosa è successo?”
“Non ci crederai … Michele mi ha rivelato la ragione della sua lunga assenza”
“Ed era un ragione valida?”
“Più che valida. Ha donato un rene al fratello malato”
“Donato un rene? Fratello ammalato? Ma non te ne aveva mai parlato …”
“Ha detto che non voleva dare di sé un’immagine pietosa e poi mi ha rinnovato la sua proposta di matrimonio”
“E tu che hai fatto questa volta?”
“Gli ho detto che non mi sento pronta”
“Gli hai detto che non senti pronta? Ma perché? Cosa ti frena?”
“Non mi sento pronta e basta. Una scelta così, come dire?, così definitiva mi spaventa”
“Sei sempre stata una persona responsabile …”
“Forse è proprio per questo”
“Per te è più di un’avventura, no?”
“Si, sicuramente”
“E allora, non ti sembra naturale che una storia importante sfoci nel matrimonio?”
“A dire il vero non mi sembra naturale. Ci sono tanti legami affettivi e sentimentali più forti del matrimonio. Comunque gli ho detto che ci penserò”
“Si pensaci bene. Stai attenta a non perdere un treno importante”
“Tu piuttosto … Non ti ho chiesto come è andata la tua uscita con Nicola …”
“E’ andato tutto bene. Come ti ho detto l’altra volta, è una presenza che mi rassicura e questo è ciò che ci vuole per me”
“Bene bene. Ci vediamo presto allora”
“Si a presto. E non lasciare fuggire la felicità o almeno la promessa di felicità …”
“Cercherò di non farlo! Notte!”
“Notte!”
Michele si mise a letto con uno stato d’animo altalenante tra la speranza e la paura: la speranza che Giulia decidesse per il si e la paura che Giulia decidesse per il no.
Giulia si mise a letto sicuramente rassicurata nel suo amor proprio: si sentiva davvero lusingata per l’offerta di Michele e la sua rivelazione, la sua verità, non facevano che accrescere la stima che aveva di lui.
Rita si sentiva serena come non lo era stata più per anni e doveva questo nuovo stato d’animo a Nicola.
Pure Francesca si sentiva serena anche se ogni tanto pensava che la sua vita fosse patetica: ora però era pronta per nuovi incontri ed era sicura che la vita potesse essere piena di sorprese.
Alberto continuava a ringraziare di cuore la sua buona (nella cattiva) sorte.
Morfeo li strinse tutti nel suo abbraccio rassicurante.
XIX
“Ciao! Sono passato per sapere come ti va”
“Tutto bene. Grazie Michele”
“Ma i dottori cosa dicono? C’è ancora il rischio di rigetto?”
“I rischi di rigetto sono minimi ormai. Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi regalato la possibilità di una vita normale”
“Ho fatto solo quello che un qualsiasi fratello avrebbe fatto”
“Forse no, forse hai fatto quello che solo un fratello speciale avrebbe fatto … E Giulia? Che mi dici di Giulia?”
“Ci siamo visti anche ieri. Stiamo ricucendo lo strappo però non voglio metterle fretta … La settimana prossima le rinnoverò la mia proposta e spero che sia la volta buona”
“Quando le dirai il tuo piccolo segreto? Prima o dopo aver rinnovato l’offerta?”
“Questo è un tasto dolente: temo che la prenda male”
“Non vorrei essere nei tuoi panni. In fondo sei nella posizione di chi ha rubato un segreto …”
“Forse … La inviterò per una cena a casa mia”
La luce era soffusa, la musica – Bessie Smith – a volume moderato, l’aperitivo alla giusta temperatura. Lo sorseggiavano seduti sul divano.
“Hai ripensato alla mia proposta?”
“Si ci ho ripensato”
“E a quali conclusioni sei arrivata?”
“Te lo dirò a breve ma prima rispondi a questa domanda: ‘Perché io?’”
“Perché tu? La mi risposta è ‘Perché no?’ C’è qualche ragionevole motivo per cui io non dovrei chiederti in moglie?”
“Non saprei. È solo che mi sembra tutto troppo bello per essere vero … Sei bello, affascinante, gentile, generoso, sensibile, intelligente, sei addirittura ricco … Dov’è il trucco?”
“Tempo fa ti ho risposto che non c’è trucco e non c’è inganno”
“E ora, ora cosa rispondi?”
“Anche ora ti dico che non c’è trucco e non c’è inganno però ti devo rivelare …”
“Un altro segreto? Mi devi rivelare un altro segreto?”
“Non esattamente. Ti devo piuttosto rivelare di averti rubato un segreto.”
“E che segreto mi avresti rubato? Mi pare di vivere la mia vita alla luce del sole”
“Non lo nego. Però tutti abbiamo dei segreti. Ti ricordi di quando mi hai chiesto come facessi a sapere della tua terra d’origine?”
“Si che me lo ricordo. E ora stai per rivelarmi le tue fonti?”
“Conosco Camilla”
“Co-no-sci Ca-mil-la?”
“Forse sarebbe più corretto dire che ho conosciuto Camilla visto che ora non c’è più …”
“Accipicchia! E ora cosa dovrei dire?”
“Niente. Non devi dire niente. Io mi sono invaghito di Camilla prima ancora di vedere te in ufficio. Immagina la mia sorpresa”
“Hai anche tu una scheda e un nickname su Match.com? Come mai non ti ho notato in versione virtuale?”
“Avevo una scheda ma senza foto. Per questo non avresti potuto collegare la mia immagine a quella degli aspiranti principi azzurri”
“E come mi hai trovato nel mondo reale?”
“È stata una bella sorpresa. Non ci avrei mai scommesso …E ora che ne dici di provare il solitario? Dammi almeno la soddisfazione di vedere come ti sta”
“Sono confusa ed è strano che non mi senta arrabbiata”
“Forse è un sollievo scoprire di non avere segreti per un’altra persona …”
“Forse … forse … Credo che mi arrenderò”
“Non siamo in guerra però arrendersi e condividere mi sembra un’ottima scelta, modestia a parte”
“Hai un cartellino adesivo?”
“Un cartellino adesivo?!”
“Un cartellino adesivo”
“No, mi spiace, credo di non averne. Si potrebbe ovviare col retro di uno dei miei biglietti da visita e un po’ di scotch?”
“Credo di sì”
“Non mi vuoi dire a cosa ti servono …”
“Lo vedrai …”
Michele andò a prendere i suoi biglietti da visita e il nastro adesivo.
“Ora mi serve una penna anche se sarebbe meglio un pennarello, rosso magari”
“Eccoti la penna. Pennarelli non ne ho a portata di mano”
Giulia prese la penna e scrisse sul retro del biglietto da visita “OCCUPATO” poi col nastro adesivo attaccò il biglietto al petto di Michele.
“E questo cosa vorrebbe dire?”
“Vuol dire che sei mio possesso. Vuol dire che io ho l’esclusiva su di te. Non conosci la verità di Alice?”
“Mai sentita ma ti sarei grato se me la svelassi”
“Alice enunciò una volta una grande verità che non ho mai scordato.
Le parole di Alice formularono la sua grande, profonda, meditata verità in termini solenni ed eleganti: - I ragazzi boni sono come i cessi pubblici: sempre occupati! - ”.
“Ciò significa che io sarei paragonabile a un cesso pubblico?”
“Per ridere … Ora mi porti il solitario?”
Scritto a Milano nel 2001
Pubblicato sul sito a Pavia il 5 gennaio 2020
Clicca qui per modificare.
Clicca qui per modificare.