2023
Punti di vista
Della vecchiaia - Riflessioni
Qualche settimana fa, durante un accenno di conversazione tra una sessantenne, una trentaquattrenne e me, cinquantaquattrenne, mentre si parlava di genitori anziani e acciaccati, la trentaquattrenne ha affermato: “Ma dai, sono anziani, hanno avuto la loro vita e poi ora sono seguiti…”. La conversazione è terminata così.
Insomma, non ci si dovrebbe rammaricare e affliggere se gli anziani soffrono, se tuo padre e/o tua madre, e tu con loro, affrontate giornate difficili… Sono anziani! Hanno avuto la loro vita!
Ho letto non so dove che, ammesso che sia vero, quando un branco di lupi si sposta, davanti, a segnare il passo per tutti, sono proprio i lupi anziani che, altrimenti, sarebbero lasciati indietro; al centro stanno le femmine e i cuccioli, e chiudono il branco i lupi maschi giovani, che assicurano protezione al gruppo.
I lupi sembrano essere più saggi degli umani.
I Romani dicevano “Senectus ipsa est morbus”, “La vecchiaia in sé è una malattia”. Invecchiare sarebbe quindi un essere malati.
Sappiamo però che non invecchiare sarebbe peggio; c’è infatti chi non arriva alla vecchiaia e quindi, ad ogni compleanno, dovremmo essere grati per gli anni passati e per quelli futuri che ci verranno dati in dono.
Eppure nella nostra società, da un lato assistiamo ad una sorta di negazione della vecchiaia; invecchiare sembra vietato. E siamo così bombardati da messaggi audio e video, su attori, attrici, musicisti, vari personaggi dello spettacolo e perfino politici, che, al limite del grottesco e del ridicolo, ricorrono al bisturi dei chirurghi estetici, alle infiltrazioni di botulino, ai rimpolpamenti (se si dice) di collagene o chissà che altro, messaggi che inducono l’idea che si possa non invecchiare e che quindi sia fattibile inseguire una sempre rinnovata e rinnovabile giovinezza (del corpo almeno).
Da un altro lato, vista la carenza di nascite, in modo ormai palese e assodato, gli anziani rappresentano un ampio bacino d’utenza di prodotti per le loro esigenze. Ecco quindi il proliferare di messaggi pubblicitari per la terza e la quarta età: tinte per capelli, occhiali per la presbiopia o con le lenti progressive, dentiere, panni per l’incontinenza, gel contro i dolori alle ossa, scarpe comode, integratori alimentari, telefoni coi tasti grandi a prova di “nonni” e via così. Insomma, gli anziani, visto che ci sono, consumano e continuano a consumare. Ecco quindi che la vecchiaia viene riconosciuta meritevole di attenzione in quanto causa di consumi ad hoc, in una società che ci riconosce appunto quasi esclusivamente come “consumatori” e potenziali acquirenti di questo e quest’altro.
Sembra proprio esserci poco spazio per la valorizzazione della vecchiaia come naturale fase della nostra esistenza, come età della saggezza e del riposo, dopo una vita di fatiche, almeno per la stragrande maggioranza dei comuni mortali.
Gli anni della vecchiaia, gli anni che restano, dopo la maturità, sono ancora “vita”. Non un di più, non un extra, ma una delle nostre stagioni.
Alla scuola elementare, si imparava (ai miei tempi, ora non so) che gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono. Si dovrebbe forse dire “nascono, crescono, invecchiano e muoiono”: la vecchiaia è comunque crescita ancora; invecchiare è ancora crescere, maturare. Fino a che non suona la campana, c’è ancora vita, non un’anticamera della morte.
E allora ben vengano i rimedi per gli acciacchi della vecchiaia, della vecchiaia del nostro corpo in cui, spesso, dimora sino alla fine un animo “giovane”. Ben vengano i progressi e le pratiche per mantenere in salute anche la mente, il nostro software, una mente che non si senta prigioniera e limitata da quelli che sono i confini e i limiti del nostro hardware, il nostro essere fisico e materia.
È bello vedere le coppie di anziani serene e felici di stare assieme nella vecchiaia, dopo una vita di condivisione e sostegno reciproco. È bello!
Meno bello se la vecchiaia non è serena, se è turbata dai mali del fisico e/o della mente che sconvolgono gli anni della terza e quarta età…
Si assiste allora alla sofferenza che non trova ragion d’essere, che non appare giustificata e giustificabile, che per questo risulta inaccettabile e intollerabile. Sofferenza dopo sofferenza, dolore su dolore.
Peggio ancora, coloro che dovrebbero arrecare sollievo con i mezzi consentiti da quella che si chiama scienza, e cioè medici e paramedici, quando hanno davanti un anziano, un anziano provato da anni di malattia, di malattie, spesso non si crucciano e non si affannano più di tanto, anzi.
E se poi sono in tanti a morire, se si ricorre a un triage estremo, come si è visto nel periodo dell’emergenza Covid, poco male, fa nulla… Erano vecchi! Avevano vissuto la loro vita!
...
Riporto in calce non citazioni letterarie, ma il testo di “Spalle al muro” scritto da Mariella Nava e interpretato da Renato Zero nel 1991.
Spalle al muro
“Spalle al muro
Quando gli anni son fucili contro
Qualche piega sulla pelle tua
I pensieri tolgono il posto alle parole
Sguardi bassi alla paura di ritrovarsi soli
E la curva dei tuoi giorni non è più in salita
Scendi piano, dai ricordi in giù
Lasceranno che i tuoi passi sembrino più lenti
Disperatamente al margine di tutte le correnti
Vecchio
Diranno che sei vecchio
Con tutta quella forza che c'è in te
Vecchio
Quando non è finita, hai ancora tanta vita
E l'anima la grida e tu lo sai che c'è
Ma sei vecchio
Ti chiameranno vecchio
E tutta la tua rabbia viene su
Vecchio, sì
Con quello che hai da dire
Ma vali quattro lire, dovresti già morire
Tempo non ce n'è più
Non te ne danno più
E ogni male fa più male
Tu risparmia il fiato
Prendi presto tutto quel che puoi
E faranno in modo che il tuo viso sembri stanco
Inesorabilmente più appannato per ogni pelo bianco
Vecchio
Vecchio
Vecchio
Mentre ti scoppia il cuore, non devi far rumore
Anche se hai tanto amore da dare a chi vuoi tu
Ma sei vecchio
Ti insulteranno, vecchio
Con tutto quella smania che sai tu
Vecchio, sì
E sei tagliato fuori
Quelle tue convinzioni, le nuove son migliori
Le tue non vanno più
Ragione non hai più
Vecchio, sì
Con tanto che faresti
Adesso che potresti non cedi perché esisti
Perché respiri tu”
Sardara, 12 Marzo 2023
Gita a Sondalo
Sono reduce da un tormentato rientro dalla Valtellina, da Sondalo per la precisione.
Avevo organizzato il viaggio forse due mesi fa, quando, dopo aver fatto la prima dose del vaccino, mi era stata fissata la data del richiamo.
Ho fatto il richiamo martedì e sabato mattina sono partita, ieri.
Levata alle sei e trenta, bus per la stazione, treno fino a Rogoredo, come ogni mattina del resto, poi metro fino alla Centrale e quindi treno per Tirano da dove avrei raggiunto Sondalo appunto.
Il treno alla Centrale è partito strapieno o quasi, soprattutto ragazzi e ragazze in tenuta vacanziera, calzoncini o gonnelline e cosce al vento. Io gonna lunga da gitana che mi piace tanto e cosce ben coperte.
La maggior parte dei passeggeri è scesa, dopo circa mezz’ora di viaggio, a Lecco, e poi lo scompartimento in cui ero io si è svuotato a Varenna.
Superate Monza e Brescia, il paesaggio diventa suggestivo e per buona parte del tragitto si può ammirare il lago e le sue acque calme. Ho potuto rivedere anche le creste del Resegone prima di arrivare a Mandello del Lario dove avevamo fatto una gita mia sorella Mari, suo marito, babbo, mamma ed io, tanti anni fa, quando eravamo sereni e i problemi di adesso solamente in mente Dei, ahimè.
“Non dire nessun uomo felice finché non conosci il suo destino”, dice Eschilo, più o meno.
Dopo il lago immenso, il paesaggio diventa quello delle montagne imponenti e maestose, proprio come quelle che disegnavamo da bambini senza mai averne vista una: pressoché triangolari, con le cime innevate (poche questa volta), verdi di alberi lussureggianti, a catena, con piccoli paesi a valle, qualche ruscello vivace, una chiesetta di montagna appunto con slanciati magri campanili e, cosa che nei nostri disegni mancava, vigneti arditi in alcune zone disboscate.
Arrivata a Tirano, sono andata subito all’ufficio informazioni della stazione per sapere se ci fosse un bus per Sondalo e, grazie al cielo, c’era e sarebbe partito dopo dieci minuti.
Così, via verso il sottopassaggio, ed ecco un bus fermo.
La biglietteria era chiusa e l’autista non c’era. Le altre persone in attesa non erano state in grado di confermarmi che il bus era quello lì fermo e che si avrebbe fatto tappa effettivamente a Sondalo.
Poi è arrivato l’autista che mi ha subito assicurato che ci sarebbero state due fermate a Sondalo.
“Lei dove deve andare?”
“All’’Hotel Rezia”
“Allora deve scendere alla seconda fermata, in paese”
“Grazie, mi avvisa lei?”.
E così, eccomi sul bus per Sondalo, senza aver dovuto spendere un centesimo perché valeva il mio abbonamento IVOL, Io Viaggio Ovunque in Lombardia che, d’ora in avanti, pandemia permettendo, non mi limiterò ad usare solo per andare e venire da Milano, casa-ufficio, ufficio-casa.
Arrivati a Sondalo, ho chiesto all’autista se mi poteva indicare la direzione per l’Hotel e lui me l’ha indicato prontamente: “Lo vede là in alto? Deve arrivare là! Prenda questa strada in salita e poi chieda”.
E così, dopo essermi fermata per guardarmi intorno, circondata dai monti, inizio la salita, con la borsa in spalla.
Fa caldo nonostante si sia in montagna. Vedo una chiesa in cima a una lunga scalinata. Sento voci. Ci sono quelli che suppongo essere marito e moglie seduti in cortile. Chiedo se sono nella giusta direzione per l’Hotel Rezia ma non mi sanno aiutare e mi dicono di chiedere al bar. Io mi rimetto la mascherina, che mi ero tolta una volta scesa dal bus, ed entro nel bar dove noto che sono tutti senza maschera.
Chiedo per l’Hotel Rezia e sì, sono nella direzione giusta.
“Ma è in macchina?” “No, a piedi” “Allora prenda gli scalini… Un quarto d’ora, venti minuti di salita”.
E via, continuo a salire.
Ecco una graziosa, - graziosa davvero, non per cliché – chiesa di montagna col suo campanile slanciato e la statua della Madonna in una nicchia.
Mi fermo ogni tanto per scattare foto da inviare a mamma, sorelle e fratello, non tutte, ne scatto così tante... anche senza vedere pressoché niente perché c’è troppa luce e il cellulare non è come le vecchie macchine fotografiche.
E mi fermo anche per riprendere fiato. Sono decisamente fuori esercizio
Finite le scale, proseguo la salita su per una strada asfaltata.
Ad ogni tornante spero di vedere l’Hotel Rezia e finalmente eccolo, visione!
Rimetto la mascherina ed entro. Mi accoglie una signora gentile ed io, nel presentarmi, mi accorgo di essere spompata e quasi senza fiato.
La signora mi registra. Io pago subito e le chiedo dove fosse il Museo dei Sanatori e lei:
“Deve andare all’ospedale?”
“No, al museo”
“Il museo è questo qui di fronte!”.
Mai scelta più azzeccata su Booking!, penso.
Dopo di che mi accompagna all’ascensore fino alla mia camera al quinto piano.
La camera è piccoletta ma accogliente, il letto a una piazza e mezzo come avevo chiesto, ha il balcone e il bagno en-suite naturalmente.
Era l’una all’incirca e mi sarei rinfrescata e riposata un po’ prima di uscire nuovamente e... attraversare la strada per andare al museo. L’orario delle visite era dalle quattordici alle diciotto e avrei avuto tutto il tempo per farlo con calma.
Uscita dalla camera prendo l’ascensore e, senza leggere le info riportate, pigio il bottone per il piano terra, dove mi aspettavo di trovare la reception. Mi ritrovo invece in un piano vuoto. Prendo l’ascensore e pigio il primo piano. Ancora niente reception. Finché non risalgo al quinto piano e decido di prendere le scale. Scopro così che la reception era al quarto piano! Il quarto dal lato della montagna, il piano terra dalla strada da dove ero arrivata! E così la mia camera era si al quinto piano, ma anche al primo dal lato strada…
Faccio per consegnare la chiave ma mi viene detto di tenerla con me. Ora c’è un signore alla reception.
E così esco, attraverso la strada ed eccomi all’ingresso del Museo.
Leggo un avviso che dice che l’ingresso è consentito solo con guanti e mascherina. Vedo due signore che si sistemano la maschera. Io saluto e preciso di non avere i guanti. Mi viene detto che non sono necessari. Magari l’avviso era lì dall’anno passato… Il museo è stato riaperto due giorni fa.
Mi chiedono se fossi in vacanza e si stupiscono quando rispondo che sono arrivata lì da Milano appositamente per visitare il Museo.
Spiego che avevo uno zio che tanto tempo fa aveva lavorato al Sanatorio quando c’era Prof. Zorzoli,
Mi dicono “Allora davvero tanto tempo fa!”.
Una delle guide è una ex infermiera che mi dice di aver lavorato al Sanatorio tanto tempo prima, ma non così tanto…
E comincia il tour.
Come prima cosa mi viene mostrato un ritrovamento recentissimo in un cantiere, ritrovamento sistemato lì provvisoriamente visto che non c’entrava nulla coi sanatori e la tubercolosi.
È un ritrovamento rupestre dove sono incisi dei segni stilizzati per indicare un volto, una cintura e un’ascia, una figura maschile dei tempi preistorici.
Dopo inizia la visita.
Mi fa da guida la gentile ex infermiera Antonietta.
Il Museo è localizzato in quella che era la reception del Villaggio Morelli. È una struttura circolare, al centro vi è una scala a chiocciola in rovere originale e ancora ben tenuta.
Mi vengono illustrate le antiche foto del primo sanatorio di Sondalo e primo anche d’Italia, il Sanatorio di Pineta di Sortenna, inaugurato nel millenovecentotre.
Era costruito in stile Liberty e, dalle foto, sembrava più un albergo di lusso che un ospedale. Le stanze private, gli ambienti comuni, i giardini denotano ricchezza e agio, anche se per malati di tisi.
Il sanatorio è ora dismesso ed è di proprietà di un ordine monacale anche se, come mi è stato detto, pure le monache oramai sono pochissime.
Nel salone vi sono vecchi apparecchi e oggetti relativi non solo alla diagnosi e alla cura in sé della TBC, come microscopi, apparecchi radiografici, strumenti per analisi e per lo pneumotorace, ma anche oggetti relativi alla vita ricreativa e al relax dei pazienti che trascorrevano in sanatorio periodi lunghi e anche lunghissimi prima di poter essere dichiarati guariti.
Tra questi domina al centro un grande proiettore che mi ha colpito per le sue dimensioni e mi ha fatto pensare a come poteva essere la vita durante il soggiorno per i pazienti.
Vi è una vecchia barella con ruote di bicicletta, una chaise longue con relativi accessori come le sputacchiere e le cuffie per ascoltare musica.
E vi sono poi varie foto relative alla edificazione del Villaggio Morelli tra il trentadue e il trentanove, in pieno periodo fascista quindi. Gli originali fasci littori posti all’ingresso vennero levati dopo e ora trovano posto nel giardino.
Le foto documentano il pesante e faticoso lavoro di scavo della montagna e di costruzione, pressoché senza nessun ausilio di mezzi meccanici.
Sempre del periodo fascista è un cartellone sulla malattia e sulla sua prevenzione e sulla sua cura, della “Federazione Italiana Nazionale Fascista per la Lotta contro la Tubercolosi”. Si invita all’igiene in casa e fuori casa, si auspica una corretta prevenzione, si rassicura sulla possibilità di guarigione e si precisa che “con tutte le forze occorre combattere le ridicole paure che fanno di un povero malato un essere da temere come un coleroso, un paria”.
Vi sono anche il regolamento nonché l’orario della vita presso il sanatorio: dalle sette e trenta allo otto, sveglia; dalle otto alle otto e quindici, colazione; dalle nove alle undici e trenta cura sdraio; dalle dodici e quindici alle tredici pranzo; dalle quattordici alle sedici, riposo assoluto; dalle sedici alle diciassette merenda; dalle diciassette alle diciotto e trenta cura sdraio; dalle diciotto e quarantacinque alle diciannove e quarantacinque cena; alle ventidue spegnimento delle luci e chiusura del padiglione.
Viene avviato solo per me anche un filmato con estratti dal film di Vittorio de Sica “Una breve vacanza” del settantatrè. È una scena sull’arrivo alla reception delle pazienti, quelle “paganti” e quelle “mutuate”.
Nel villaggio non manca un parco che è più un orto botanico che un giardino tante sono le varietà di piante che vi si trovano.
La mia guida mi mostra anche quella che era la sua divisa e il suo cappotto. Osservo che si vede che era di alta qualità perché pare ancora nuovo. Lei mi dice che ha visto tanti inverni e faceva un gran caldo.
Io seguo, guardo, osservo con curiosità e attenzione ma non trovo nulla, nulla del motivo che mi ha portato lì.
Nulla, nulla, finchè in una teca presto attenzione e vedo una firma: Zorzoli.
Eccolo! Un timbro, insieme ad altri, che provengono dall’Abetina, il Sanatorio di cui zio era vicedirettore. Cerco, guardo tutti i timbri ma non vi è traccia del soggiorno e del lavoro di zio.
Peccato!
Antonietta mi fa vedere uno scorcio dell’Abetina e mi dice che avrei potuto vederla meglio una volta svoltata la strada.
Quindi firmo il registro e scrivo una frase non proprio originale e simile a quella della persona che aveva visitato il museo prima di me. Avevo in mente quella frase prima di vedere il registro…
Poi usciamo e chiedo alla guida ex infermiera se mi può scattare una foto col mio cellulare, se non ha problemi legati al Covid, preciso. Mi scatta due foto.
Esco. Percorro un breve tragitto ed ecco l’Abetina sopra di me.
Quello che resta dell’Abetina! Il sanatorio è stato dismesso e negli anni sessanta l’edificio venne venduto al Comune di Milano e adibito, per un certo periodo, a ricovero per anziani. Ora è del tutto abbandonato e non visitabile.
Che peccato, penso!
L’edificio doveva essere bello, la struttura lo è ancora. Pezzi di storia lasciati decadere senza che ne venga conservata memoria se non qualche timbro.
Anche all’albergo mi hanno detto che è uno spreco e che nessuno se ne assume la responsabilità.
E la costruzione che vedevo dal mio balcone era proprio l’Abetina!
Io penso a zio, a quella che doveva essere stata la sua vita a Sondalo, così lontana e così differente da Sardara e dalla Sardegna!
All’epoca non c’era l’Hotel Rezia ma c’erano le montagne e c’era il paese a valle. C’erano gli alberi, gli uccelli, il sole e, d’inverno, c’era la neve. C’erano la chiesetta e il suo campanile.
E c’erano altri alberghi. Uno di questi era stato rilevato da una paziente che, venuta proprio da Sardara per curarsi, si innamorò di un uomo del posto e restò a Sondalo..
Zio avrà mangiato piatti della cucina locale, come ho fatto io: la bresaola, lo speck, i pizzoccheri, i canederli, per esempio.
Io ho cenato nella sala della colazione perché nell’altra sala c’era un gruppo numeroso di amici che poi mi è stato detto erano lì per una gara podistica e ciclistica allo Stelvio.
La sala tutta per me godeva di una vista invidiabile ed io mi son detta “Ma chi sta meglio di me?!” proprio poco prima che uno del gruppo mi chiedesse se fossi sola e aggiungesse un “Peccato, una donna come te. Peccato”.
Ma io ero in paradiso, e non pensavo nemmeno ai chili messi su durante la quarantena e non più smaltiti. Ero in paradiso.
Sentivo zio così vicino nei miei pensieri.
Una persona continua a vivere nei ricordi di chi le sopravvive, proprio come diceva Foscolo.
Un intoppo c’è stato però.
Ho dovuto anticipare la mia partenza perché oggi c’era sciopero dei treni e non volevo rischiare di non poter essere a Milano domani. I miei datori di lavoro non sarebbero stati comprensivi.
E così non mi son goduta la colazione come avrei voluto e ho chiesto se l’unico modo per raggiungere Tirano fosse il bus. Mi hanno detto di sì, oppure il taxi. L’ho fatto chiamare e, dopo aver salutato e ringraziato i gestori dell’Hotel, ho aspettato il taxi. Un furgoncino a più posti tutto per me.
E mi è venuta una malinconia! Una malinconia!
Perché salutavo zio, perché salutavo Sondalo.
I pensieri della routine e della quotidianità di Pavia e Milano, sarebbero stati molto meno piacevoli.
Chissà dove finiamo poi?!, ho detto a mamma.
Zio l’ho sentito così presente, così vicino!
Arrivata a Tirano, mi sono recata all’Ufficio informazioni e come avevo visto nella app di Trenord che avevo scaricato la sera prima (oltre a quella di Uber per poi scoprire che Sondalo non è coperta dai suoi servizi), come avevo visto, dicevo, mi è stato confermato che il treno delle undici e zero otto non era stato cancellato.
E così ho aspettato fiduciosa mentre notavo che alla stazione di Tirano, contrariamente a Pavia e Milano, si sente il cinguettio degli uccelli. Le montagne sono ricche di alberi, la vegetazione li richiama e li ospita e l’aria è decisamente buona. Si stava così bene!
Dopo l’attesa, quando mancava un quarto d’ora all’arrivo del treno, è comparsa la scritta che non sarebbe ripartito con destinazione Milano.
Improvvisamente la piccola stazione si è animata. Sono sbucate tante persone che dovevano andare a Milano, tutte disperate.
Alla fine ci siamo ritrovati in sei con l’idea di chiamare un van e farci portare a destinazione.
Eravamo due signori anziani che dovevano raggiungere Monza, padre e figlio che dovevano rientrare a Roma, un signore con destinazione Brescia ed io diretta a Pavia.
L’addetta dell’Ufficio informazioni di Tirano ci ha omaggiati di una penna/spray con il disinfettante anti Covid della Regione Lombardia, “in ricordo”, ha detto lei.
Dopo una mezz’ora è arrivato il van, abbiamo preso posto: io dietro coi signori anziani, in mezzo padre e figlio, e davanti, vicino al conducente, il signore con destinazione Brescia.
Io mi sono voltata verso il finestrino per potermi godere il panorama, con le montagne a triangolo e gli alberi e le chiesette e i corsi d’acqua e le vigne e le nuvole passeggere e il sole.
Gli anziani, senza curarsi delle misure di sicurezza, si erano tolti le mascherine e messi a mangiare…
Dopo poco più di due ore siamo arrivati alla stazione di Milano.
Scendendo dall’auto, ci ha colto una zaffata di aria caldissima e pesante: l’aria estiva di Milano. Che goduria, dopo aver lasciato la stazione di Tirano con l’aria fresca e il cinguettio degli uccelli!
Mentre i romani si sono precipitati a prendere il loro treno, il signore con destinazione Brescia mi ha detto che mi doveva chiedere qualcosa su Pavia.
Ci siamo incamminati verso l’interno della stazione e dopo un po’ gli ho domandato cosa volesse sapere e lui: “Non c’è altro modo per dirlo… Mi farebbe piacere andare a Pavia per rivederla”.
Io sono restata un po’ perplessa e comincio: “Io sono…”, “Lei è…?!” ed io: “Impegnata, sono impegnata” e lui replica: “Ma certo, non poteva essere altrimenti, donna interessante, ecco lo prenda come un complimento… Allora non c’è possibilità?!” “No”.
Lui si è diretto alla biglietteria, io ai nastri trasportatori verso il piano dei treni.
Il treno diretto ad Albenga, con prima fermata a Pavia era già al binario ventidue e si andava riempiendo.
E si è riempito. Ma sono giunta a Pavia e al suo caldo afoso e alla mia casa fresca.
Non sto guardando la partita Italia – Inghilterra ma babbo sì. E soffre.
Soffre sempre nel fisico quando qualcosa gli mette ansia.
Somatizza ogni inconveniente, ogni angoscia, ogni malumore, ogni delusione, per quanto agli altri possano apparire piccoli o insignificanti.
E il gol dell’Inghilterra lo ha angosciato… Hanno perfino spento per un po’ il televisore.
Va così.
Spero che l’Italia vinca perché babbo possa dormire tranquillo stanotte.
Ciao zio! È grazie ai ricordi che ho di te se ho trascorso una bellissima mini-vacanza, rievocandoli!
E purtroppo babbo e mamma hanno avuto un destino avverso e non si possono godere vacanze della terza età come i signori che dovevano rientrare a Monza.
Destino infame!
Pavia, 11 luglio 2021
Pubblicato sul sito il 4 giugno 2023
P
“IL DOLCE DOMANI” – BANANA YOSHIMOTO
Pubblicato nel 2011, ho letto solo di recente “Il dolce domani” di Banana Yoshimoto.
Scrive l’Autrice nella postfazione che quest’opera ha visto la luce dopo il tremendo terremoto dell’11 Marzo 2011 in Giappone, anche se in una regione lontana da lei, e aggiunge: “io non scrivo opere colossali, che mettano tutti d’accordo: posso solo, nel mio piccolo, rivolgermi a quei pochi che, per un motivo o per un altro, si sentono aiutati, o confortati, leggendo i miei romanzi.
Se anche solo una persona dovesse pensare che questo libro è arrivato proprio al momento giusto, se leggendolo riuscisse a riprendere fiato dopo tanto tempo, allora ne sarò felice.
Voglio dire grazie a voi che lo leggerete. Voglio dirvi solo grazie”.
Io non ho ancora “ripreso fiato” ma questo libro è giunto a me in un momento che non avrei voluto sperimentare ma che, ahimè, tutti ci troviamo a vivere, la morte di un proprio caro, e leggere le parole di Banana Yoshimoto, abbandonarmi alle sue pagine, è stato in qualche modo, una tregua. E per chi volesse, a sua volta, abbandonarsi alla lettura, ecco le mie brevi righe per segnalare quest’opera.
Comincia con una citazione: il testo di “Lover, Lover, Lover” di Leonard Cohen e subito dopo si viene proiettati nella scena di un incidente stradale. La protagonista, che è voce narrante, si ritrova con un bastone di ferro conficcato nella pancia e pensa di non avere scampo, di essere morta. Ha ventotto anni e, con quel bastone affondato nelle viscere, impara “il principio che sta alla base di tutte le cose: ‘La morte è sempre a un passo da noi’. Ed è davvero solo un piccolo passo”.
Lei era in macchina con Yoichi, il ragazzo con cui viveva una relazione a distanza. Era fine estate, tornavano dalle terme di Kurama e nell’abitacolo dell’auto risuonava “Lover, Lover, Lover” di Leonard Cohen. All’improvviso, per schivare un’auto contromano per un colpo di sonno del conducente, si ritrovano a testa in giù, in bilico sull’argine del fiume.
“Non c’è più niente da fare. Io posso anche morire, ma lascia che Yoichi viva. Se rimane ancora un soffio di vita in me, dallo a lui. I miei occhi hanno visto tante cose. Paesaggi stupendi e una miriade di istanti. Ho avuto un tetto sotto cui dormire, il dono di due bravi genitori, ho riso di gusto, mangiato in abbondanza, un corpo sano e forte. Grazie di tutto. Ma fa che Yoichi viva”.
Alla fine, nonostante le preghiere della protagonista, Yoichi muore e Sayoko – così si chiama lei - invece, sopravvive.
Vive momenti singolari, in un realtà ovattata, eterea, sospesa. Si crede morta. Incontra il suo cane morto da tempo e poi, in sella alla sua moto, anche il nonno amato, morto improvvisamente tempo addietro. Le chiede di montare sulla sua Harley Davidson, come faceva sempre quando lei era giù di morale, e, appoggiata alla schiena del nonno, lei si risveglia in questo mondo con un dolore opprimente in tutto il corpo, come se fosse diventata di piombo. Le parole che pronuncia appena riprende conoscenza, sono: “Eh? Dov’è il nonno?”, facendo venire i brividi ai suoi genitori.
Il bastone viene estratto dalla pancia e, con molta, molta, difficoltà, Sayoko si riprende, anche se, solo più o meno al suo trentesimo compleanno ricomincerà a condurre un’esistenza normale, provata nel fisico e nello spirito.
La parte più difficile, ci dice, è quella che ci racconta nel libro: quella che pensava fosse la sua ultima preghiera infatti non venne esaudita e Yoichi morì sul colpo: “Se ne andò all’altro mondo in un istante, senza aver vissuto mai per davvero, senza lasciare tante opere, rendere più profonda la nostra storia, senza farsi tanti amici ma anche senza rimpianti”.
Sayoko viene confortata non solo dalla vicinanza dei propri genitori ma anche da quella dei genitori di Yoichi: l’oscurità diventa parte del suo presente ma si dice: “Un giorno l’avrei raggiunto, conoscevo il luogo in cui si trovava. Era un luogo di nostalgia e bellezza. Quel ricordo mi aiutava a ritrovare la tranquillità. … Era triste, ma ormai non c’era più niente da fare. Lo ripetei a me stessa come un mantra. … Non mi servivano motivi per andare avanti, non avevo bisogno né di sposarmi né di fare un figlio. Contava solo il presente”.
Un giorno, il proprietario del bar Shiri-Shiri, che frequentava abitualmente, le dice che secondo lui nell’incidente le è caduto il “mabui”.
“Che cos’è il mabui?”
“L’anima. A Okinaua si dice che se ti cade il mabui devi tornare a raccoglierlo nel punto in cui è caduto”.
… “Un giorno di questi allora vado a riprendermelo” “ma non subito. Per ora sono contenta delle mie condizioni”.
“Vedi, Sayo-chan, il tuo mabui, in ogni caso, non tornerà mai come prima. Si vede dagli occhi. I tuoi sono uguali a quelli di una yuta”.
Le yuta sono assimilabili alle sciamane, alle medium, ci informa il traduttore del libro.
E Sayoko infatti comincia ad avere visioni, a vedere degli spiriti, ad avvertire presenze che non appartenevano a questo mondo, ma non il suo Yoichi.
“Ci andrai al momento giusto a riprenderti il mabui”.
E così accade. Sayoko partirà, farà nuovi incontri, non tanti, ma significativi: troverà amici di questo mondo e dell’altro mondo. Infatti, “Questo mondo e l’altro ci mettono poco a mescolarsi”.
Il tutto raccontato con un che di fascinazione, levità e grazia.
Dice infatti Sayoko: “Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il peso del dolore che ha provato. Ci sono anche quelli che non provano niente e che non portano alcun peso: basta un’occhiata per capire chi sono. Sembrano automi, sono diversi dagli altri. Quelli che portano un peso li riconosci dal colore, dall’incedere pieno di grazia. Ecco perché sono contenta di avere un peso da portarmi dietro. Finché avrò giorni da vivere, voglio viverli con grazia.”
Ed io non voglio svelare altro. A me il libro è piaciuto.
Buona lettura a chi vorrà cogliere il mio suggerimento!
Sardara, 25 Giugno 2023
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D’AMORE E MORTE
E mi ricordo di te.
Le foglioline di menta che coglievi, mettevi nel taschino della camicia e ogni tanto annusavi.
Ti piaceva anche il profumo della “maria luisa” e degli aranci in fiore. Avevi piantato in giardino le querce, il carrubo, il mirto, il corbezzolo, il gelso, gli alberi di limone e di arancio. La grande quercia, che un anno fa sembrava malata, si è ripresa e ti è sopravvissuta.
Mi riecheggia in testa il tuo saluto quando, lontana, ti chiamavo al telefono: “Oh! Daniela!” “Ciao Daniela!”. E mi viene da piangere. E piango. In silenzio. Non voglio svegliare mamma.
Ti rivedo nelle foto di quando il male era lontano e, con sguardo acceso e sereno, vivevi il presente e guardavi al futuro con occhi pieni di fiducia e speranza. Una volta, qualche estate fa, mi avevi detto che, se ti fossi ripreso fisicamente, ti sarebbe piaciuto viaggiare con mamma. Ed io che credevo che non ti piacesse viaggiare, che non ti fosse mai piaciuto, che preferissi coltivare il tuo piccolo-grande orto, come Candido, in Sardegna! E invece avevi ed hai sacrificato questo desiderio ai bisogni e alle necessità della famiglia, la tua famiglia, la famiglia che tanto hai amato, moglie, sei figli e, ora, dieci nipoti. E so che tu e mamma avete fatto tanti sacrifici, per averla la vostra famiglia e poi per darci un futuro. E avete fatto il vostro Sessantotto, la vostra rivoluzione. In nome dell’Amore.
Un amore imperituro che, voglio pensare, non si è spento.
Non si è spento per mamma. Non si è spento per te, spero.
Perché, che ne è dell’amore coniugale, dopo che uno dei coniugi lascia l’altro per salire al Cielo? Si dice “finché morte non ci separi” nel momento in cui si pronunciano i voti del matrimonio davanti al Dio e al Mondo, ma la Morte separa davvero?
Voglio sperare di no.
Ci hai lasciato troppo presto. Settantasette anni compiuti da poco è troppo presto per lasciare questa vita. Non eravamo pronti. Non saremmo stati pronti in nessun momento, a dire il vero. Nonostante il male, nonostante i mali degli ultimi anni. Avevi superato mille crisi e mamma ti è sempre stata vicina “nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia”. Marito e moglie. Moglie e marito. In questo mondo assurdo, vedo che tanti matrimoni naufragano dopo poco tempo. Il vostro è durato cinquantacinque anni e ne eri così orgoglioso!
Così orgoglioso e fiero!
L’Amore resta. L’Amore dura! Il vostro, tutto tuo e di mamma. E l’amore dei tuoi figli e dei tuoi nipoti. L’Amore è!
Non era certo amore quello dei tuoi fratelli e delle tue sorelle… Tu dicevi “Io non ho fratelli”. Non era amore e non era niente.
Opere di Misericordia Corporale. Numero cinque: “Visitare gli infermi”, recita. Non “apparire al funerale o a mezza Messa di suffragio”. Amore non era, Amore non è!
Così come certi tuoi amici e conoscenti… Amore non era, Amore non è!
Ma era ed è senz’altro grande stima quella di chi ha voluto ricordarti anche dopo che sei volato via. E la stima era reciproca. Eri contento del tuo lavoro, di aver fatto quello che hai fatto, di aver raggiunto ammirevoli traguardi, da solo, partendo da zero, letteralmente e non. Ed eri orgoglioso di aver collaborato, da ultimo, con una importante e storica società gestita da una persona di nobili origini, garbata e in gamba e che ti apprezzava.
Tanti si sono dimenticati di quello che hai fatto per loro. E, negli anni della tua sofferenza, non hanno fatto nemmeno un accenno di telefonata. Ma lo so, succede così, quando si invecchia e ci si ammala. Avevo sperimentato, come testimone, l’isolamento a cui viene ridotta una persona anziana e malata che pure aveva avuto amici, colleghi, conoscenti, parenti, presenti finché era sana e giovane. Era accaduto ad un mio anziano datore di lavoro che poi era venuto a mancare in ufficio, durante una pausa pranzo. E l’ho visto accadere ad altre persone… Fratelli, sorelle, altri parenti, amici e conoscenti scompaiono, si volatilizzano. Ma tu dicevi: “Siamo una buona squadra!” e sapevi che noi tutti ti eravamo vicini e, spesso, eri tu a sostenerci, a darci coraggio.
Eri la nostra roccia, la roccia della tua famiglia.
E che resta allora?
Citazione colta: “La lontananza, sai, è come il vento che fa dimenticare chi non s’ama…”.
Siamo lontani, siamo immensamente lontani ma noi non ti dimentichiamo. Sei stato e sei tanto amato! Come tu amavi noi!
Sei nei miei pensieri. Sei nei nostri pensieri.
Ricordati di noi, carissimo babbo mio, e continua ad amarci!
Sardara, 22 Luglio 2023
Cara Unione
“Cara Unione,
il 29 dicembre scorso mio suocero è stato ricoverato per una febbre a 39. È stato lasciato in ambulanza dalle 14.30 sino alle 23.30 senza bere e senza mangiare, anche senza coperta: quando l’abbiamo raggiunto alle 22, per avere notizie, ci siamo accorti che era ancora buttato in ambulanza, stremato e con febbre altissima.
Alle 22.30 abbiamo quindi iniziato a lamentarci, e la risposta è stata che il tampone molecolare non era ancora arrivato.
Mio suocero ha fatto poi 30 giorni di ospedale: aveva un’infezione alle vie urinarie e una lieve pleurite, ma purtroppo per via delle restrizioni mia suocera è potuta entrare 2 volte e poi basta. Nonostante mia suocera avesse una doppia vaccinazione.
Detto ciò circa 3 settimane fa è stato dimesso dal Policlinico: la sorpresa è stata vedere un uomo con 15 chili in meno, allettato, non parlava più e non mangiava più, oltretutto con delle piaghe che ad oggi lo stanno portando alla morte per l'infezione in corso con febbre a 38 nonostante 10 giorni di antibiotico.
Chiediamo la pubblicazione di questa lettera poiché certe situazioni crediamo non dovrebbe accadere né ripetere. Da parte nostra abbiamo anche già inoltrato denuncia al tribunale di Cagliari del malato.
Grazie dell’attenzione”.
Lettera firmata
Da “L’Unione Sarda” del 26 Febbraio 2022
Correda l’articolo una foto del primo degli ospedali dove mio padre venne ricoverato nel duemiladiciannove.
Da allora rimase allettato.
Mal comune non fa mezzo gaudio!, come continuo a ripetere.
Non commento ulteriormente.
Sardara, 29 Luglio 2023
Citazioni da “Grande Terra Sommersa”
L'ultimo romanzo, a mio avviso, il più caldo, bello e trascinante, di Alessandro De Roma
“Se L’uomo potesse solo tramontare come il sole e non morire davvero: quanto sarebbero spettacolari i suoi crepuscoli, strazianti e belli.”
“Nel destino amaro del mondo, di questo maledetto e fottutissimo mondo, c’è un muro oltre il quale si crede di non poter andare. Ma poi il muro si sgretola e un nuovo deserto si apre, molto più secco e arso di ogni deserto che abbiamo attraversato. E Dio si accanisce, come e quando vuole lui; o forse non si accanisce affatto: lascia semplicemente che tutto il male accada, e le più terrificanti tra le terre che riposano nel fondo dei mari, si destino e vengano a galla per riempire il mondo di sgomento.”
“La fortuna è che, anche quando la gente è perfida, può comunque restare molto stupida”
“… laggiù c’era per ciascuno di noi una grande terra sommersa che raccoglieva i sogni che affondano, li custodiva e li faceva fiorire negli abissi del mare; e solo tuffandosi, e con coraggio scrutando gli abissi, benché insondabili, si trovava o si ritrovava della propria vita tutto il bello, che altrimenti restava sepolto nel fondo oscuro.”
“Intanto aspettavo e, nel silenzio dei miei pensieri, facevo qualcosa che non aveva un nome, ma che somigliava a pregare, aspettare e affidarsi al destino.”
“Aver conosciuto la felicità piena e non poterla mai più avere, quella era la mia condanna.”
“Se riuscissimo a non essere mai felici, saremmo degli essi mostruosi e belli; faremmo invidia alle stelle e, non avendo ragioni né per ridere né per piangere, scivoleremmo in un silenzio senza attrito. Parte del tutto, parte del niente: sempre vigili, ma indifferenti.”
“Nel fondo non c’era nulla: solo sabbia chiarissima.
Né terre sommerse, né mostri, pensai io: dove non c’erano sogni, non c’erano nemmeno incubi. Solo una piatta e cristallina realtà.”
“Il sogno della felicità si scava uno spazio sempre e comunque, anche quando tutto lo spazio del mondo è finito da tempo.”
Sardara, 1° Novembre 2023
Cicli e ricicli
È bello che pensiamo al benessere del nostro pianeta e tutti ci impegniamo a conferire la spazzatura in modo da consentirne il riciclo in modo più ampio ed efficiente possibile. E così anche io ho deciso, in vista del prossimo ritiro della carta (naturalmente pioverà, come sovente accade), dicevo, ho deciso di preparare, destinandole a questa nobile fine, quelle che sono state le mie, per dirla con Leopardi, “sudate carte” che testimoniano anni di, per dirla non con Leopardi, “culo sulla sedia” prima, durante e dopo l’Università… Fotocopie di libri e articoli, in italiano ed in inglese, appunti, note, schemi, schede e via così, tutto ben preparato in scatole non troppo pesanti, per favorirne il trasporto e lo smaltimento.
Ho salvato (oppure, ho sottratto alla nobile fine di cui sopra), per ora, poche pagine di carta. Tra queste il breve componimento che ho trascritto “IL PRINCIPIO DI CAUSALITA’ IN HUME E KANT” e che avevo firmato con “Daniela Marras – Classe III C”.
Ero quindi all’ultimo anno del Liceo Classico e avevo diciassette anni. Non era un compito che ci avesse assegnato il professore e di sicuro il componimento non era stato letto da nessuno.
E mi sono chiesta, oggi, perché l’avessi scritto, questo, così come un altro che ho salvato (o sottratto alla nobile fine)… E non solo questi…
E la risposta che mi sono data è la seguente: “Perché mi piaceva!”.
Mi piaceva studiare e mi piaceva pensare… (C’è chi parlava e parla di “seghe mentali”).
Ricordo che, da bambina, in un giornalino di Topolino, avevo fatto un test per scoprire cosa avrei fatto da grande e il risultato era stato “scrittore di saggi eruditi”. All’epoca, non sapevo bene cosa significasse ma comunque, a diciassette anni, facevo letture più impegnate e impegnative di quelle di adesso e, probabilmente, avevo pensieri più profondi ed eruditi di quelli dei miei anni over fifty…
Tant’è!
Oggi mi chiedo che ne sia stato di quella ragazza e a cosa sia servito…
La ragazza è cresciuta in età, le carte avranno un invidiabile destino e scrivere di filosofia, così come di letteratura e altro, a diciassette anni, per il puro piacere di scrivere e pensare, immagino sia servito a far passare il tempo e …
“Niente. Niente e così sia” (per dirla con Oriana Fallaci).
Ecco il testo delle pagine che, per ora, ho sottratto al riciclo:
IL PRINCIPIO DI CAUSALITA’ IN HUME E KANT
La nozione di causalità o relazione causale, nella storia della filosofia, è il punto di partenza del tentativo di spiegazione razionalistica dei fenomeni naturali, ai quali – in forza di tale principio – viene attribuita una connessione necessaria sia che essa rinvii a cause puramente fisiche e meccaniche sia che esiga per la sua spiegazione cause intelligenti e finalistiche.
Il pensiero moderno tradusse il pensiero di causalità nel concetto scientifico di legge o relazione causale (la “causa efficiente” di Aristotele, “l’agente che produce la cosa”). La relazione causa-effetto viene così scientificamente espressa da una funzione di grandezze matematicamente misurabili. E proprio su questo principio era fondata la fisica classica di Newton e la concezione moderna della natura (meccanicismo; determinismo).
La validità universale di tale concezione viene però posta in dubbio da D. Hume, il quale limita la sua analisi del rapporto causale esclusivamente al piano conoscitivo umano, valutando quindi la legittimità del giudizio causale nell’ambito dell’esperienza con esclusione di qualsiasi sconfinamento nella metafisica del trascendente.
Per Hume il concetto di causalità è un’idea complessa di relazione (non riguardante le relazioni, apoditticamente certe, che implicano solo un confronto tra idee ma quelle relazioni che dipendono da un confronto con l’esperienza e che, ammettendo la possibilità del contrario senza che ciò implichi contraddizione, non danno certezze ma solo conoscenza probabili) di cui vuole verificare la validità.
L’idea di relazione causale non è ricavabile a priori in quanto si può pensare a un evento senza che una causa l’abbia prodotto; per ragionamento o riflessione “non c’è alcun oggetto che implichi l’esistenza di un altro oggetto, se consideriamo questi oggetti in se stessi e non guardiamo mai oltre le idee che ci formiamo di essi” (D. Hume): dall’analisi di un fenomeno A (che chiamiamo “causa”) niente ci permette di desumere necessariamente l’esistenza del fenomeno B (“effetto”), e viceversa.
L’origine dell’idea di causa è da ricercarsi, perciò, nell’esperienza: non nell’esperienza dei singoli avvenimenti A e B, da cui non possiamo scoprire niente che in A, in se stesso, spinga A a originare B, ma nell’esperienza del legame costante degli avvenimenti di tipo A con gli avvenimenti di tipo B, cioè nella ripetuta esperienza di una connessione costante tra due oggetti contigui nello spazio e nel tempo di cui noi chiamiamo “causa” l’antecedente ed “effetto” il conseguente.
Per quanto, però, ci si sforzi di percepire l’“azione” causale, ci si trova sempre e solo di fronte a fenomeni particolari: non possiamo avere impressioni di relazioni causali.
“Quando nell’esperienza due oggetti sono costantemente legati, noi di fatto li deduciamo l’uno dall’altro (Quando dice “dedurre”, intende che il fatto di percepirne uno ci fa attendere l’altro; non intende una deduzione formale o esplicita” (B. Russell “Storia della filosofia occidentale”). “Non abbiamo altra nozione di causa ed effetto se non quella di certi oggetti che sonno sempre stati collegati tra di loro… Non possiamo penetrare il motivo di questo legame” (D. Hume).
“… Quando diciamo ‘A causa B’, intendiamo solo che A e B sono di fatto sempre collegati, non che c’è un legame necessario tra loro” (Russel): è l’abitudine alla successione A-B che ci fa attribuire a questo rapporto carattere di necessità, trasformando ciò che è un semplice post hoc in un propter hoc.
“Hume appoggia la sua teoria con una definizione del verbo ‘credere’ che è, secondo lui, ‘un’idea vivida riferita o associata a un’impressione reale’. Attraverso questo legame, se A e B, nella passata esperienza sono sempre stati collegati, l’impressione di A produce quella vivida idea di B, che costituisce il ‘credere’ in B. … La percezione di A è collegata con l’idea di B, e così finiamo con il pensare che A sia collegato con B … ‘Gli oggetti non hanno legami accertabili tra loro né … possiamo trarre qualche deduzione tra l’apparenza di un oggetto e l’esistenza di un altro oggetto’. Hume ripete molte volte l’affermazione che quanto ci appare come un legame necessario tra oggetti è in realtà solo un legame tra le idee di quegli oggetti: lo spirito viene determinato dall’abitudine, ed è ‘questa impressione o determinazione che provoca in me l’idea di necessità’ …, ‘la necessità è qualcosa che esiste nello spirito, non negli oggetti’” (Russel).
Noi possiamo solo dire che “è stato frequentemente osservato che il legame ripetutamente osservato tra due oggetti A e B è stato frequentemente seguito da casi in cui l’impressione di A fu seguita dall’idea di B” (Russel).
Viene così negata la validità della possibilità di prevedere determinati eventi, legittimata dal rapporto causale e giustificata dall’uniformità della natura; così pure l’induzione come semplice enumerazione non è una forma valida di ragionamento: cade il fondamento che consentiva alla scienza di formulare con sicurezza le leggi regolative di tutto il reale. La necessità causale e la conseguente presenza di leggi universali nella natura è una mera ipotesi, motivata unicamente da un’abitudine psicologico-associativa umana.
Di fronte alle conclusioni scettiche di Hume – seppure si tratti di scetticismo critico e non distruttivo, in quanto Hume intese l’esperienza non come spiegazione del reale ma come problema da risolvere, e volle mettere in evidenza che, per l’uomo, non è possibile una sapere assoluto né pretendere di avere verità indiscutibili (del resto, anche attualmente, una legge scientifica è vera solo sino a che non si dimostra che è falsa) – Kant volle trovare delle soluzioni tali da fondare filosoficamente la scienza e garantire ad essa un forte status epistemologico.
Così come per Hume, anche per Kant il mondo esterno fornisce solo la materia per le sensazioni ma, mentre per Hume l’impressione è solo una modificazione soggettiva, e l’associazione d’idee non è un’attività del soggetto conoscente ma un carattere intrinseco alle idee semplici, per Kant è il nostro apparato mentale che, nella sua attività, è allo stesso tempo strumento e garanzia della conoscenza oggettiva. Le leggi scientifiche, per potersi dire tali, devono essere espresse da giudizi sintetici a priori, cioè universalmente validi per tutti ed estensivi del sapere. Questi giudizi, elaborati dall’intelletto, stabiliscono un nesso necessario e universale tra i termini del giudizio e operano una sintesi del molteplice conferendogli oggettività. “Hume aveva dimostrato che la legge di causalità non è analitica e aveva dedotto che non possiamo essere certi che sia vera. Kant accettò la teoria che essa fosse sintetica, ma nondimeno che la si conoscesse a priori” (Russel). Kant fece della relazione causale una categoria trascendentale dell’intelletto, cioè uno dei modi di unificare il molteplice, secondo la categoria di relazione, elaborando giudizi il cui rapporto è quelle di condizione e condizionato. La relazione causale è una struttura funzionale dell’intelletto, un elemento formativo dell’esperienza, uno dei sistemi di coordinate con cui il soggetto conoscente si pone in rapporto all’oggetto conosciuto: non è quindi un modo di essere della realtà (così come la intese anche Hume, cioè come modo della realtà di presentarsi alle nostre impressioni) ma un nostro modo di conoscerla.
Si tratta quindi di una forma conoscitiva inerente il soggetto, soggettiva ma, proprio per questo, applicabile a qualunque cosa noi sperimentiamo, e il cui carattere oggettivante è garantito dall’attività sintetizzatrice dell’“io penso” che conferisce ai giudizi scientifici universalità e necessità.
Daniela Marras
Classe III C
Trascritto a Sardara in data 11 Novembre 2023
A Christmas Carol
In memoriam
La sua bambina, ultima arrivata, non ha nemmeno quindici giorni. È un piccolo indifeso angelo biondo con gli occhi azzurri.
Delle altre tre, la prima ha appena quattro anni. Sono quindi anche loro piccolissime, piccole, vivaci, effervescenti.
Abitano in una graziosa villetta (“graziosa” davvero, non per usare una noiosa frase fatta).
La villetta è in affitto e si trova in una via non ancora asfaltata, di fronte alla casa dei nonni materni.
È circondata da un giardino lussureggiante: vi sono davanti due cedri del libano, un’enorme pianta di mimose, uno slanciato salice piangente, cespugli di gerani e margherite e poi calle, tulipani, iris e soprattutto rose, rose, rose.
Sul retro ci sono alberi da frutto: alberi di pere, arance, mandarini, limoni, ciliegie, nespole, cachi.
Le prime due delle loro bambine vanno all’asilo delle suore, non molto distante e vicino alla Parrocchia di Sant’Antonio.
Ci vanno volentieri ed imparano un sacco di cose: imparano a giocare con altri bambini, a cantare, recitare, ballare, disegnare.
In questo periodo è poi una gioia per loro. Hanno fatto i lavoretti per la ricorrenza e la recita a cui sono stati invitati genitori, parenti ed amici.
La recita si fa nel grande salone al piano terra. I piccoli si posizionano in ordine come è stato loro insegnato per tempo dalle suore pazienti: ognuno ha la sua mattonella di riferimento e stanno molto attenti al riguardo. Sono super emozionati: è il grande giorno! Le bambine hanno il grembiulino rosa e i bambini celeste, ognuno col suo contrassegno cucito sul petto dalle loro mamme.
Dopo aver recitato, cantato e ballato, seguono le foto di rito scattate dal fotografo del paese e la consegna dei lavoretti da portare a casa. Quest’anno una capannuccia fatta con i fiammiferi spenti e un angioletto di gesso colorato. I piccoli ne sono molto orgogliosi.
È inverno ma non fa tanto freddo nel loro piccolo paese. Sono di moda i pantaloni a zampa di elefante, le camicie col colletto a punta, i grandi baffi.
La terza delle loro bambine ha giocato molto col nonno materno, negli ultimi tempi. Contava le noccioline sul lettone e gli diceva: “Tu domi, io leggio”.
Il nome per l’ultima arrivata era stato estratto a sorte con solennità dalla maggiore delle bambine, la “quattrenne”, che aveva scelto uno dei biglietti preparati dalla sua mamma.
Tutte e tre le grandette, “grandette” capirai..., assistevano ai bagnetti e ai cambi di pannolini con estrema attenzione e solerzia. Erano molto premurose verso la più piccola.
Quella sera, erano andati a trovare i nonni paterni e il loro zio affezionato, il fratello dottore, della nonna materna.
Dai nonni avevano trovato i due cuginetti maschi, di poco più grandi di loro ma era la visita a casa dello zio la più attesa, perché Gesù Bambino lasciava sempre dei regali fantastici da lui e perché a loro piaceva andare nel suo bagno e annusare la sua colonia.
Quell’anno aveva portato degli enormi animali di peluche, un cagnolone giallo per la maggiore, un gattone arancione per la seconda e per la terza un cavallino nero con un fiocco rosso.
Gesù Bambino sarebbe passato poi anche a casa dei nonni materni ed era tutto un serpeggiare di attesa impaziente. C’erano gli zii, il fratello e la sorella della mamma, che non erano ancora sposati e quindi potevano dedicarsi alle nipotine.
Con gli anni a venire sarebbero arrivati altri bambini e sarebbero diventati una grande grande famiglia a lungo serena, a lungo felice, a lungo senza pensieri tristi.
...
Aveva chiuso gli occhi per qualche istante e in un lampo aveva rivisto il Natale del Settantatre, chissà perché, chissà perché proprio quello... o forse non era proprio quello...
Era comunque passata un’eternità, un’eternità da quel Natale, un’eternità da quegli anni di gioventù...
Ora tutto era cambiato, anche se erano tornati di moda, rivisitati, i pantaloni a zampa. Le suore avevano lasciato definitivamente il paese e la chiesa di Sant’Antonio non era più una parrocchia, visto che c’erano sempre meno sacerdoti.
Lui e sua moglie erano considerati anziani ormai. I suoi baffi neri erano diventati bianchi e i capelli mossi e corvini non c’erano più da anni.
I nonni, lo zio dottore e altri zii li guardavano dal cielo da tempo ed erano arrivati altri figli e nipoti.
Chiudeva sempre gli occhi in quei momenti.
Riusciva così a trovare un po’ di requie.
Erano i momenti in cui faceva gli esercizi per le braccia e le gambe o con la fisioterapista o con sua moglie o sue figlie, spessissimo la quarta e qualche volta la prima.
Chiudeva gli occhi e si rilassava nel suo letto di tormenti.
Ora aveva aperto gli occhi, dopo aver rivisto quel Natale di tanti anni prima: a fargli muovere le braccia era sua figlia, la primogenita.
Portava una mascherina bianca e anche lui portava una mascherina bianca che nascondeva naso e bocca.
Sua figlia era arrivata da due giorni dal Nord Italia e poteva essere malauguratamente fonte di contagio. Per questo portava la mascherina e non mangiava con suo padre e sua madre. Forse avrebbero mangiato in stanze separate anche la notte di Vigilia e il giorno di Natale.
Le sue due figlie che vivevano all’estero con le loro bambine e i loro compagni di vita, una in Spagna e l’altra in Portogallo, non ci sarebbero stati quell’anno, essendosi il morbo diffuso non solo in Italia ma anche in Europa e in tutto il Mondo.
Neppure i figli vicini, che vivevano con le loro famiglie uno in un paese distante meno di dieci chilometri e le altre due, nella stessa strada giusto di fronte, proprio in quella che era stata la villetta dove avevano vissuto il Natale del Settantatre e tanti altri Natali, ebbene neanche loro sarebbero potuti essere con lui e sua moglie la notte della Vigilia e il giorno di Natale.
Così dettavano le prescrizioni dello Stato, così dettavano le prescrizioni degli Stati esteri.
Un Natale strano davvero avrebbero celebrato.
Per lui e la sua famiglia il duemiladiciannove era stato un annus horribilis ma anche il duemilaventi non era cominciato sotto i migliori auspici. Era venuto a mancare, solo e lontano, il fratello di sua moglie, suo cognato, lo zio dei suoi figli e, a fine febbraio già si parlava della diffusione di un pericoloso virus che colpiva le vie aeree e l’apparato respiratorio e si diffondeva con le cosiddette droplet, le minuscole goccioline del respiro; inizialmente gli esperti dicevano con le goccioline che si disperdevano nell’aria starnutendo.
Lui e sua moglie seguivano i notiziari in televisione ed erano quindi costantemente aggiornati. Non solo aggiornati, soprattutto allarmati e impauriti.
Il panico aveva spinto gli abitanti del paese, nel giro di un fine settimana, a fare incetta di disinfettanti, candeggina, alcool e amuchina, nelle farmacie e nei supermercati. Le mascherine per proteggere naso e bocca si erano rivelate da subito introvabili.
Tutti erano risultati impreparati.
Dapprima vi era stato anche chi aveva parlato di inutili allarmismi e di drammatizzazione di una cosa da niente, che avrebbero danneggiato il Paese e il suo turismo.
Ben presto però il morbo si era diffuso sempre più rapidamente e pesantemente non solo nell’intero territorio dello Stato ma anche in quello di altri Paesi e di altri Stati lontani e lontanissimi. C’era chi aveva espresso solidarietà sin da subito, chi scherno e ridicolizzazione per poi trovarsi preda del morbo fatale.
La misura a cui si era arrivati, nella maggior parte dei Paesi, fu quella di impedire alla gente di uscire di casa se non per esigenze lavorative, di salute o di necessità da dichiarare con apposita autocertificazione. In fondo niente di nuovo rispetto alla clausura dei tempi di Boccaccio e del suo Decameron, aveva detto sua moglie.
Si era assistito così al confinamento della popolazione di interi Stati, nelle proprie dimore, mentre i supermercati venivano presi d’assalto e farsi consegnare la spesa a domicilio dopo averla ordinata on line era diventato impossibile, così gli aveva detto la maggiore delle sue figlie.
La popolazione, impaurita e preda dello shock, aveva accettato generalmente di buon grado la quarantena, cantando dai balconi e diffondendo video ironici, timorosa di metter il naso fuori dalla propria abitazione, all’insegna dello slogan “Io resto a casa”.
Lui era allettato da un anno e sua moglie lo accudiva ininterrottamente, quindi a marolla, per forza… restavano a casa.
I media avevano diffuso le immagini surreali di mille città deserte e di posti non lontani, posti vicinissimi, posti in cui la gente, tanta gente, moriva, centinaia ogni giorno, soprattutto anziani e persone già malate. Si erano viste le immagini di processioni di camion militari che trasportavano bare, tante bare, da un luogo ad un altro per carenza di posti nei cimiteri.
Negli ospedali la situazione era diventata presto insostenibile ma chi aveva osato parlare subito di quello che accadeva veramente era stato accusato di mentire. Si era arrivati a praticare la selezione dei pazienti, si era arrivati al triage estremo, si era arrivati a negare le cure ai malati con minore possibilità di salvarsi.
Dopo tutto quello che aveva vissuto, cosa altro gli sarebbe potuto succedere? Lui era soggetto fragile e anche sua moglie era anziana. Non voleva pensarci, non voleva pensarci.
E intanto venivano mostrati balletti e coreografie di medici e infermieri in tenuta anti-virus.
Il morbo poteva colpire in modo leggero, in taluni in modo asintomatico, ma in molti casi era devastante, i pazienti venivano messi a letto proni e intubati. Il virus toglieva il respiro e non solo. E per di più, i malati venivano privati della possibilità di ricevere visite da parte dei propri cari e chi moriva, moriva solo, privo della possibilità dell’estremo saluto e, spesso, anche di una cerimonia funebre.
Con l’avvicinarsi della bella stagione, erano state allentate le misure, consentendo la ripresa di molte attività all’insegna dello slogan “Andrà tutto bene”.
Erano comparse le mascherine nelle farmacie e nei negozi, sia quelle chirurgiche a prezzo calmierato sia le FFP2, a sette, otto euro l’una.
Era trascorso l’inverno e si era tornati ad affollare le strade in maniche corte. La preoccupazione maggiore era diventata: “Riusciremo a fare le vacanze come si deve?”.
E così si era assistito all’incosciente esodo dalle regioni più colpite a quelle meno colpite, dove quindi prese a diffondersi il virus, inevitabilmente. Questo nel suo Paese ma non solo.
Durante l’estate, i politici erano spariti e i medici avevano perso l’eloquenza.
Si poteva circolare liberamente in località di mare, collina, montagna. Ed era divenuto possibile circolare nello Stato e tra gli Stati. Non si pensò ai mezzi pubblici, non si pensò alle scuole se non limitatamente ai banchi singoli con le rotelle. Non si pensò agli ospedali.
Due mesi di quarantena avevano inoltre, a detta di molti, messo KO l’economia di molte famiglie e imprese più o meno grandi.
Da cicale incoscienti tutti, chi più chi meno, avevano trascorso la bella stagione di quell’anno.
Il virus intanto covava sotto le ceneri.
E come ogni anno, le vacanze erano arrivate al termine per tutti.
E ci si era resi conto che c’era chi doveva riprendere a recarsi in ufficio o nelle fabbriche nelle città, chi sarebbe dovuto rientrare a scuola o all’Università e soprattutto c’era chi, come lui, soffriva dei mali di sempre e si sarebbero dovute prestare le cure necessarie come e più di prima.
E nulla, nulla era stato fatto al riguardo.
Allora si era arrivati a suddividere il Paese colorando lo Stivale, spostamenti e acquisti erano stati impediti a giorni alterni, le scuole erano state aperte e richiuse, sbandierando la presenza dello Stato per salvaguardare la salute di tutti e anche per consentire a chi aveva subito danni economici di usufruire degli opportuni ristori.
Ma il virus si era diffuso, i morti erano migliaia nel Paese e milioni nel resto del mondo.
Lui aveva vissuto e viveva la situazione con disagio, come tutti i malati anziani, considerati fragili e quindi soggetti maggiormente a rischio. E così sua moglie.
Infermiera, fisioterapista e assistente arrivavano in casa tutti bardati con mascherina, camice, visiera e guanti usa e getta e anche lui e sua moglie portavano sempre la mascherina.
L’infermiera, super zelante come era, copriva il tavolo e la sedia su cui poggiava la sua borsa, il cotone e tutto ciò di cui aveva bisogno, con la carta dei quotidiani che si portava appresso, quale misura speciale di igiene e prevenzione anti- contagio.
I pochi medici che si erano recati da lui avevano fatto tenere sempre le finestre spalancate e non gli si erano nemmeno accostati per esaminarlo.
Le visite e i controlli negli ospedali erano stati annullati. Impossibile farsi visitare, neppure se eri stato operato di cancro e se eri malato di Parkinson da anni.
La televisione era martellante: in ogni canale non si parlava d’altro.
Nel mese di agosto erano tornate le sue figlie e le nipotine che vivevano all’estero e che avevano anche loro potuto raggiungere l’isola natia.
Lui ne era stato certamente contento ma purtroppo non poteva più godere della bellezza incalcolabile del mare e del sole, bellezza di cui aveva dovuto fare a meno nell’anno precedente per tutto quello che gli era capitato, a Marzo, a Maggio, ad Agosto, bellezza che gli mancava tanto, tantissimo, infinitamente. Chissà se sarebbe mai riuscito a rivedere il suo bel mare. Immobile in quel letto, impossibilitato perfino a girarsi da solo e a cambiare posizione, rivedere il mare, e non solo, gli sembrava un sogno irrealizzabile…
E il virus continuava a dividere famiglie, a fare paura, a impedire contatti e ri-unioni. C’era la speranza del vaccino, certo, anzi dei vaccini, speranza che, in molti però, era accompagnata da timori e insicurezze: erano stati sufficientemente testati? Avevano effetti collaterali? Erano in grado di proteggere davvero?
Come aveva potuto sperimentare sulla sua pelle, negli ospedali la situazione non era migliorata affatto per gli anziani malati dei loro mali di sempre.
Alla televisione era stato riportato del decesso di un malato di diabete al pronto soccorso cui non erano state somministrate le sue medicine e nemmeno un goccio d’acqua.
E non era per niente un caso isolato! Lui lo sapeva bene! Lo sapeva benissimo! Aveva infatti vissuto sulla sua pelle (letteralmente e non) un’esperienza simile… Ma mal comune non fa mezzo gaudio...
Ora la sua figlia maggiore che, a differenza delle sue figlie all’estero, per quel Natale, era riuscita a tornare nell’Isola per qualche giorno, gli stava facendo eseguire gli esercizi per le gambe.
Le era molto affezionato, come era affezionato a tutte le sue figlie e a suo figlio, ma, in quel momento, si era distratta.
Si impegnava ma era un po’ moscia, senza forze. E per questo, ogni tanto la riprendeva bonariamente.
Richiuse gli occhi e si rilassò, per quanto possibile.
La migliore nel prendersi cura di lui era la quarta delle sue figlie, il piccolo indifeso angelo biondo arrivato nel Settantatre.
Metteva vigore e accortezza nel fargli muovere braccia e gambe ma soprattutto lo rasserenava e gli infondeva calma e tranquillità. E non solo quando doveva fare gli esercizi, ma anche quando gli somministrava le medicine, gocce, pastiglie effervescenti, piccole pasticche, polverine, capsule, ne prendeva una infinità… e anche quando si trattava di sistemarlo a letto con l’aiuto di sua moglie o di lavargli le mani prima e dopo i pasti.
Lui non aveva più nessuna intimità, nessun momento privato. Aveva perduto la sua autosufficienza e la sua privacy, lui che ci aveva sempre tenuto tanto.
E ciononostante aveva timore di restar solo. Doveva sempre esserci qualcuno con lui, a tenergli compagnia. E questo qualcuno era, per la quasi totalità del tempo, sua moglie, la donna che lo aveva sposato tanti anni addietro andando contro la volontà dei suoi genitori, la madre dei suoi figli, la donna che lo accudiva ininterrottamente, giorno e notte.
Lui che era sempre stato attivo, in movimento, o al lavoro o in campagna, da un giorno all’altro si era trovato a giacere supino su un letto di tormenti, impossibilitato perfino a cambiare posizione nel letto.
Gli erano venute le piaghe ai piedi e poi, terribile, la piaga sacrale che tanto aveva spaventato sua moglie facendola scoppiare in lacrime, quando l’aveva vista, dopo la dimissione dall’ospedale.
E il via vai di infermiera, fisioterapista, assistente era diventato parte della sua vita di malato, parte della sua quotidianità, giorno dopo giorno.
Lui era forte ma si chiedeva: “Cos’altro può succedermi?!” e faceva gli scongiuri quando stava relativamente bene perché l’incubo era sempre dietro l’angolo.
Diceva alla moglie e alle figlie di pregare per lui e ogni notte confidava di potersi svegliare l’indomani mattina.
Si distraeva anche con suo figlio che lo aggiornava sulle pratiche per la liquidazione della sua società, sulla vigna e la campagna e sulla situazione finanziaria ed economica.
Benché fosse allettato, benché prendesse una infinità di medicine, benché avesse avuto tutto quello che aveva avuto, in casa era ancora il punto di riferimento per tutti, per un consiglio, una decisione, un parere… Sentiamo cosa dice babbo…
Lui aveva aiutato sua moglie e suoi figli finché aveva potuto, ora non poteva più, ora era lui ad avere bisogno di sostegno e attenzioni ma capitava che si trovasse lui ad incoraggiare moglie e figli nei momenti di sconforto.
Voleva sempre il grosso orologio da tavolo ben visibile. Gli serviva per l’orario delle medicine, certo, ma anche per avere una certa cognizione del tempo, anche se non era facile.
Ieri, oggi e domani, tutti uguali, tutti a letto, giorno e notte, ininterrottamente, continuamente, scanditi dagli orari delle medicine, dei controlli, delle visite, dei pasti e dai programmi televisivi.
Riusciva anche a leggere i quotidiani e pure qualche libro.
Nei momenti di “blocco”, quelli che i medici chiamavano “periodi off”, quando cessava l’effetto delle medicine, avvertiva una sensazione terribile: il corpo rigido come per un potente crampo dolorosissimo e immobilizzante.
E gli veniva l’ansia e una malessere diffuso che faticava anche a spiegare a sua moglie e ai suoi figli.
Come spiegarselo? Come spiegarlo?
Tutte quelle medicine, tutte quelle medicine che lui comunque continuava a prendere fiducioso… “Non ho scelta! Che Dio me la mandi buona!”, diceva infatti a se stesso ogni mattina quando cominciava la giornata assumendo i farmaci.
A volte si chiedeva perché, perché tutto questo, perché non bastava dirgli “Alzati e cammina!”, cosa che desiderava enormemente, tornare a camminare da solo, tornare ad essere autonomo, riacquistare la sua indipendenza e intimità, tornare a dormire nel lettone con sua moglie… Non più il letto per malati per lui, non più la brandina per sua moglie nel tinello, ma insieme il lettone nella loro camera.
Le sue preghiere però non venivano ascoltate e si chiedeva cosa mai potesse aver fatto nella sua vita per meritarsi tutti i mali che gli erano piovuti addosso.
E non voleva pensare alla sua malattia, al suo decorso, alla sua evoluzione. Come poteva ridurre il suo corpo? Come poteva ridurre la sua mente? E le medicine che non facevano più effetto… e i dottori che non rispondevano… Che ansia! Che tormento!
Sarebbe stato un Natale particolare certo, senza i suoi figli, ma non peggiore di quello del duemiladiciannove, sperava.
Riaprì gli occhi.
Sua figlia lo guardava con tenerezza e lui sollevò il braccio e le carezzò la testa pronunciando, in tono affettuoso, il suo nome: “Daniela!”.
Natale 2020
(Pubblicato sul sito a Sardara il 22 Dicembre 2023)