Sguardo senz'occhi
SGUARDO SENZ’OCCHI[1] “Sai che anche Russell amava i gialli? Diceva d’identificarsi ora con l’assassino ora col poliziotto. Era il suo modo per sfogare in modo innocuo gli istinti aggressivi cui la società ci impedisce di abbandonarci” “Sublimazione!? ... Prova a sublimarti con questo!” “Cos’è?” “Un giallo -ino” “Di?” “Camilla Cristini” “Mai sentita” “Neanch’io”. La sala è vuota. Vuota di persone. E’ notte. Il grande tavolo laccato riflette la luce artificiale che arriva dalla strada. Poche macchine interrompono il silenzio. Le sedie sono tutte accostate al tavolo, tutte tranne una. Dalle mie parti si dice che quando qualcuno non rimette a posto la sedia in cui era seduto, lascia lì il proprio “sentidu”. Non so bene che significhi ma, visto che ci sono andato a sbattere, io ho “sentito” la sedia. Non posso accendere la luce: sono qui in missione! Chi mi ha mandato? un mio amico, diciamo, niente nomi. A parte la sedia, tutto mi sembra a posto. Certo, con questa luce (con questo buio!), qualsiasi cosa appare sinistra e misteriosa, anche una sedia spostata. Mi sento osservato. Sarà perché sono qui non autorizzato e forse mi sento vagamente in colpa o sarà per quelle due orbite vuote. Lanciano sguardi più penetranti di certi occhi! E’ solo una copia, lo so, ma dicono sia ammaliante come l’originale. Pare che siano stati necessari secoli, anni e anni, mani e mani, per levigare con la sabbia un grande blocco di cristallo di rocca, per modellare un intrigante teschio! Il capo ama l’archeologia, i misteri antichi e l’enigma del teschio di Mitchell-Hedges lo affascina. Per questo c’è qui la sua copia, o quasi. Io non trovo niente e mi sa che me ne vado, e poi quel coso non mi ispira. “Tieni d’occhio il tuo capo! Niente di strano? qualcosa fuori routine?” “Non mi pare, a parte la riunione di ieri. Ma perché ti interessa tanto?” “Per ora è meglio che non lo sappia” “Ma come posso aiutarti a trovare qualcosa se nemmeno so cosa devo cercare?” “Vedi quel quadro? Cosa vedi?” “Un vaso greco. No. Due profili. Un vaso greco e due profili” “Non puoi vedere il vaso e i profili contemporaneamente: non possiamo percepirli nello stesso istante. Ecco, tu puoi aiutarmi a vedere il vaso mentre io vedo i profili e viceversa. Chiaro?” “Più o meno” “Fidati!”. Mi fido e poi sono curioso. Il capo arriva in compagnia: è una compagnia coi tacchi e parla con accento straniero, British direi. Sicuramente non è una cliente, il che è insolito: il capo riceve in ufficio solo i clienti. Per il resto del giorno calma piatta. Ambulanza? Polizia? Addirittura la stampa!? Decisamente qualcosa di strano. Infatti: stamane la lady è stata trovata cadavere e il teschio è scomparso. Il mio amico è già informato e mi lascia coi miei interrogativi. Comincio a pensare agli inquietanti poteri attribuiti ai teschi di cristallo, a riti esoterici, guarigioni, mutamenti di personalità. Ma che senso avrebbe? Era solo una copia, forse nemmeno di cristallo. E la lady? Il capo poi pare scomparso col teschio e come posso seguire i movimenti di uno che nemmeno si fa vedere? Sarà lui il colpevole? Il telefono! L’hanno trovato: morto. Incidente d’auto, pare, ma c’è da crederci? Primo piano: due cadaveri e un teschio scomparso. E lo sfondo? La giovane vedova appare in TV affranta “per l’immatura scomparsa in tragiche circostanze del compianto consorte, stimato professionista e uomo di innegabile levatura morale”. Qualcosa luccica sul petto della vedova ma spostano l’inquadratura e non ci penso più. Sono le luci della discoteca ad illuminare la mia memoria. Forse per avidità, cleptomania, vanità o forse solo stupidità ma è chiaro, no? Del resto non ci sono poi tanti sospettabili. Ma perché? Mi mancano i profili oppure il vaso, lo sfondo insomma. Non resisto: devo sapere. Il mio amico mi accontenta, stavolta. “Da tempo si sospetta che il teschio sia non una copia ma una sorta di fratello del teschio famoso, giunto qui per vie ancora da chiarire. Il tuo capo era però intenzionato a cedere il suo esemplare al British Museum che in passato aveva esaminato anche il celebre fratello”. Ecco il perché della riunione e della visita della lady! Ma la signora del capo si oppone e liquida la lady a modo suo. Costringe il marito a salire in macchina, dove è nascosto un complice. Presso il dirupo, narcotizzano il capo e spingono la macchina. Tutto fila: peccato che siano solo congetture! Il luccichio è qualcosa però. Lo rivelo al mio amico. Quello splendido pezzo di antica oreficeria non poteva sfuggirmi. A casa della vedova ritrovano la spilla della lady. Il teschio no! Sento ancora le sue orbite vuote su di me. Sento che mi fissa. Negli occhi. Mi colpisce con un raggio di luce ... Aaah! Come ho fatto ad addormentarmi qui? La sala è vuota. Vuota di persone. E’ notte. Il grande tavolo laccato riflette la luce artificiale che arriva dalla strada. ... [1] Questo racconto, selezionato da Massimo Carlotto, è stato pubblicato, anonimo su richiesta dell’A., su “L’Unione Sarda” del 9 agosto 2000 col titolo “L’enigma del teschio”. |
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Allegria: c’è posta per me. Mi sento un po’ Meg Ryan. Sono così eccitata! C’incontriamo stasera. Andremo a mangiare una pizza e poi chissà. Dopo tanto tempo, finalmente potremo vederci, sentire le nostre voci, ridere assieme. Ah, non sto più nella pelle! Come mi vestirò? Jeans e maglietta? oppure mini con le zeppe? Sì, sì, dicono che l’apparenza non conta e l’abito non fa il monaco ma io voglio fare una buona impressione. Ci tengo. A papi e mami ho detto che esco con Laura (e Laura lo sa). Non voglio che si preoccupino per me. Se sapessero che esco con uno che conosco solo elettronicamente, stanotte non dormirebbero. Certo, lo so, è un po’ rischioso: si sentono certe storie e non si sa mai con chi si ha a che fare. Ma io me lo sento: andrà tutto bene! Metterò lo smalto azzurro. Mi piace molto l’azzurro: mi rasserena. Gli piacerà il mio nuovo profumo? Sarà meglio che cominci a prepararmi. Che palle questi capelli! Mi son venuti da schifo! Porterò il telefonino? No, non credo che ne avrò bisogno e poi stasera non voglio che qualcuno possa rintracciarmi. Il campanello. E’ Laura. “Ciao vecchi! Forse farò un po’ tardi. A domani!”. “Beh, ci siamo. Mi raccomando: vaffanculo!”: è l’in bocca al lupo di Laura. Il locale è carino, c’ero già stata. Ha prenotato il tavolo sei. E’ già qui: lo vedo di spalle. Bruno, ben piazzato sembra. Ci credo, col nuoto che fa! “Ciao!” “Ciao!” Ci guardiamo: sorride, sorrido. Siamo a corto di parole, ora. Dopo tanto chattare... Ma è normale, no? Solo un po' d’imbarazzo. Arriva il cameriere e ordiniamo qualcosa da bere. La birra ci scioglie un po’. Ha un dente un po’ storto ma un bel sorriso: aperto, solare. Chi l’avrebbe detto? Ama così tanto Dylan Dog e l’horror! Io no, mi fanno paura: tutta quella violenza! Eppure c’intendiamo, elettronicamente almeno. Sarà vero che gli opposti si attraggono!? Uhm! questa pizza è una delizia. Il ciuffo gli ricade sulla fronte mentre è chino sul piatto: bei capelli davvero, viene voglia di accarezzarli. “La passata di pomodoro non ti fa pensare al sangue?” Oddio, non vorrà cominciare con lo splatter o come si dice ... Lo supplico di smetterla. Non sopporto questi discorsi, soprattutto a tavola. Vabbè, stava scherzando ma non mi piacciono certi scherzi. Forse beve un po’ troppo e l’alcool può far diventare violenti... “Ci facciamo quattro salti?” Perché no? gli faccio. Purché non corra troppo in macchina: è pure fresco di patente. Ce l’ho anch’io ma papi non mi fa guidare di notte. Dice che può essere pericoloso. Si fida di me, sa che sono assennata, ma non si fida degli altri. E ha ragione. Questa musica è uno sballo e lui si muove da dio. Quasi come Ricky Martin! C’è intesa tra noi: è una questione di pelle. I vecchi non approverebbero troppo questo ballo, ma che male c’è in fondo? Siamo giovani e ci godiamo la vita. Si fa tardi, forse è meglio rincasare. Siamo tutti sudati, per fortuna ci sono i deodoranti che ci rendono un po’ meno, come dire?, animali. E’ proprio buio pesto per la strada: ci rilassiamo ascoltando musica. Ogni tanto mi lancia certi sguardi! Mi ha detto che si è divertito tanto stasera e se possiamo rivederci ancora. Urrà: gli piaccio! Sento di potermi fidare. Rallenta, parcheggia la macchina lontano da casa. Non si sa mai: i vecchi e poi i vicini insonni con mille occhi. Rabbrividisco: c’è un’arietta! Mi poggia un braccio sulla spalla. E’ cosi’ alto ed io sembro ancora più piccola. Da lontano si sente una civetta: dicono che porti sfiga ma io non credo a queste cose. Non è razionale. Si ferma. Siamo l’uno di fronte all’altra e lui poggia le mani sulle mie spalle. Mi guarda e sorride. Lo guardo e sorrido. Ho le mani un po’ sudate ma neanche un po’ di paura. Penso a papi: “Non fidarti degli estranei!” Ma lui non è un estraneo: non più ormai. O forse no, non ci si conosce mai abbastanza. Si china: sento il suo respiro sulla mia fronte. Ora non sento più freddo. Poggia le sue labbra sulle mie. E’ così dolce e piacevole. Indugia ... Scende sul collo e mi stringe, mi stringe con le sue braccia forti ... Aaah! Corro, corro verso casa. I miei passi echeggiano. Ci sono: chiudo la porta. Respiro. Sono in camera mia, salva. Meno male che avevo la pistola di papi nella borsa a darmi sicurezza. Dovevo sparare! Papi ha ragione. Mai fidarsi degli estranei: chissà cos’avrebbe potuto farmi! :-) ca qui per modificare. |
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NOTTI D’AMORE
La lama del coltello era interamente conficcata nella sabbia vicino ad uno scoglio.
Era un comunissimo coltello da tavola, di quelli col manico di plastica che si usano al posto di quelli del servizio buono che saranno belli sì ma non tagliano niente e quindi non servono allo scopo.
Questo doveva essere servito a qualche gitante domenicale.
Lo prese e lo gettò nella grande busta dove andava raccogliendo simili preziosità o lasciate dai bagnanti o trasportate a riva dalle onde del mare: una molletta per il bucato, una pinza per i capelli, perfino un paio di vecchi slip da uomo …
C’era stata una mareggiata la notte precedente e ora la spiaggia necessitava di una ripulita perché la stagione dei bagni ancora non era terminata e i turisti, con immensa gioia dei locali – si fa per dire -, continuavano ad arrivare a frotte.
Non portava gli occhiali quel giorno né le lenti perché aveva gli occhi irritati: si mosse perciò con curiosità e noncuranza allo stesso tempo verso un insolito luccichio che riusciva a scorgere in lontananza.
Grande fu la sorpresa e ancor più grande la nausea che lo colsero.
Incuneato tra due montagne di poseidonia, anch’essa trasportata a riva dalle onde, giaceva un corpo magro di giovane donna dalla carnagione chiara e non ancora abbronzata. La donna portava al polso destro un braccialetto d’oro che, alla luce del sole mattutino, mandava quei bagliori che avevano richiamato la sua attenzione.
Il corpo era nudo ma non doveva esserlo quando era stato trasportato lì: brandelli di quella che doveva essere stata una leggera veste bianca erano incastrati tra il corpo e la sabbia e altri erano impigliati sugli scogli vicini.
Sembrava un’antica sottoveste come quelle che erano appartenute alla sua bisnonna e che sua sorella aveva riesumato adattandole alle nuove tendenze vagamente retrò.
La ragazza che giaceva cadavere doveva avere all’incirca diciassette anni, proprio l’età di sua sorella.
Si avvicinò al corpo e non potè non notare che le vene delle braccia erano state aperte con un lungo sottile taglio a partire dai polsi. Un tipo di taglio che voleva dire morte certa per dissanguamento.
Poteva darsi che il mare avesse ormai portato via il sangue di quel corpo oppure poteva darsi che la ragazza fosse stata trasportata lì già dissanguata.
Non indugiò: chiamò subito i carabinieri del paese.
Arrivarono tutti, il medico legale e i soliti immancabili curiosi.
La ragazza si chiamava Alicia Smith, una giovane turista inglese di diciassette anni appunto che era arrivata lì col suo boyfriend di cui si erano perse le tracce.
I due erano stati visti per l’ultima volta la notte prima a una festa in piazza. Alloggiavano al campeggio vicino alla spiaggia: la loro tenda risultava intatta. Gli organizzatori del campeggio dissero che i ragazzi possedevano una bici ciascuno ma entrambe erano scomparse.
I sospetti si concentrarono sul ragazzo e si cominciò a vociferare di un possibile movente passionale.
E così diedero il via alle ricerche del presunto omicida.
Le ricerche non durarono a lungo. Il presunto omicida fu ritrovato cadavere presso i resti di un nuraghe, ormai quasi sepolto dalla terra, che sorgeva non lontano da uno dei tanti ovili della campagna.
La scoperta era risultata particolarmente macabra: il corpo, denudato fino alla cintola, era legato a un palo e riportava una ferita da arma da taglio al collo. Il ragazzo era stato sgozzato.
Il medico stabilì che l’ora del decesso era più o meno la stessa della morte della ragazza. Date le circostanze, era difficilissimo ipotizzare un omicidio-suicidio. Il ragazzo ovviamente non avrebbe potuto eliminare la ragazza, trasportarla in riva al mare e poi tornare all’ovile, legarsi e tagliarsi la gola.
Gli inquirenti erano giunti pertanto all’acuta conclusione che doveva esserci almeno una terza persona – l’assassino appunto – implicata in quell’oscura vicenda.
E, visto il luogo in cui era stato trovato il cadavere del ragazzo – che si chiamava David Walzer – i sospetti-quasi certezze di colpevolezza ricaddero su Rino, il pastore più aitante del paese che sicuramente doveva essere in possesso dell’arma del delitto.
Rino in effetti possedeva un’antica pattadese dal manico in corno e dalla lama affilatissima che portava sempre con sé, come era noto a tutti. Infatti lo sapevano anche gli inquirenti che, presi dalla fretta di dimostrare il loro zelo, alle autorità straniere, trassero in arresto il povero Rino. E Rino, confermando i loro sospetti, non aveva un alibi verificabile per la notte precedente. Diceva di aver dormito profondamente da solo e di non essersi accorto di nulla.
Senonchè un qualche trambusto doveva esserci stato vicino all’ovile ed appariva impossibile che Rino non si fosse accorto di niente. Perciò gli inquirenti si convinsero che mentiva e, ritenendo di aver sicuramente incastrato il colpevole, posero fine alle indagini.
Piero e Marina, la sua fidanzatina, nonostante la macabra scoperta del giovane quella stessa mattina, si recarono in spiaggia. Erano notti di luna piena e il mare placido sembrava immemore della tragedia di cui era stato testimone.
Passarono ventotto giorni e la luna tornò a splendere piena nel cielo e a contemplare dall’alto le miserie dell’umanità.
Il sacrificio doveva essere compiuto. All’antico betilo, sotto lo sguardo vigile della luna silenziosa, una inctata virgo doveva essere sacrificata.
E questa volta non dovevano esserci né errori né abbagli. Timidi occhi innocenti come quelli di quella sgualdrinella straniera non avrebbero più ingannato nessuno. Sapeva chi sarebbe stato offerto in sacrificio questa volta, e senza correre il rischio che giovani principi azzurri intervenissero in soccorso della vittima sacrificale.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
Il giorno dopo, Riccardo, che aveva preso il posto di Rino, per poco non svenne quando, portando al pascolo le pecore, si trovò davanti il corpo seminudo di Ginetta, la giovane nipote della perpetua che era venuta in vacanza al paese della zia. Qualcuno aveva impedito che Ginetta compisse il suo sedicesimo compleanno.
Gli inquirenti furono particolarmente scossi dal ritrovamento.
E dal fatto che anche a Ginetta, come ad Alicia, fossero state aperte le vene delle braccia.
Rino sicuramente non poteva essere stato. E così accusarono Riccardo. Anche lui possedeva una pattadese e anche lui non aveva saputo fornire un alibi credibile. Perciò, o che avesse commesso il delitto per depistare i sospetti o che fosse esecutore di un crimine commissionato da Rino o che avesse agito autonomamente entrambe le volte, gli inquirenti trassero in arresto pure lui.
Come ogni mese Piero e Marina, la notte si recarono in spiaggia.
Passarono altri ventotto giorni e la luna tornò a splendere placida.
Un nuovo sacrificio doveva essere compiuto: la luna era pallida e l’antico betilo ardeva dal desiderio di fecondare una vergine. Non più errori. L’ultimo era stato intollerabile. Eppure la fonte era sicura. Evidentemente quella la oltre che sgualdrina era anche una bugiarda spudorata. Certo qualche vecchia beghina del paese era sicuramente ancora vergine e vergine sarebbe morta, ma il sacrificio richiedeva sangue giovane.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
“Dove vai?” “Esco, non vedi?” “Sì, ovvio che lo vedo. Volevo sapere appunto …” “Esco con Alberta. Saranno fatti miei, ti pare?” “Certo, ma visto quello che succede, da buon fratello maggiore, non posso non raccomandarti di essere prudente” “Lo so, non accetterò caramelle dagli sconosciuti …”.
I battibecchi tra Piero e Francesca erano all’ordine del giorno, comuni come sono in una qualsiasi famiglia. Eppure Piero era sinceramente preoccupato per la sorella perché nella sua testa si era ormai radicata la certezza che gli inquirenti avessero preso un abbaglio e che l’assassino o gli assassini fossero ancora liberi.
Liberi e quindi capaci di colpire ancora.
Sua sorella Francesca era giovane come le due ragazze uccise e, nonostante si atteggiasse a donna vissuta, era ancora ingenua … come poteva esserlo una ragazza di diciassette anni certo.
Francesca, come lui del resto, non era soggetta a coprifuoco e poteva attardarsi quanto voleva. Piero era giunto alla conclusione che quella era una notte a rischio e che sua sorella, come le altre ragazze del paese, poteva essere in pericolo. Perciò decise di seguirla. Francesca si sarebbe sicuramente imbestialita se solo fosse venuta a saperlo, ma era un rischio che doveva correre.
La seguì al pub, evitando di entrare ovviamente, poi alla discoteca all’aperto e infine durante il suo rientro a casa.
Non accadde niente. Piero ne fu sicuramente sollevato ma allo stesso tempo era in un certo qual modo perplesso.
Accidenti! Accidentaccio! Quel ragazzetto si era messo in testa di pedinare la sorella: il rischio di farsi scoprire era alto ma la luna era pallida e il betilo ardente.
Il sacrificio non poteva essere procrastinato oltre.
Ci sarebbe stata una vittima in più, se necessario.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
Piero decise di seguire la sorella anche la note successiva. Tre erano le notti di luna piena e tre quindi le notti a rischio.
“E’ tornata Francesca?”, chiese alla madre rientrando a casa.
“No. E’ da questo pomeriggio che non la vedo. Aveva le prove di canto. Starà per rientrare …”.
Piero non volle aspettare e decise di andare a cercare la sorella. Si recò alla casetta del paese dove il coro della parrocchia si esercitava due volte alla settimana. Le prove erano terminate e qualcuno gli disse che Francesca si era allontanata con Vincenzo.
Li cercò in canonica, all’oratorio, al parco, in tutti i posti dove presumibilmente potevano essere, ma invano.
E così decise di recarsi nei pressi del vecchio nuraghe. Era sicuro che sarebbe successo qualcosa.
Non si accorse di nulla. Si ritrovò legato a un palo, imbavagliato e denudato fino alla cintola e non potè non pensare al tragico destino del povero David Walzer, destino che, a quanto pare, stava per condividere.
E, mentre metteva a fuoco le immagini, vide sua sorella.
Vestita di bianco, imbavagliata e semincosciente, era anche lei legata a una grande pietra che poteva essere o un betilo o una pietra fitta, non avrebbe saputo dire.
La luna illuminava la scena ma nessun altro si vedeva nei pressi. Tentò ripetutamente di slegarsi ma inutilmente. Chiamò e richiamò Francesca ma lei era incapace di sentirlo. La notte era calda ma lui non smetteva di tremare: regnava un’atmosfera sinistra e inquietante.
Finché li vide arrivare. Erano in tre, anch’essi vestiti di bianco e con un copricapo che lasciava liberi solo gli occhi come fossero membri del Ku Klux Clan. Mormoravano parole per lui incomprensibili e lentamente gli si avvicinarono. Una voce palesemente alterata esclamò con enfasi: “Chi è di ostacolo agli amori tra l’antico betilo e la pallida luna deve essere soppresso! Vedrai tua sorella morire per amore. Ritieniti onorato”. E con orrore li vide avvicinarsi a Francesca. Ciascuno di loro posò una mano sul corpo di lei e all’unisono sussurrarono con dolcezza: “O nostra dea, tra breve ti sveglierai e gemerai di piacere! Candida è la tua veste e la lama a breve arderà per te”.
Nel silenzio sentì un clic minaccioso e, alla luce della luna, vide il balenio della lucida lama di un piccolo (o, così sembrava) coltello a serramanico. La lama era lunga, lucente, dalla punta leggermente ricurva e sicuramente affilatissima.
E, sollevando il coltello verso la luna: “A te, nostra dea!” esclamarono.
Piero era impietrito per la paura ed il senso di impotenza finché, improvvisamente, un bagliore potente illuminò la scena a giorno e il ragazzo vide con indicibile sollievo il maresciallo e i suoi uomini precipitarsi a immobilizzare le tre persone.
Il coltello cadde a terra e venne raccolto da uno dei carabinieri che trionfante esclamò: “Ecco l’arma del delitto!”.
Intanto il maresciallo si accingeva a scoprire l’identità dei tre.
Tolse loro i cappucci l’uno dopo l’altro.
Immobili, muti e coi volti che sembravano antiche maschere tragiche stavano lì il nuovo parroco, l’anziano medico del paese e Vincenzo, il nuovo diacono.
E intanto la luna imperturbabile dall’alto contemplava degli uomini le miserie e vanità.
La lama del coltello era interamente conficcata nella sabbia vicino ad uno scoglio.
Era un comunissimo coltello da tavola, di quelli col manico di plastica che si usano al posto di quelli del servizio buono che saranno belli sì ma non tagliano niente e quindi non servono allo scopo.
Questo doveva essere servito a qualche gitante domenicale.
Lo prese e lo gettò nella grande busta dove andava raccogliendo simili preziosità o lasciate dai bagnanti o trasportate a riva dalle onde del mare: una molletta per il bucato, una pinza per i capelli, perfino un paio di vecchi slip da uomo …
C’era stata una mareggiata la notte precedente e ora la spiaggia necessitava di una ripulita perché la stagione dei bagni ancora non era terminata e i turisti, con immensa gioia dei locali – si fa per dire -, continuavano ad arrivare a frotte.
Non portava gli occhiali quel giorno né le lenti perché aveva gli occhi irritati: si mosse perciò con curiosità e noncuranza allo stesso tempo verso un insolito luccichio che riusciva a scorgere in lontananza.
Grande fu la sorpresa e ancor più grande la nausea che lo colsero.
Incuneato tra due montagne di poseidonia, anch’essa trasportata a riva dalle onde, giaceva un corpo magro di giovane donna dalla carnagione chiara e non ancora abbronzata. La donna portava al polso destro un braccialetto d’oro che, alla luce del sole mattutino, mandava quei bagliori che avevano richiamato la sua attenzione.
Il corpo era nudo ma non doveva esserlo quando era stato trasportato lì: brandelli di quella che doveva essere stata una leggera veste bianca erano incastrati tra il corpo e la sabbia e altri erano impigliati sugli scogli vicini.
Sembrava un’antica sottoveste come quelle che erano appartenute alla sua bisnonna e che sua sorella aveva riesumato adattandole alle nuove tendenze vagamente retrò.
La ragazza che giaceva cadavere doveva avere all’incirca diciassette anni, proprio l’età di sua sorella.
Si avvicinò al corpo e non potè non notare che le vene delle braccia erano state aperte con un lungo sottile taglio a partire dai polsi. Un tipo di taglio che voleva dire morte certa per dissanguamento.
Poteva darsi che il mare avesse ormai portato via il sangue di quel corpo oppure poteva darsi che la ragazza fosse stata trasportata lì già dissanguata.
Non indugiò: chiamò subito i carabinieri del paese.
Arrivarono tutti, il medico legale e i soliti immancabili curiosi.
La ragazza si chiamava Alicia Smith, una giovane turista inglese di diciassette anni appunto che era arrivata lì col suo boyfriend di cui si erano perse le tracce.
I due erano stati visti per l’ultima volta la notte prima a una festa in piazza. Alloggiavano al campeggio vicino alla spiaggia: la loro tenda risultava intatta. Gli organizzatori del campeggio dissero che i ragazzi possedevano una bici ciascuno ma entrambe erano scomparse.
I sospetti si concentrarono sul ragazzo e si cominciò a vociferare di un possibile movente passionale.
E così diedero il via alle ricerche del presunto omicida.
Le ricerche non durarono a lungo. Il presunto omicida fu ritrovato cadavere presso i resti di un nuraghe, ormai quasi sepolto dalla terra, che sorgeva non lontano da uno dei tanti ovili della campagna.
La scoperta era risultata particolarmente macabra: il corpo, denudato fino alla cintola, era legato a un palo e riportava una ferita da arma da taglio al collo. Il ragazzo era stato sgozzato.
Il medico stabilì che l’ora del decesso era più o meno la stessa della morte della ragazza. Date le circostanze, era difficilissimo ipotizzare un omicidio-suicidio. Il ragazzo ovviamente non avrebbe potuto eliminare la ragazza, trasportarla in riva al mare e poi tornare all’ovile, legarsi e tagliarsi la gola.
Gli inquirenti erano giunti pertanto all’acuta conclusione che doveva esserci almeno una terza persona – l’assassino appunto – implicata in quell’oscura vicenda.
E, visto il luogo in cui era stato trovato il cadavere del ragazzo – che si chiamava David Walzer – i sospetti-quasi certezze di colpevolezza ricaddero su Rino, il pastore più aitante del paese che sicuramente doveva essere in possesso dell’arma del delitto.
Rino in effetti possedeva un’antica pattadese dal manico in corno e dalla lama affilatissima che portava sempre con sé, come era noto a tutti. Infatti lo sapevano anche gli inquirenti che, presi dalla fretta di dimostrare il loro zelo, alle autorità straniere, trassero in arresto il povero Rino. E Rino, confermando i loro sospetti, non aveva un alibi verificabile per la notte precedente. Diceva di aver dormito profondamente da solo e di non essersi accorto di nulla.
Senonchè un qualche trambusto doveva esserci stato vicino all’ovile ed appariva impossibile che Rino non si fosse accorto di niente. Perciò gli inquirenti si convinsero che mentiva e, ritenendo di aver sicuramente incastrato il colpevole, posero fine alle indagini.
Piero e Marina, la sua fidanzatina, nonostante la macabra scoperta del giovane quella stessa mattina, si recarono in spiaggia. Erano notti di luna piena e il mare placido sembrava immemore della tragedia di cui era stato testimone.
Passarono ventotto giorni e la luna tornò a splendere piena nel cielo e a contemplare dall’alto le miserie dell’umanità.
Il sacrificio doveva essere compiuto. All’antico betilo, sotto lo sguardo vigile della luna silenziosa, una inctata virgo doveva essere sacrificata.
E questa volta non dovevano esserci né errori né abbagli. Timidi occhi innocenti come quelli di quella sgualdrinella straniera non avrebbero più ingannato nessuno. Sapeva chi sarebbe stato offerto in sacrificio questa volta, e senza correre il rischio che giovani principi azzurri intervenissero in soccorso della vittima sacrificale.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
Il giorno dopo, Riccardo, che aveva preso il posto di Rino, per poco non svenne quando, portando al pascolo le pecore, si trovò davanti il corpo seminudo di Ginetta, la giovane nipote della perpetua che era venuta in vacanza al paese della zia. Qualcuno aveva impedito che Ginetta compisse il suo sedicesimo compleanno.
Gli inquirenti furono particolarmente scossi dal ritrovamento.
E dal fatto che anche a Ginetta, come ad Alicia, fossero state aperte le vene delle braccia.
Rino sicuramente non poteva essere stato. E così accusarono Riccardo. Anche lui possedeva una pattadese e anche lui non aveva saputo fornire un alibi credibile. Perciò, o che avesse commesso il delitto per depistare i sospetti o che fosse esecutore di un crimine commissionato da Rino o che avesse agito autonomamente entrambe le volte, gli inquirenti trassero in arresto pure lui.
Come ogni mese Piero e Marina, la notte si recarono in spiaggia.
Passarono altri ventotto giorni e la luna tornò a splendere placida.
Un nuovo sacrificio doveva essere compiuto: la luna era pallida e l’antico betilo ardeva dal desiderio di fecondare una vergine. Non più errori. L’ultimo era stato intollerabile. Eppure la fonte era sicura. Evidentemente quella la oltre che sgualdrina era anche una bugiarda spudorata. Certo qualche vecchia beghina del paese era sicuramente ancora vergine e vergine sarebbe morta, ma il sacrificio richiedeva sangue giovane.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
“Dove vai?” “Esco, non vedi?” “Sì, ovvio che lo vedo. Volevo sapere appunto …” “Esco con Alberta. Saranno fatti miei, ti pare?” “Certo, ma visto quello che succede, da buon fratello maggiore, non posso non raccomandarti di essere prudente” “Lo so, non accetterò caramelle dagli sconosciuti …”.
I battibecchi tra Piero e Francesca erano all’ordine del giorno, comuni come sono in una qualsiasi famiglia. Eppure Piero era sinceramente preoccupato per la sorella perché nella sua testa si era ormai radicata la certezza che gli inquirenti avessero preso un abbaglio e che l’assassino o gli assassini fossero ancora liberi.
Liberi e quindi capaci di colpire ancora.
Sua sorella Francesca era giovane come le due ragazze uccise e, nonostante si atteggiasse a donna vissuta, era ancora ingenua … come poteva esserlo una ragazza di diciassette anni certo.
Francesca, come lui del resto, non era soggetta a coprifuoco e poteva attardarsi quanto voleva. Piero era giunto alla conclusione che quella era una notte a rischio e che sua sorella, come le altre ragazze del paese, poteva essere in pericolo. Perciò decise di seguirla. Francesca si sarebbe sicuramente imbestialita se solo fosse venuta a saperlo, ma era un rischio che doveva correre.
La seguì al pub, evitando di entrare ovviamente, poi alla discoteca all’aperto e infine durante il suo rientro a casa.
Non accadde niente. Piero ne fu sicuramente sollevato ma allo stesso tempo era in un certo qual modo perplesso.
Accidenti! Accidentaccio! Quel ragazzetto si era messo in testa di pedinare la sorella: il rischio di farsi scoprire era alto ma la luna era pallida e il betilo ardente.
Il sacrificio non poteva essere procrastinato oltre.
Ci sarebbe stata una vittima in più, se necessario.
La bianca veste era pronta. La lama anche.
Piero decise di seguire la sorella anche la note successiva. Tre erano le notti di luna piena e tre quindi le notti a rischio.
“E’ tornata Francesca?”, chiese alla madre rientrando a casa.
“No. E’ da questo pomeriggio che non la vedo. Aveva le prove di canto. Starà per rientrare …”.
Piero non volle aspettare e decise di andare a cercare la sorella. Si recò alla casetta del paese dove il coro della parrocchia si esercitava due volte alla settimana. Le prove erano terminate e qualcuno gli disse che Francesca si era allontanata con Vincenzo.
Li cercò in canonica, all’oratorio, al parco, in tutti i posti dove presumibilmente potevano essere, ma invano.
E così decise di recarsi nei pressi del vecchio nuraghe. Era sicuro che sarebbe successo qualcosa.
Non si accorse di nulla. Si ritrovò legato a un palo, imbavagliato e denudato fino alla cintola e non potè non pensare al tragico destino del povero David Walzer, destino che, a quanto pare, stava per condividere.
E, mentre metteva a fuoco le immagini, vide sua sorella.
Vestita di bianco, imbavagliata e semincosciente, era anche lei legata a una grande pietra che poteva essere o un betilo o una pietra fitta, non avrebbe saputo dire.
La luna illuminava la scena ma nessun altro si vedeva nei pressi. Tentò ripetutamente di slegarsi ma inutilmente. Chiamò e richiamò Francesca ma lei era incapace di sentirlo. La notte era calda ma lui non smetteva di tremare: regnava un’atmosfera sinistra e inquietante.
Finché li vide arrivare. Erano in tre, anch’essi vestiti di bianco e con un copricapo che lasciava liberi solo gli occhi come fossero membri del Ku Klux Clan. Mormoravano parole per lui incomprensibili e lentamente gli si avvicinarono. Una voce palesemente alterata esclamò con enfasi: “Chi è di ostacolo agli amori tra l’antico betilo e la pallida luna deve essere soppresso! Vedrai tua sorella morire per amore. Ritieniti onorato”. E con orrore li vide avvicinarsi a Francesca. Ciascuno di loro posò una mano sul corpo di lei e all’unisono sussurrarono con dolcezza: “O nostra dea, tra breve ti sveglierai e gemerai di piacere! Candida è la tua veste e la lama a breve arderà per te”.
Nel silenzio sentì un clic minaccioso e, alla luce della luna, vide il balenio della lucida lama di un piccolo (o, così sembrava) coltello a serramanico. La lama era lunga, lucente, dalla punta leggermente ricurva e sicuramente affilatissima.
E, sollevando il coltello verso la luna: “A te, nostra dea!” esclamarono.
Piero era impietrito per la paura ed il senso di impotenza finché, improvvisamente, un bagliore potente illuminò la scena a giorno e il ragazzo vide con indicibile sollievo il maresciallo e i suoi uomini precipitarsi a immobilizzare le tre persone.
Il coltello cadde a terra e venne raccolto da uno dei carabinieri che trionfante esclamò: “Ecco l’arma del delitto!”.
Intanto il maresciallo si accingeva a scoprire l’identità dei tre.
Tolse loro i cappucci l’uno dopo l’altro.
Immobili, muti e coi volti che sembravano antiche maschere tragiche stavano lì il nuovo parroco, l’anziano medico del paese e Vincenzo, il nuovo diacono.
E intanto la luna imperturbabile dall’alto contemplava degli uomini le miserie e vanità.
LA FORTUNA DI GIOVANNA
E’ da stamattina presto che pedaliamo. Abbiamo deciso di fare una gita da queste parti perché, per quanto strano possa apparire, nessuno di noi c’era mai stato. Giovanna resta sempre un po' indietro e allora dobbiamo aspettarla. Stavolta però tarda troppo. Anche se pedala come una tartaruga, a quest’ora dovrebbe essere già sbucata dalla curva. Aspettiamo ancora qualche minuto e se non arriva mi sa che dovremo tornare indietro a ripescarla. Infatti!
Giovanna è seduta a terra, la bici accanto. La fronte le brilla. Vi scintillano minuscole gocce di sudore. E non è solo per questo sole inclemente sulla testa. Una smorfia di dolore le altera i lineamenti fini del volto. Giacomo, Rita ed io ci chiniamo chiedendo all’unisono “Cos’è successo?!” “Ho preso un sasso, l’unico forse di tutta la strada. Beh, l’ho preso io, e così ho sbandato con la bici e son finita a terra. Mi son spostata da lì perché, anche se passano poche macchine, non volevo correre il rischio d’essere investita” “Ti sei spostata? Ma sei matta? E sei hai qualcosa di rotto? E poi perché non hai chiamato, urlato?” “Mi faceva male. Troppo male. Ma che ne dite di suonare a questo cancello? Mi pare di aver sentito qualcuno o qualcosa. Un animale forse. Doveva essere il guaito d’un cane. E se c’è un cane, ci dev’essere anche il padrone. E poi sicuramente avranno il telefono. Non mi sembra il caso di tornare indietro”. Ci diciamo d’accordo. Ci sembra la soluzione più sensata.
E così suoniamo. Tre volte di seguito perché l’impazienza ha la meglio sulla buona educazione: Giovanna soffre e il sole picchia.
Finalmente dei passi. Passi lenti ma sicuri. Non sentiamo altro: solo il rumore della ghiaia calpestata. Il cancello ci viene aperto. Compare una piccola donna non più giovane. Sessant’anni circa, o forse più. Piccola e linda che pare uscita da una storia d’altri tempi. Con voce gentile e musicale che non mi sarei aspettato, ci chiede: “Posso esservi utile?”. E così le spieghiamo la situazione. Un lampo d’esitazione pare attraversarle il volto. E’ un attimo e forse si tratta solo di una mia impressione, perché poi nella sua voce non c’è traccia alcuna di esitazioni e tentennamenti.
“Avete preso la decisione giusta. Il paese dista circa due chilometri dalla mia casa. Sarebbe una fatica inutile per voi tornare indietro. Siete anche fortunati, poi capirete perché. O forse lo sapete già. Entrate, prego. In veranda si sta bene”. Giacomo ed io carichiamo Giovanna in modo da non sfiorarle l’arto dolorante. Subito dopo aver varcato il cancello, l’ombra e la frescura ci sembrano una benedizione. Percorriamo il sentiero ghiaioso che conduce alla casa. Una graziosa villetta, non una casa di città. Il giardino è curato con molti fiori e alberi e, lungo la recinzione, cespugli spinosi incredibilmente fitti. La signora, come altro potrei chiamarla?, intercetta il mio sguardo. “Impediscono agli estranei di curiosare e ci permettono di mantenere la nostra privacy, come si dice oggi” mi spiega con un sorriso quasi timido. Raggiungiamo la veranda. E’ vero: c’è la temperatura ideale. Adagiamo Giovanna sul divano di vimini coperto di cuscini invitanti. Anche le poltrone lo sono e, per fortuna, la signora prontamente c’invita ad accomodarci. Ed è quello che facciamo. Gradirei tanto un bicchiere d’acqua. Ho la gola secca e la lingua che pare carta vetrata. Santa donna! Ma che fa? Mi legge nel pensiero? Senza che avessi proferito parola, ci porta l’acqua fresca in una caraffa posata, insieme ai bicchieri, su un vassoio coperto da un centrino di pizzo bianco. Fatto a mano direi, io non me ne intendo. Accogliamo anche l’acqua, come l’ombra e la frescura, come una benedizione. Mentre sorseggiamo rinfrescanti molecole di due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, la signora si siede con naturale compostezza e, lisciandosi il vestito sulle cosce, dopo aver fatto roteare lo sguardo su ognuno di noi ed averlo infine diretto su di me, come se si trattasse di un momento quasi solenne a lungo atteso, comincia: “In un certo senso vi aspettavo. Sapevo che sareste venuti. Magari non oggi. Voglio dire, non vi aspettavo proprio per oggi ma, è evidente, dovete essere voi”. Ci guardiamo l’un l’altro allarmati ma qualcosa d’indefinito c’impedisce perfino di fiatare. La signora, quasi lontana con le sue parole eppure così vicina con lo sguardo, prosegue: “Non mi avete ingannato. Sicuramente dovete aver inscenato la storia della gita - l’incidente no, si vede che lei soffre -” specifica, rivolgendo un cenno a Giovanna che, dimentica per un attimo del suo dolore fisico, mostra un’espressione tra lo stupito e il vagamente angosciato. “Forse l’avete fatto per non turbarmi ma non ce n’era alcun bisogno. Vi ha mandato la sorella di Alberto, che Dio l’abbia in gloria, vero? Solo lei era al corrente. Lei, oltre Alberto e me naturalmente. Ditemi, che volete sapere?” Non sono domande in realtà. La signora infatti non s’interrompe e prosegue come se nessuna risposta dovesse arrivare. Come se le sue certezze non potessero essere scalfite da smentita alcuna .
“Vado in paese a giorni alterni per fare la spesa. Non mi stracarico perché, se il tempo è buono, vado in bicicletta, non l’avreste detto vero? Così mi godo il panorama e mi tengo in forma. Sono io che bado alla casa e, da quando Alberto mi ha lasciata - che Dio l’abbia in gloria -, curo anche il giardino, i miei fiori almeno. Per i lavori più pesanti viene un uomo dal paese ogni tanto. Avete visto i miei fiori? Dovreste star qui un anno intero, anche di più”. Come in un flashback, forse inopportune, risuonano nella mia mente le rime baciate della vecchia e stranota ninna nanna, vecchia più di me sicuramente.
Ninna nanna ninna oh
Questo bimbo a chi lo do?
Lo darò alla befana
Ché lo tenga una settimana
Lo darò all’angioletto
Ché lo tenga per un mesetto
Forse, a questo punto, c’era anche un innegabilmente minaccioso “Lo darò all’uomo nero ché lo tenga un anno intero”. E infine, non saprei se benaugurante o meno,
Lo darò al buon Gesù
Ché lo tenga un anno e più!
Mi piacciono i fiori, ma ho la sensazione non tanto vaga che forse star qui un anno e più non sarebbe proprio una benedizione, come la frescura e l’ombra e l’acqua che ora non basta a placare l’indefinibile arsura interiore che mi ha assalito all’improvviso. La voce, intanto, melodiosamente prosegue la sua personale ballata. “I tulipani a Febbraio, le fresie a Marzo, e poi le rose, il glicine, i gigli, le margherite ... Sono così allegri, pieni di vita e di colore e danno un tocco di poesia alla mia vita altrimenti prosaica. No, in realtà non è una vita prosaica, non più di quanto lo sia la vita quotidiana di ciascuno di noi. In realtà, è un’esistenza semplice e serena la mia. La casa, il giardino, il paese, la parrocchia. Alla mia età mi godo i giorni che il Signore ha la bontà di concedermi.
Ieri, mentre compravo il pane, ho sentito che, non mi ricordo dove, alcuni ragazzacci hanno ucciso un gatto inerme giocandoci a palla. Non so cosa farei a certe persone. Barbari, incivili! Questa crudeltà mi spaventa, soprattutto contro chi non ha voce per difendersi. Non sono riuscita a diventare completamente vegetariana, ma solo per via della carenza di ferro. Lo sono spiritualmente, però. Ho un grande rispetto per tutte le creature di questa terra.
Come la mia Lea”. E a questo punto, ci lancia uno sguardo eloquente come se, per noi, non dovesse esserci mistero alcuno sull’esistenza o l’identità di Lea.
“Ha il suo spazio in casa e non le faccio mancare niente. Cucino apposta per lei, la lavo quando serve e pulisco dove sporca. Non è poco per una della mia età ma ci sono abituata: mi sembra che stia con me da una vita. Del resto, mi ripagano i suoi sguardi. Così dolci ed espressivi a volte! Ogni tanto pare si lamenti ma vuole solo richiamare l’attenzione e allora basta una carezza sulla testa e tutto passa. L’ho sempre curata io, come avevo fatto con mio marito a suo tempo. Ero infermiera, lo sapete già, e per questo vi ho detto che siete stati fortunati, soprattutto lei”. E, per la seconda volta, fa cenno a Giovanna, che sembra nutrire qualche perplessità sulla sua evidente fortuna. Giacomo, intanto, ha afferrato la mano di Rita, non so se per rassicurare lei o se stesso.
“Ero infermiera, dicevo, e non ho smesso di esserlo quando ho finito di lavorare alla clinica. Ho sempre avuto un buon rapporto coi miei pazienti, anzi mi adoravano. Sapevo come prenderli e dar loro quel conforto e quell’appoggio di cui sentivano il bisogno. Uno addirittura mi corteggiava. Ero giovane e bella allora. Un giorno, se capiterà, vi racconterò anche questa storia.
Come vi dicevo, Lea fa parte della mia vita da tanto tempo. E’ stata un dono divino, certo. Qualcuno di cui prendersi cura. Di più, qualcuno da amare. E’ così bello amare! E, credeteci o no, lei sa che io la amo. Certo ci sono anche brutti momenti, come quando tenta di scappare. Allora la devo legare e la lascio sola così. Non so se lei possa davvero amare, come me e voi, ma sicuramente mi vuole molto bene, e non solo perché dipende da me e quindi sente la mia mancanza. I suoi lamenti sono uno strazio ma è per il suo bene che lo faccio. A volte, lo dico sinceramente, la devo anche picchiare. Solo qualche colpetto leggero, tanto per farle capire quello che non deve fare. E’ adulta ormai ma ha ancora bisogno di educazione, d’imparare le regole della convivenza civile. Non è che io sia cattiva: è solo che un po' di severità è essenziale, lo sapete anche voi, se si vuole insegnare la disciplina. E quindi sono in pace con la mia coscienza. Del resto non ho mai avuto nulla di cui vergognarmi, io. Chiedete in giro: sono una persona rispettabile. Faccio parte anche dei gruppi di preghiera della parrocchia e non manco mai agli incontri settimanali.
Ci andavo con Alberto - pace all’anima sua - e non ho smesso di andarci quando lui non poteva più muoversi. Per il resto, siamo sempre stati gente riservata. Non per snobismo o scostanza: è solo questione di ... formazione, non saprei come altro dire. Di formazione e di stile, credo. E’ anche per questo che ci sono gli alberi e i cespugli lungo il perimetro del giardino. Ed è per questo che abbiamo sempre ricevuto poche visite, lo sapete. Solo pochi intimi e solo in certi giorni della settimana e per poche ore.
Soprattutto non volevamo che Lea si innervosisse per la presenza di estranei. E’ sempre stata timida. Quindi, molto spesso facevo sì che in quelle ore dormisse. Anche perché così i suoi versi assai poco poetici” e sorride con complicità come intimamente compiaciuta d’aver osato quella battuta, che però, nessuno di noi, forse per averla intimamente compresa, aveva trovato divertente. “Così i suoi versi, dicevo, non potevano incuriosire nessuno. Adesso poi non ci sono più neanche quelle riunioni e perciò non devo preoccuparmi di proteggere la tranquillità di Lea.
E poi, sì lo ammetto, provavo e provo ancora anche un pizzico d’imbarazzo all’idea che potessero e possano vederla.
Niente di cui vergognarmi, per carità, ma, l’avrete già capito, mia figlia non è ... normale”.
Un alito di vento corre attraverso i nostri capelli ma nessuno pare farci caso, come se il tempo si fosse fermato o fossimo finiti in una dimensione d’immutabile eternità.
L’aria si è rinfrescata ancora di più, e, in questa casa recintata, difesa da sguardi estranei come un cuore sigillato che tema di rivelare segreti a lungo celati, immobili aspettiamo che un niente ci scuota dal torpore che ci ha catturati.
Dopo alcuni istanti, o forse un giorno intero o chissà, attoniti accogliamo l’invito “Volete vederla?”. Entriamo in casa, tutti tranne Giovanna. Accarezza assorta un gatto tigrato che con pigri passi felpati l’ha raggiunta sul divano.
L’interno della casa sa d’antico, come la padrona. Saliamo le scale preceduti dalla piccola signora che, muta, ci fa strada. Vicino ad una porta socchiusa, la prima che vediamo dalle scale, mormora “Sentite? Sembra si lamenti, ma, come vi ho già detto, lo fa per attirare l’attenzione”. E, con gesto quasi teatrale, spalanca la porta dandoci la precedenza. Una zaffata d’aria asfissiante ci sorprende finchè la sorpresa si tramuta in un non so che d’indefinibile alla vista di Lea. Uno sguardo dolce e impaurito lascia repentinamente il posto a due penetranti occhi famelici. Come di un animale selvatico tenuto a lungo in cattività. Famelici non di cibo ma di vita. Pare volersi slanciare verso le scale ma qualcosa la trattiene. Dirige infine lo sguardo ai piedi del letto. E lì la piccola donna non più giovane giace immobile, prigioniera dell’eternità da non so quanto tempo.
Qualcuno lancia un urlo di spavento, ribrezzo, sbigottimento, paura, incredulità forse.
E’ Giovanna ...
Seduta a terra, la bici accanto. La fronte le brilla. Vi scintillano minuscole gocce di sudore. E non è solo per questo sole inclemente sulla testa. Una smorfia di dolore le altera i lineamenti fini del volto.
E’ tutto quello che sono riuscito a vedere. Vedo ancora i suoi occhi che impotenti ci hanno guardato pedalare veloci e sorridenti verso di lei. E verso Signora Morte che, inaspettatamente puntuale ad un appuntamento di cui eravamo ignari, ci attendeva dopo aver svoltato l’angolo.
(Alla guida dell’auto c’era una piccola donna non più giovane. Sessant’anni circa o forse più. Sedeva al suo fianco la sua unica figlia Lea, di cui tutti in paese ignoravano l’esistenza, finora. Lea si è salvata. Giovanna è ancora sotto shock. Causa del terribile incidente pare essere stato un improvviso colpo di sonno).
E’ da stamattina presto che pedaliamo. Abbiamo deciso di fare una gita da queste parti perché, per quanto strano possa apparire, nessuno di noi c’era mai stato. Giovanna resta sempre un po' indietro e allora dobbiamo aspettarla. Stavolta però tarda troppo. Anche se pedala come una tartaruga, a quest’ora dovrebbe essere già sbucata dalla curva. Aspettiamo ancora qualche minuto e se non arriva mi sa che dovremo tornare indietro a ripescarla. Infatti!
Giovanna è seduta a terra, la bici accanto. La fronte le brilla. Vi scintillano minuscole gocce di sudore. E non è solo per questo sole inclemente sulla testa. Una smorfia di dolore le altera i lineamenti fini del volto. Giacomo, Rita ed io ci chiniamo chiedendo all’unisono “Cos’è successo?!” “Ho preso un sasso, l’unico forse di tutta la strada. Beh, l’ho preso io, e così ho sbandato con la bici e son finita a terra. Mi son spostata da lì perché, anche se passano poche macchine, non volevo correre il rischio d’essere investita” “Ti sei spostata? Ma sei matta? E sei hai qualcosa di rotto? E poi perché non hai chiamato, urlato?” “Mi faceva male. Troppo male. Ma che ne dite di suonare a questo cancello? Mi pare di aver sentito qualcuno o qualcosa. Un animale forse. Doveva essere il guaito d’un cane. E se c’è un cane, ci dev’essere anche il padrone. E poi sicuramente avranno il telefono. Non mi sembra il caso di tornare indietro”. Ci diciamo d’accordo. Ci sembra la soluzione più sensata.
E così suoniamo. Tre volte di seguito perché l’impazienza ha la meglio sulla buona educazione: Giovanna soffre e il sole picchia.
Finalmente dei passi. Passi lenti ma sicuri. Non sentiamo altro: solo il rumore della ghiaia calpestata. Il cancello ci viene aperto. Compare una piccola donna non più giovane. Sessant’anni circa, o forse più. Piccola e linda che pare uscita da una storia d’altri tempi. Con voce gentile e musicale che non mi sarei aspettato, ci chiede: “Posso esservi utile?”. E così le spieghiamo la situazione. Un lampo d’esitazione pare attraversarle il volto. E’ un attimo e forse si tratta solo di una mia impressione, perché poi nella sua voce non c’è traccia alcuna di esitazioni e tentennamenti.
“Avete preso la decisione giusta. Il paese dista circa due chilometri dalla mia casa. Sarebbe una fatica inutile per voi tornare indietro. Siete anche fortunati, poi capirete perché. O forse lo sapete già. Entrate, prego. In veranda si sta bene”. Giacomo ed io carichiamo Giovanna in modo da non sfiorarle l’arto dolorante. Subito dopo aver varcato il cancello, l’ombra e la frescura ci sembrano una benedizione. Percorriamo il sentiero ghiaioso che conduce alla casa. Una graziosa villetta, non una casa di città. Il giardino è curato con molti fiori e alberi e, lungo la recinzione, cespugli spinosi incredibilmente fitti. La signora, come altro potrei chiamarla?, intercetta il mio sguardo. “Impediscono agli estranei di curiosare e ci permettono di mantenere la nostra privacy, come si dice oggi” mi spiega con un sorriso quasi timido. Raggiungiamo la veranda. E’ vero: c’è la temperatura ideale. Adagiamo Giovanna sul divano di vimini coperto di cuscini invitanti. Anche le poltrone lo sono e, per fortuna, la signora prontamente c’invita ad accomodarci. Ed è quello che facciamo. Gradirei tanto un bicchiere d’acqua. Ho la gola secca e la lingua che pare carta vetrata. Santa donna! Ma che fa? Mi legge nel pensiero? Senza che avessi proferito parola, ci porta l’acqua fresca in una caraffa posata, insieme ai bicchieri, su un vassoio coperto da un centrino di pizzo bianco. Fatto a mano direi, io non me ne intendo. Accogliamo anche l’acqua, come l’ombra e la frescura, come una benedizione. Mentre sorseggiamo rinfrescanti molecole di due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, la signora si siede con naturale compostezza e, lisciandosi il vestito sulle cosce, dopo aver fatto roteare lo sguardo su ognuno di noi ed averlo infine diretto su di me, come se si trattasse di un momento quasi solenne a lungo atteso, comincia: “In un certo senso vi aspettavo. Sapevo che sareste venuti. Magari non oggi. Voglio dire, non vi aspettavo proprio per oggi ma, è evidente, dovete essere voi”. Ci guardiamo l’un l’altro allarmati ma qualcosa d’indefinito c’impedisce perfino di fiatare. La signora, quasi lontana con le sue parole eppure così vicina con lo sguardo, prosegue: “Non mi avete ingannato. Sicuramente dovete aver inscenato la storia della gita - l’incidente no, si vede che lei soffre -” specifica, rivolgendo un cenno a Giovanna che, dimentica per un attimo del suo dolore fisico, mostra un’espressione tra lo stupito e il vagamente angosciato. “Forse l’avete fatto per non turbarmi ma non ce n’era alcun bisogno. Vi ha mandato la sorella di Alberto, che Dio l’abbia in gloria, vero? Solo lei era al corrente. Lei, oltre Alberto e me naturalmente. Ditemi, che volete sapere?” Non sono domande in realtà. La signora infatti non s’interrompe e prosegue come se nessuna risposta dovesse arrivare. Come se le sue certezze non potessero essere scalfite da smentita alcuna .
“Vado in paese a giorni alterni per fare la spesa. Non mi stracarico perché, se il tempo è buono, vado in bicicletta, non l’avreste detto vero? Così mi godo il panorama e mi tengo in forma. Sono io che bado alla casa e, da quando Alberto mi ha lasciata - che Dio l’abbia in gloria -, curo anche il giardino, i miei fiori almeno. Per i lavori più pesanti viene un uomo dal paese ogni tanto. Avete visto i miei fiori? Dovreste star qui un anno intero, anche di più”. Come in un flashback, forse inopportune, risuonano nella mia mente le rime baciate della vecchia e stranota ninna nanna, vecchia più di me sicuramente.
Ninna nanna ninna oh
Questo bimbo a chi lo do?
Lo darò alla befana
Ché lo tenga una settimana
Lo darò all’angioletto
Ché lo tenga per un mesetto
Forse, a questo punto, c’era anche un innegabilmente minaccioso “Lo darò all’uomo nero ché lo tenga un anno intero”. E infine, non saprei se benaugurante o meno,
Lo darò al buon Gesù
Ché lo tenga un anno e più!
Mi piacciono i fiori, ma ho la sensazione non tanto vaga che forse star qui un anno e più non sarebbe proprio una benedizione, come la frescura e l’ombra e l’acqua che ora non basta a placare l’indefinibile arsura interiore che mi ha assalito all’improvviso. La voce, intanto, melodiosamente prosegue la sua personale ballata. “I tulipani a Febbraio, le fresie a Marzo, e poi le rose, il glicine, i gigli, le margherite ... Sono così allegri, pieni di vita e di colore e danno un tocco di poesia alla mia vita altrimenti prosaica. No, in realtà non è una vita prosaica, non più di quanto lo sia la vita quotidiana di ciascuno di noi. In realtà, è un’esistenza semplice e serena la mia. La casa, il giardino, il paese, la parrocchia. Alla mia età mi godo i giorni che il Signore ha la bontà di concedermi.
Ieri, mentre compravo il pane, ho sentito che, non mi ricordo dove, alcuni ragazzacci hanno ucciso un gatto inerme giocandoci a palla. Non so cosa farei a certe persone. Barbari, incivili! Questa crudeltà mi spaventa, soprattutto contro chi non ha voce per difendersi. Non sono riuscita a diventare completamente vegetariana, ma solo per via della carenza di ferro. Lo sono spiritualmente, però. Ho un grande rispetto per tutte le creature di questa terra.
Come la mia Lea”. E a questo punto, ci lancia uno sguardo eloquente come se, per noi, non dovesse esserci mistero alcuno sull’esistenza o l’identità di Lea.
“Ha il suo spazio in casa e non le faccio mancare niente. Cucino apposta per lei, la lavo quando serve e pulisco dove sporca. Non è poco per una della mia età ma ci sono abituata: mi sembra che stia con me da una vita. Del resto, mi ripagano i suoi sguardi. Così dolci ed espressivi a volte! Ogni tanto pare si lamenti ma vuole solo richiamare l’attenzione e allora basta una carezza sulla testa e tutto passa. L’ho sempre curata io, come avevo fatto con mio marito a suo tempo. Ero infermiera, lo sapete già, e per questo vi ho detto che siete stati fortunati, soprattutto lei”. E, per la seconda volta, fa cenno a Giovanna, che sembra nutrire qualche perplessità sulla sua evidente fortuna. Giacomo, intanto, ha afferrato la mano di Rita, non so se per rassicurare lei o se stesso.
“Ero infermiera, dicevo, e non ho smesso di esserlo quando ho finito di lavorare alla clinica. Ho sempre avuto un buon rapporto coi miei pazienti, anzi mi adoravano. Sapevo come prenderli e dar loro quel conforto e quell’appoggio di cui sentivano il bisogno. Uno addirittura mi corteggiava. Ero giovane e bella allora. Un giorno, se capiterà, vi racconterò anche questa storia.
Come vi dicevo, Lea fa parte della mia vita da tanto tempo. E’ stata un dono divino, certo. Qualcuno di cui prendersi cura. Di più, qualcuno da amare. E’ così bello amare! E, credeteci o no, lei sa che io la amo. Certo ci sono anche brutti momenti, come quando tenta di scappare. Allora la devo legare e la lascio sola così. Non so se lei possa davvero amare, come me e voi, ma sicuramente mi vuole molto bene, e non solo perché dipende da me e quindi sente la mia mancanza. I suoi lamenti sono uno strazio ma è per il suo bene che lo faccio. A volte, lo dico sinceramente, la devo anche picchiare. Solo qualche colpetto leggero, tanto per farle capire quello che non deve fare. E’ adulta ormai ma ha ancora bisogno di educazione, d’imparare le regole della convivenza civile. Non è che io sia cattiva: è solo che un po' di severità è essenziale, lo sapete anche voi, se si vuole insegnare la disciplina. E quindi sono in pace con la mia coscienza. Del resto non ho mai avuto nulla di cui vergognarmi, io. Chiedete in giro: sono una persona rispettabile. Faccio parte anche dei gruppi di preghiera della parrocchia e non manco mai agli incontri settimanali.
Ci andavo con Alberto - pace all’anima sua - e non ho smesso di andarci quando lui non poteva più muoversi. Per il resto, siamo sempre stati gente riservata. Non per snobismo o scostanza: è solo questione di ... formazione, non saprei come altro dire. Di formazione e di stile, credo. E’ anche per questo che ci sono gli alberi e i cespugli lungo il perimetro del giardino. Ed è per questo che abbiamo sempre ricevuto poche visite, lo sapete. Solo pochi intimi e solo in certi giorni della settimana e per poche ore.
Soprattutto non volevamo che Lea si innervosisse per la presenza di estranei. E’ sempre stata timida. Quindi, molto spesso facevo sì che in quelle ore dormisse. Anche perché così i suoi versi assai poco poetici” e sorride con complicità come intimamente compiaciuta d’aver osato quella battuta, che però, nessuno di noi, forse per averla intimamente compresa, aveva trovato divertente. “Così i suoi versi, dicevo, non potevano incuriosire nessuno. Adesso poi non ci sono più neanche quelle riunioni e perciò non devo preoccuparmi di proteggere la tranquillità di Lea.
E poi, sì lo ammetto, provavo e provo ancora anche un pizzico d’imbarazzo all’idea che potessero e possano vederla.
Niente di cui vergognarmi, per carità, ma, l’avrete già capito, mia figlia non è ... normale”.
Un alito di vento corre attraverso i nostri capelli ma nessuno pare farci caso, come se il tempo si fosse fermato o fossimo finiti in una dimensione d’immutabile eternità.
L’aria si è rinfrescata ancora di più, e, in questa casa recintata, difesa da sguardi estranei come un cuore sigillato che tema di rivelare segreti a lungo celati, immobili aspettiamo che un niente ci scuota dal torpore che ci ha catturati.
Dopo alcuni istanti, o forse un giorno intero o chissà, attoniti accogliamo l’invito “Volete vederla?”. Entriamo in casa, tutti tranne Giovanna. Accarezza assorta un gatto tigrato che con pigri passi felpati l’ha raggiunta sul divano.
L’interno della casa sa d’antico, come la padrona. Saliamo le scale preceduti dalla piccola signora che, muta, ci fa strada. Vicino ad una porta socchiusa, la prima che vediamo dalle scale, mormora “Sentite? Sembra si lamenti, ma, come vi ho già detto, lo fa per attirare l’attenzione”. E, con gesto quasi teatrale, spalanca la porta dandoci la precedenza. Una zaffata d’aria asfissiante ci sorprende finchè la sorpresa si tramuta in un non so che d’indefinibile alla vista di Lea. Uno sguardo dolce e impaurito lascia repentinamente il posto a due penetranti occhi famelici. Come di un animale selvatico tenuto a lungo in cattività. Famelici non di cibo ma di vita. Pare volersi slanciare verso le scale ma qualcosa la trattiene. Dirige infine lo sguardo ai piedi del letto. E lì la piccola donna non più giovane giace immobile, prigioniera dell’eternità da non so quanto tempo.
Qualcuno lancia un urlo di spavento, ribrezzo, sbigottimento, paura, incredulità forse.
E’ Giovanna ...
Seduta a terra, la bici accanto. La fronte le brilla. Vi scintillano minuscole gocce di sudore. E non è solo per questo sole inclemente sulla testa. Una smorfia di dolore le altera i lineamenti fini del volto.
E’ tutto quello che sono riuscito a vedere. Vedo ancora i suoi occhi che impotenti ci hanno guardato pedalare veloci e sorridenti verso di lei. E verso Signora Morte che, inaspettatamente puntuale ad un appuntamento di cui eravamo ignari, ci attendeva dopo aver svoltato l’angolo.
(Alla guida dell’auto c’era una piccola donna non più giovane. Sessant’anni circa o forse più. Sedeva al suo fianco la sua unica figlia Lea, di cui tutti in paese ignoravano l’esistenza, finora. Lea si è salvata. Giovanna è ancora sotto shock. Causa del terribile incidente pare essere stato un improvviso colpo di sonno).
PROPOSTA PIU’ CHE DECENTE
Gentile Dottore,
è la prima volta che oso scrivere ad un giornale. Da anni seguo con interesse la sua rubrica nella mia rivista preferita e stimo molto, oltre che la sua innegabile professionalità, il buon senso e il calore umano che traspare dalle sue parole. Devo avvertirLa che sono un po' grafomane ma, se dovessi annoiarLa, il che accadrà sicuramente, potrà sempre leggermi a puntate. Probabilmente, non troverà il mio caso particolarmente interessante - ho letto spesso lettere di donne con problemi simili ai miei - ma sono sicura che mi dedicherà l’attenzione che solitamente riserva anche al meno clinicamente stimolante dei suoi pazienti e che mi tenderà la sua mano in aiuto.
Le fornisco i primi dati del caso.
“E che dire ancora, prima di chiudere quest’agenda che ha fatto da diario e prima di riporla insieme agli altri quaderni - diario a testimonianza e ricordo di una pallosità impietosamente scaricata sulle pagine mute che non protestano? Non lo so”.
“A cosa serve un diario se non a scaricare la pallosità e l’angoscia?! A me serve a questo. Soprattutto a questo. E infatti è un diario di pallosità e angosce. Bella la striscia di “Momma” per festeggiare il nostro settimo anniversario ...: decisamente azzeccata”. Ora Le spiego.
La striscia in questione ha per titolo “In fondo nulla di diverso”. Nella prima vignetta la “figlia di Momma” mostra sorridente uno scaffale pieno di volumi dicendo “Sette anni di diari!”. Nella seconda vignetta, è seduta a leggere, ancora sorridente, uno dei volumi, mentre altri sono impilati sul pavimento: “Quando avevo dodici anni, non facevo che scrivere della mia stupida cotta per un bambino brutto e antipatico, che preferiva dar la caccia agli scarafaggi piuttosto che uscire con me!”. Terza vignetta: lei legge ma il sorriso è scomparso dal suo volto. Quarta ed ultima vignetta: ha smesso di leggere e, con lo sguardo rivolto a noi lettori, senza sorridere e con le sopracciglia leggermente aggrottate “Almeno quelli di adesso sono un po' più grandi ...”.
Credo, dottore, che lei abbia prontamente afferrato l’essenza del mio problema. Come avrà capito, avevo festeggiato il mio settimo anniversa(dia)rio proprio con la striscia di Momma. Già, perché una delle pallosità dominanti nelle pagine che, avendo fatto mio il motto di Anna Frank “La carta è più paziente degli uomini”, continuo impietosamente a riempire, sono proprio quelli che io chiamo “Amori a perdere” “AAap”. Amori con la A maiuscola perché, per me, sono sempre grandi, complessi, tormentati, intimamente vissuti. “A perdere” perché, lei l’avrà già intuito, li vivo appunto nella mia intimità. In realtà non sono facile alle cotte, ma, quando capita, sono solo parole e pensieri. Sì. Elucubrazioni cerebrali, masturbazioni mentali (perché, i militanti del movimento per la consapevolezza delle vie verso il piacere femminile e le femministe emancipate e “La ragazza di nome Giulio” e la protagonista di “Lettere a Marina” e compagne mi perdoneranno, in quanto a masturbazioni fisiche, sono decisamente negata). Dicevo, le mie cotte sono solo ossessioni deprimenti alla lunga.
Cominciamo con Clodoveo (non era certo il suo vero nome, ma mi prendo la libertà di affibbiargliene uno brutto quanto basta). Non è stato il primo e, dopo averlo definitivamente archiviato nel dimenticatoio, lo riesumo per l’occasione solo per darLe l’idea di cosa riesco a scrivere quando mi sento “in amore”.
Ho poca voglia di leggere
E non molta di scrivere
Ho visto il mio lui dalla finestra
Ma non è venuto qui
O non era lui?
Vorrei e non vorrei...
A qualche minuto dalle undici della sera
Seduta sul letto
Con la radio accesa
Dopo le operazioni notturne
Aspetto il mio amante
Il mio amante che non verrà
Cremina e speranza
Illusione e lievito
...
Qual’è il mio attimo fuggente?
Innalzerò la vela per cogliere i venti del destino?
O appassiranno le rose della vita prima che l’abbia colte?
Orazio, Masters, Ronsard
E tutti voi
Lasciatemi vaneggiare
Nell’attesa di un’illusione.
Ascolterò la radio
Aspettando
E mi addormenterò
Sperando
Che qui non facciano casotto
Ed io
Riesca ad averti
Almeno nel sogno.
Sicuramente, gli esperti estimatori di bei versi penseranno che, visto quello che scrivo, sarebbe meglio per me non cadere in amore. Ma è la prima volta che rendo note alcune delle mie “elucubrazioni cerebrali” ad una terza persona. E lo faccio proprio perché Lei capisca appieno la gravità del mio caso.
Non so se quella notte di tanti anni fa avessi avuto Clodoveo in sogno. Suppongo di no.
Come Le ho detto, Clodoveo non è stato il primo. E nemmeno l’ultimo, questo è ovvio. Si sono susseguiti altri AAap, magari non numerosissimi ma tutti pietosamente unilaterali. A dire il vero, ho spesso avuto l’illusione che non lo fossero, che fossero pienamente corrisposti, ma appunto si trattava di illusioni. Ne sono consapevole. E presa com’ero da questi (rubacchio le parole a Erica Jong) impossibili lui che vivevano dentro di me, non volgevo lo sguardo verso i vari possibilissimi “lui” che avevo vicino.
Arrivo a Terenzio (anche in questo caso ricorro al nome fittizio che mi aggrada). Anche lui non è l’ultimo ma è recente abbastanza da poterLe fornire elementi utili per la configurazione di un quadro clinico aggiornato.
“E poi forse devo stare un po' male per scrivere. Non per niente ho ripreso in mano l’agenda per comunicare la partenza di Terenzio. Per non diventar scema penso a tutte le nuove possibilità d’incontro che ho qui (già la sera in cui lui è partito Omissis); penso che il tempo è un gran consolatore e che si sopravvive a tutte le partenze, le lontananze etc; penso che ha la ragazza, che ha la sua vita, penso che non pensa a me ... Omissis Già, penso (è una bugia) a queste cose. Mi dico di pensare a queste cose. E quando son con gli altri sono in uno stato di contentezza artificiale per non pensare a lui. La verità è che sogno tanto ad occhi aperti, e ad occhi chiusi. Anche stanotte mi son svegliata pensando a lui. Ma è vero. Il tempo passa e altre cose succedono. Omissis Ho desiderato, desidero l’uomo altrui. La ragazza potrebbe (l’ho pensato) anche averlo lasciato. Naturalmente non sarà così e staranno godendosela ma l’ho pensato. Ora piove. Non penso, cerco di non pensare: che per quante nuove persone possa incontrare, per quanto carine, simpatiche, piacevoli etc. non saranno lui (potrebbero anche essere meglio ma non saranno lui); che il tempo passa e il ricordo diventa evanescente ma che è un dolore (forse salutare, forse vitale) questo stesso sbiadirsi; che, cavolo, mi è piaciuto ballare con lui, sentire la sua coscia, la sua spalla, la sua mano etc. etc. Lo sai, non sono facile alle attrazioni ... Avevo ballato anche con Gesualdo, tempo fa, e per quanto sia muscoloso e abbia cosce, spalle, mani ... nessuna particolare sensazione nel contatto. Non ci dovevo pensare. Sono lacrime adesso. Omissis Tirando le somme: 1) lui non c’è; 2) lui ha la ragazza; 3) tu sei la solita stupida. Anche se non è proprio la solita stupidità. Stop”.
Dottore avrà notato, spero, qualche piccolo ma non insignificante progresso rispetto alla storia con Clodoveo. Intanto, sicuramente avevo sognato, ad occhi chiusi, Terenzio. Ed è probabile che fossi riuscita ad averlo, a conoscerlo in senso biblico intendo. Clodoveo, nemmeno lo conoscevo. Solo di vista e poco più (“Ciao” “Ciao”). Con Terenzio, invece, avevo persino ballato coscia a coscia! (A proposito, ci tengo a precisare che Gesualdo non è mai stato un “Aap” - e nemmeno a vincere -, insomma non è mai stato una mia cotta). Sono anche rimasta in contatto con Terenzio, che non era solo un esemplare della mia particolare collezione, era soprattutto un caro inaspettato amico. Ma, per colpa di uno stupido malinteso, io stessa avevo interrotto la nostra celeste corrispondenza (perché, mi perdoni Foscolo, la “corrispondenza” tra amici è sempre celeste). Insomma, nel caso di Terenzio, non era stato un “impossibile lui dentro di me” ad accendermi d’amore.
Come Le ho detto, Terenzio non è stato l’ultimo. Dopo di lui sono venuti Gilberto e, roba passeggera, Romualdo.
Arrivo adesso alla situazione attuale. Desolata d’averLa annoiata finora.
Purtroppo, non c’è nessun colpo di scena.
Il quadro clinico si presenta, nel complesso, assai simile a quello degli altri “AAap”.
Peggio, c’è stato un regresso rispetto al “caso Terenzio” e, peggio ancora, anche rispetto al “caso Clodoveo”. Con Terenzio avevo ballato ed ero rimasta in contatto, a Clodoveo almeno avevo la possibilità di dire “Ciao” ma, in questo caso, non ho finora avuto nemmeno l’opportunità d’incontrare personalmente il mio impossibile lui. E’ quello che si dice un uomo maturo che, fortunatamente, non ha ancora fatto ricorso alla chirurgia estetica per attenuare i segni del tempo sul suo viso. E’ una persona affascinante, che infonde sicurezza e trasuda affidabilità. E’ un uomo che, non lo nego, infiamma le mie fantasie sessuali e, benché non lo abbia mai nemmeno sfiorato, sono riuscita a conoscerlo in senso biblico, in sogno s’intende. Ormai è diventato padrone dei miei pensieri, ha preso possesso della mia mente: vi si intrufola anche nei momenti più impensabili. Ho provato ad archiviarlo ma senza successo finché, leggendo un Autore a me caro, ho scoperto che, non sono le sue testuali parole, gli uomini spesso vanno a letto con le donne per poterle dimenticare. E allora ho cominciato a pensare ... Perché no? Perché non dovrebbe funzionare anche nel caso delle donne affette da sindrome da “AAap”? Perché non nel mio caso?
E così ho deciso di scriverLe. Non Le chiedo soltanto un parere professionale sulle mie paranoie sentimentali. Le chiedo di più. Le chiedo di curarmi. ...
Sì, ha capito bene. E’ Lei il mio impossibile lui del momento. E’ Lei che sogno. Lei che bramo avere. Lei che non mi dà pace. Solo Lei può guarirmi dal mio male.
La cura è semplice. E’ quella che ho suggerito poche righe fa. Sono sicura che anche Lei concorderà con me: è una buona idea, la mia, ne conviene?, è una proposta più che decente. E non solo: è una buona strategia terapeutica. Non posso dirLe preventivamente quanto lungo dovrà essere il trattamento ma, si sa, in questi casi non ci si può aspettare una guarigione immediata. Come Lei m’insegna, psicanalisi docet! Naturalmente, poiché so che di gratificazioni professionali (e Le assicuro che, in questo caso, Lei si sentirebbe professionalmente, e non solo, gratificato) non si campa, sarebbe Lei a stabilire il suo onorario.
Per me sarebbe un investimento. Sul mio equilibrio, sulla mia salute mentale prima di tutto.
Mi spiace di non aver trovato, nella mia raccolta di cartine di cioccolatini, due versi di Shakespeare che avrei tanto voluto dedicarLe. Rimedierò al più presto.
Nel frattempo, La ringrazio di cuore per la pazienza con cui mi ha seguito e per il tempo che mi ha voluto dedicare. Confidando nella Sua disponibilità ad un incontro a due, La saluto affettuosamente
Sua
Genoveffa
(Naturalmente non è il nome che i miei genitori mi hanno dato, ma è quello che Lei potrebbe appiopparmi nel caso in cui anche Lei soffrisse di sindrome da Aap. A proposito, colpisce anche gli uomini? Non credo).
Il numero al quale può contattarmi è il seguente: 0101 - 100101.
Gentile Dottore,
è la prima volta che oso scrivere ad un giornale. Da anni seguo con interesse la sua rubrica nella mia rivista preferita e stimo molto, oltre che la sua innegabile professionalità, il buon senso e il calore umano che traspare dalle sue parole. Devo avvertirLa che sono un po' grafomane ma, se dovessi annoiarLa, il che accadrà sicuramente, potrà sempre leggermi a puntate. Probabilmente, non troverà il mio caso particolarmente interessante - ho letto spesso lettere di donne con problemi simili ai miei - ma sono sicura che mi dedicherà l’attenzione che solitamente riserva anche al meno clinicamente stimolante dei suoi pazienti e che mi tenderà la sua mano in aiuto.
Le fornisco i primi dati del caso.
“E che dire ancora, prima di chiudere quest’agenda che ha fatto da diario e prima di riporla insieme agli altri quaderni - diario a testimonianza e ricordo di una pallosità impietosamente scaricata sulle pagine mute che non protestano? Non lo so”.
“A cosa serve un diario se non a scaricare la pallosità e l’angoscia?! A me serve a questo. Soprattutto a questo. E infatti è un diario di pallosità e angosce. Bella la striscia di “Momma” per festeggiare il nostro settimo anniversario ...: decisamente azzeccata”. Ora Le spiego.
La striscia in questione ha per titolo “In fondo nulla di diverso”. Nella prima vignetta la “figlia di Momma” mostra sorridente uno scaffale pieno di volumi dicendo “Sette anni di diari!”. Nella seconda vignetta, è seduta a leggere, ancora sorridente, uno dei volumi, mentre altri sono impilati sul pavimento: “Quando avevo dodici anni, non facevo che scrivere della mia stupida cotta per un bambino brutto e antipatico, che preferiva dar la caccia agli scarafaggi piuttosto che uscire con me!”. Terza vignetta: lei legge ma il sorriso è scomparso dal suo volto. Quarta ed ultima vignetta: ha smesso di leggere e, con lo sguardo rivolto a noi lettori, senza sorridere e con le sopracciglia leggermente aggrottate “Almeno quelli di adesso sono un po' più grandi ...”.
Credo, dottore, che lei abbia prontamente afferrato l’essenza del mio problema. Come avrà capito, avevo festeggiato il mio settimo anniversa(dia)rio proprio con la striscia di Momma. Già, perché una delle pallosità dominanti nelle pagine che, avendo fatto mio il motto di Anna Frank “La carta è più paziente degli uomini”, continuo impietosamente a riempire, sono proprio quelli che io chiamo “Amori a perdere” “AAap”. Amori con la A maiuscola perché, per me, sono sempre grandi, complessi, tormentati, intimamente vissuti. “A perdere” perché, lei l’avrà già intuito, li vivo appunto nella mia intimità. In realtà non sono facile alle cotte, ma, quando capita, sono solo parole e pensieri. Sì. Elucubrazioni cerebrali, masturbazioni mentali (perché, i militanti del movimento per la consapevolezza delle vie verso il piacere femminile e le femministe emancipate e “La ragazza di nome Giulio” e la protagonista di “Lettere a Marina” e compagne mi perdoneranno, in quanto a masturbazioni fisiche, sono decisamente negata). Dicevo, le mie cotte sono solo ossessioni deprimenti alla lunga.
Cominciamo con Clodoveo (non era certo il suo vero nome, ma mi prendo la libertà di affibbiargliene uno brutto quanto basta). Non è stato il primo e, dopo averlo definitivamente archiviato nel dimenticatoio, lo riesumo per l’occasione solo per darLe l’idea di cosa riesco a scrivere quando mi sento “in amore”.
Ho poca voglia di leggere
E non molta di scrivere
Ho visto il mio lui dalla finestra
Ma non è venuto qui
O non era lui?
Vorrei e non vorrei...
A qualche minuto dalle undici della sera
Seduta sul letto
Con la radio accesa
Dopo le operazioni notturne
Aspetto il mio amante
Il mio amante che non verrà
Cremina e speranza
Illusione e lievito
...
Qual’è il mio attimo fuggente?
Innalzerò la vela per cogliere i venti del destino?
O appassiranno le rose della vita prima che l’abbia colte?
Orazio, Masters, Ronsard
E tutti voi
Lasciatemi vaneggiare
Nell’attesa di un’illusione.
Ascolterò la radio
Aspettando
E mi addormenterò
Sperando
Che qui non facciano casotto
Ed io
Riesca ad averti
Almeno nel sogno.
Sicuramente, gli esperti estimatori di bei versi penseranno che, visto quello che scrivo, sarebbe meglio per me non cadere in amore. Ma è la prima volta che rendo note alcune delle mie “elucubrazioni cerebrali” ad una terza persona. E lo faccio proprio perché Lei capisca appieno la gravità del mio caso.
Non so se quella notte di tanti anni fa avessi avuto Clodoveo in sogno. Suppongo di no.
Come Le ho detto, Clodoveo non è stato il primo. E nemmeno l’ultimo, questo è ovvio. Si sono susseguiti altri AAap, magari non numerosissimi ma tutti pietosamente unilaterali. A dire il vero, ho spesso avuto l’illusione che non lo fossero, che fossero pienamente corrisposti, ma appunto si trattava di illusioni. Ne sono consapevole. E presa com’ero da questi (rubacchio le parole a Erica Jong) impossibili lui che vivevano dentro di me, non volgevo lo sguardo verso i vari possibilissimi “lui” che avevo vicino.
Arrivo a Terenzio (anche in questo caso ricorro al nome fittizio che mi aggrada). Anche lui non è l’ultimo ma è recente abbastanza da poterLe fornire elementi utili per la configurazione di un quadro clinico aggiornato.
“E poi forse devo stare un po' male per scrivere. Non per niente ho ripreso in mano l’agenda per comunicare la partenza di Terenzio. Per non diventar scema penso a tutte le nuove possibilità d’incontro che ho qui (già la sera in cui lui è partito Omissis); penso che il tempo è un gran consolatore e che si sopravvive a tutte le partenze, le lontananze etc; penso che ha la ragazza, che ha la sua vita, penso che non pensa a me ... Omissis Già, penso (è una bugia) a queste cose. Mi dico di pensare a queste cose. E quando son con gli altri sono in uno stato di contentezza artificiale per non pensare a lui. La verità è che sogno tanto ad occhi aperti, e ad occhi chiusi. Anche stanotte mi son svegliata pensando a lui. Ma è vero. Il tempo passa e altre cose succedono. Omissis Ho desiderato, desidero l’uomo altrui. La ragazza potrebbe (l’ho pensato) anche averlo lasciato. Naturalmente non sarà così e staranno godendosela ma l’ho pensato. Ora piove. Non penso, cerco di non pensare: che per quante nuove persone possa incontrare, per quanto carine, simpatiche, piacevoli etc. non saranno lui (potrebbero anche essere meglio ma non saranno lui); che il tempo passa e il ricordo diventa evanescente ma che è un dolore (forse salutare, forse vitale) questo stesso sbiadirsi; che, cavolo, mi è piaciuto ballare con lui, sentire la sua coscia, la sua spalla, la sua mano etc. etc. Lo sai, non sono facile alle attrazioni ... Avevo ballato anche con Gesualdo, tempo fa, e per quanto sia muscoloso e abbia cosce, spalle, mani ... nessuna particolare sensazione nel contatto. Non ci dovevo pensare. Sono lacrime adesso. Omissis Tirando le somme: 1) lui non c’è; 2) lui ha la ragazza; 3) tu sei la solita stupida. Anche se non è proprio la solita stupidità. Stop”.
Dottore avrà notato, spero, qualche piccolo ma non insignificante progresso rispetto alla storia con Clodoveo. Intanto, sicuramente avevo sognato, ad occhi chiusi, Terenzio. Ed è probabile che fossi riuscita ad averlo, a conoscerlo in senso biblico intendo. Clodoveo, nemmeno lo conoscevo. Solo di vista e poco più (“Ciao” “Ciao”). Con Terenzio, invece, avevo persino ballato coscia a coscia! (A proposito, ci tengo a precisare che Gesualdo non è mai stato un “Aap” - e nemmeno a vincere -, insomma non è mai stato una mia cotta). Sono anche rimasta in contatto con Terenzio, che non era solo un esemplare della mia particolare collezione, era soprattutto un caro inaspettato amico. Ma, per colpa di uno stupido malinteso, io stessa avevo interrotto la nostra celeste corrispondenza (perché, mi perdoni Foscolo, la “corrispondenza” tra amici è sempre celeste). Insomma, nel caso di Terenzio, non era stato un “impossibile lui dentro di me” ad accendermi d’amore.
Come Le ho detto, Terenzio non è stato l’ultimo. Dopo di lui sono venuti Gilberto e, roba passeggera, Romualdo.
Arrivo adesso alla situazione attuale. Desolata d’averLa annoiata finora.
Purtroppo, non c’è nessun colpo di scena.
Il quadro clinico si presenta, nel complesso, assai simile a quello degli altri “AAap”.
Peggio, c’è stato un regresso rispetto al “caso Terenzio” e, peggio ancora, anche rispetto al “caso Clodoveo”. Con Terenzio avevo ballato ed ero rimasta in contatto, a Clodoveo almeno avevo la possibilità di dire “Ciao” ma, in questo caso, non ho finora avuto nemmeno l’opportunità d’incontrare personalmente il mio impossibile lui. E’ quello che si dice un uomo maturo che, fortunatamente, non ha ancora fatto ricorso alla chirurgia estetica per attenuare i segni del tempo sul suo viso. E’ una persona affascinante, che infonde sicurezza e trasuda affidabilità. E’ un uomo che, non lo nego, infiamma le mie fantasie sessuali e, benché non lo abbia mai nemmeno sfiorato, sono riuscita a conoscerlo in senso biblico, in sogno s’intende. Ormai è diventato padrone dei miei pensieri, ha preso possesso della mia mente: vi si intrufola anche nei momenti più impensabili. Ho provato ad archiviarlo ma senza successo finché, leggendo un Autore a me caro, ho scoperto che, non sono le sue testuali parole, gli uomini spesso vanno a letto con le donne per poterle dimenticare. E allora ho cominciato a pensare ... Perché no? Perché non dovrebbe funzionare anche nel caso delle donne affette da sindrome da “AAap”? Perché non nel mio caso?
E così ho deciso di scriverLe. Non Le chiedo soltanto un parere professionale sulle mie paranoie sentimentali. Le chiedo di più. Le chiedo di curarmi. ...
Sì, ha capito bene. E’ Lei il mio impossibile lui del momento. E’ Lei che sogno. Lei che bramo avere. Lei che non mi dà pace. Solo Lei può guarirmi dal mio male.
La cura è semplice. E’ quella che ho suggerito poche righe fa. Sono sicura che anche Lei concorderà con me: è una buona idea, la mia, ne conviene?, è una proposta più che decente. E non solo: è una buona strategia terapeutica. Non posso dirLe preventivamente quanto lungo dovrà essere il trattamento ma, si sa, in questi casi non ci si può aspettare una guarigione immediata. Come Lei m’insegna, psicanalisi docet! Naturalmente, poiché so che di gratificazioni professionali (e Le assicuro che, in questo caso, Lei si sentirebbe professionalmente, e non solo, gratificato) non si campa, sarebbe Lei a stabilire il suo onorario.
Per me sarebbe un investimento. Sul mio equilibrio, sulla mia salute mentale prima di tutto.
Mi spiace di non aver trovato, nella mia raccolta di cartine di cioccolatini, due versi di Shakespeare che avrei tanto voluto dedicarLe. Rimedierò al più presto.
Nel frattempo, La ringrazio di cuore per la pazienza con cui mi ha seguito e per il tempo che mi ha voluto dedicare. Confidando nella Sua disponibilità ad un incontro a due, La saluto affettuosamente
Sua
Genoveffa
(Naturalmente non è il nome che i miei genitori mi hanno dato, ma è quello che Lei potrebbe appiopparmi nel caso in cui anche Lei soffrisse di sindrome da Aap. A proposito, colpisce anche gli uomini? Non credo).
Il numero al quale può contattarmi è il seguente: 0101 - 100101.
QUANDO LE PAROLE NON BASTANO
“Chi allora,” ella continua “racconta una storia ancora più bella delle nostre? Il silenzio. E dove si legge una storia più profonda di quelle scritte sulla pagina più squisitamente stampata del più prezioso di tutti i libri? Sulla pagina bianca.”
Da La pagina bianca, Karen Blixen.
AVVERTENZA: quanto segue è solo una prova. E’ il primo tentativo di trasmissione di messaggi informazionali, elaborati in assenza di supporti materiali neurofisiologici o d’altra sorta, convertiti in messaggi informazionali espressi in linguaggio verbale umanamente comprensibile. Speriamo che il tentativo riesca. S’intende che, trattandosi di una prova “tecnica”, è ovvio che il contenuto del messaggio è di per sé ininfluente.
Mi sono giunte le sue parole, il suo messaggio più che le parole. Il contenuto, il significato che qui, in questo mondo, giunge svincolato dalle parole, siano esse proferite verbalmente o scritte o anche solo pensate.
Riferisce Borges (l’ho conosciuto qui ed è stato lui a suggerirmi di effettuare questo tentativo) lo stupore di Sant’Agostino nel vedere Sant’Ambrogio che leggeva tacitamente, risalendo dalle parole scritte direttamente ai loro significati senza pronunciarle a voce alta come allora si usava fare. E’ a quell’ episodio che Borges fa risalire la nascita dell’“arte di leggere silenziosamente”.
Dove vivo io non occorre il linguaggio verbale per comunicare, così come accade sulla Terra. Ma non occorrono nemmeno i contenuti mentali elaborati dal cervello così come accade tra chi ritiene di poter comunicare per telepatia. Vi è oggi chi, nel vostro mondo, crede che senza il cervello, senza neuroni e sinapsi, non possano esserci menti, contenuti mentali, come intenzioni, desideri, volontà, sentimenti, sensazioni e tutto quell’universo di sogni, illusioni, emozioni, nevrosi, follie che vengono ora poste in rapporto al cervello come la digestione è posta in rapporto allo stomaco. Né più né meno. Pure questioni chimico-biologiche. Meravigliose, oscure questioni chimico-biologiche. C’è chi, tra voi, è arrivato a pensare che quello che fanno i cervelli possano farlo anche i calcolatori elettronici, e non solo. Per esempio, che un termostato possa avere “credenze”, tre per essere precisi: qui fa troppo caldo, qui fa troppo freddo, qui va proprio bene. Potrei dire che si tratta di ipotesi, per qualcuno certezze, inquietanti. Potrei, ma qui non avrebbe alcun senso. Non proviamo niente di simile all’inquietudine o alla preoccupazione o al tormento. Viviamo in una dimensione di completo “appagamento”, di “pienezza” in cui niente manca, nessuno è manchevole. Dimensione che solo approssimativamente può essere paragonata ai labili istanti di felicità che sono concessi agli umani.
Il suo messaggio non è stato lanciato in uno di questi labili istanti. Tutt’altro. Si trattava di interminabili momenti di tristezza. E’ comprensibile del resto. La morte, tanto più se in circostanze tragiche, è, per quanto paradossale possa apparire, un evento della vita che gli umani ancora stentano ad accettare. Forse perché non la comprendono. Ma anche questa umana incomprensibilità
è comprensibile. Lo è ora. Lo è qui. Anch’io ho avuto la mia esistenza terrestre e, come tante esistenze terrestri, è terminata prematuramente, come comunemente si usa dire.
Trascrivo per voi il suo messaggio:
“E’ morto (ometto il mio nome terrestre), per un colpo di pistola accidentalmente sparatogli da (ometto anche quest’altro nome terrestre) il suo migliore amico. Le asettiche, e anche contrastanti e poco veritiere, notizie di vari TG e quotidiani ... e le chiacchiere ... e le telefonate bla bla bla ... e le lacrime e i singhiozzi. Le parole, i pettegolezzi, i ricordi ... ... Bastano le parole a parlare dello strazio di un’anima, della fine della vita di un ragazzo che muore dissanguato nella casa dell’amico che se lo vede davanti, con gli occhi che dicono ... cosa? Cosa dicono gli occhi di un ragazzo che muore per un colpo di pistola sparatogli dall’amico che preme il grilletto per gioco? Gioco imprudente e mortale. E cosa resta nel cuore di un ragazzo che uccide chi era entrato nel suo cuore? E che voci restano in una casa che la Morte aveva già inesorabilmente visitato? E che resta nel cuore dei familiari di chi ha sparato? E cosa nel cuore dei familiari di chi è stato ucciso? ... Le parole non bastano. Le parole non dicono niente, soprattutto se sono le parole asettiche, imprecise, fallaci e in fondo anche bugiarde dei TG vari e del giornale. E quante altre volte le parole dei TG e dei giornali sono state asettiche, imprecise, fallaci, bugiarde? Quante volte ci hanno detto false verità, cioè menzogne?
Per chi suona la campana?
Ricopio nuovamente le parole di Meryl Streep il cui primo fidanzato, mi pare, era morto di cancro: ‘La vita è un privilegio del quale a volte ci si vergogna, e solamente se rimani a costruire qualcosa e a dare amore puoi fartelo perdonare da chi ti lascia’.
Non la tua, ma la morte degli altri devi avere come metro per valutare le tue disgrazie ... e allora per lo meno ti accorgi che le tue angosce umane-troppo-umane non devono prendere il sopravvento e che gli attimi della tua esistenza vanno vissuti e non lasciati passare e che l’uomo è ben più di una faccia o una facciata ... e che per amare non devi aspettare la morte. Parole ... Non ho altro. Ciao!”
Questo era il suo messaggio. Non era diretto a me, lo so. Era diretto a se stessa. E anche lei lo sapeva. Non avevo potuto far niente per alleviare la sua sensazione d’angoscia. Né trasmetterle parole, né contenuti mentali. Non perché ci sia assolutamente impossibile comunicare da qui col mondo terrestre, con la dimensione degli umani. Solo perché gli umani possono normalmente percepire solo parole, dette o scritte. O altri segni comunque sensorialmente captabili. Hanno cioè bisogno di un substrato materiale perché i messaggi possano essere percepiti dai loro sensi e poi trasmessi a quell’ammasso di neuroni che è il cervello. Alcuni umani ritengono di poter trasmettere i contenuti mentali senza parole, telepaticamente appunto, ma questo non accade di sovente. In ogni caso, come vi ho già detto, in questa dimensione la comunicazione non avviene in nessuno dei di questi due modi. E perciò, anche volendo, non avrei potuto trasmettere un messaggio da lei percepibile e comprensibile.
Ma il suo è arrivato fin qui. Non vi appaia strano. Qui giungono tutti i contenuti mentali dell’universo. Qui sono arrivati i desideri e gli stupori dell’uomo geneticamente più giovane sulla Terra, il primo, e qui arriveranno le paure di quello geneticamente più vecchio, l’ultimo. Qui c’è la Bibbia come Topolino, l’Odissea come Ventimila leghe sotto i mari, Cenerentola come Justine, il triangolo isoscele come il tramonto sul mare in data x nel luogo y contemplato da un bambino Z e da suo padre, sua madre e suo fratello, qui ci sono le follie concepite da Hitler come il Chiaro di luna di Beethoven, la Gioconda come i disegni dei bambini dell’asilo, Beatrice come il Gatto con gli stivali, il Discobolo come i monumenti ai caduti ... Qui ci sono anche le parole asettiche, imprecise, fallaci e in fondo anche bugiarde dei TG e dei giornali come le parole di Meryl Streep ... C’è il gusto del cioccolato fondente assaporato dalla figlia dell’operaia che vive in Via Porpora, 3 a Milano come gli orgasmi dei coniugi Rossi che vivono al N° 4 di via Verdi a Milano, ci son le nausee della Sig.ra Bianchi, coniugata Vadilonga, che tra otto mesi darà alla luce due gemelli, come ci son i solletichi e le smorfie che le cuginette Villa si scambiano a vicenda. Desideri, sogni, gioie, speranze, incubi, ansie, amori, grattacapi ... Insomma anche tutte le banalità, le quotidianità, le insensatezze che sono stati, che sono e che saranno i contatti neuronali, banali, quotidiani, insensati della totalità degli umani sono qui. E tutti questi contenuti mentali son qui non solo nella loro formulazione originaria ma anche nella forma di pensieri pensati da infinità di cervelli che l’hanno fatto. E non è detto che siano solo cervelli umani ...
Naturalmente, ciascuno di noi, di noi ex-individui umani, è partecipe di tutto questo. Lo so, solo l’idea può dar la vertigine ad un ammasso di neuroni umani normalmente funzionante. Ma forse, in questo modo, potrete avere una, sebbene imprecisa, idea di come sia la nostra dimensione. Qualcuno pensa che l’eternità, perché noi viviamo nell’eternità, sia una dimensione atemporale. Ma non è esatto dire che nell’eternità non ci sia il tempo. Ci sono tutte le dimensioni temporali concepibili: per gli umani, tutti gli ieri, gli oggi, i domani. Anche questo potrebbe dare la vertigine a un cervello di media portata, anche a uno di portata superiore alla media, anche a uno che sfrutti le sue potenzialità al cento per cento. Il che, non posso anticiparvi niente, forse un giorno lontano potrebbe anche accadere.
Sono qui, è chiaro, anche tutti i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue angosce ... tutte le sue parole che hanno dato voce ai processi “simil-digestivi” propri del suo cervello.
Ho sempre saputo che avrebbe davvero cercato di vivere tutti gli istanti della sua vita. Della sua vita mortale. Ora non ho più bisogno di cercare di placare le sue angosce perché qui non sarà tormentata da angosce, per quanti pensieri angoscianti possano esserci, non sarà incupita da delusioni per quante esperienze deludenti possano esserci, non sarà amareggiata da insuccessi e sconfitte per quanti pensieri amari possano esserci. Ora è gia partecipe dell’immensità di cui tutti siamo partecipi qui. E ora potrà anche sapere cosa dicono gli occhi di un ragazzo che muore per un colpo di pistola sparatogli dall’amico che preme il grilletto per gioco. Saprà cosa resta nel cuore di un ragazzo che uccide chi era entrato nel suo cuore. Che voci restano in una casa che la Morte aveva già inesorabilmente visitato. Che resta nel cuore dei familiari di chi ha sparato. E cosa nel cuore dei familiari di chi è stato ucciso. E scoprirà se le parole bastano a parlare dello strazio di un’anima, della fine della vita di un ragazzo ...
Naturalmente, quasi mi dimenticavo, qui non ci sono solo contenuti mentali. Non ci sono soltanto infinità di esperienze, sensazioni, sentimenti, impressioni, credenze, ragionamenti, follie e quant’altro avviene grazie alle cellule grigie funzionanti di chiunque, sulla Terra, ne sia dotato.
C’è molto di più. C’è l’Inimmaginabile. L’Ineffabile, l’Umanamente Inafferrabile, l’Incommensurabile. E allora, capirete, le parole non bastano. Resta solo la pagina bianca. Il silenzio. E forse neanche quello basta.
“Chi allora,” ella continua “racconta una storia ancora più bella delle nostre? Il silenzio. E dove si legge una storia più profonda di quelle scritte sulla pagina più squisitamente stampata del più prezioso di tutti i libri? Sulla pagina bianca.”
Da La pagina bianca, Karen Blixen.
AVVERTENZA: quanto segue è solo una prova. E’ il primo tentativo di trasmissione di messaggi informazionali, elaborati in assenza di supporti materiali neurofisiologici o d’altra sorta, convertiti in messaggi informazionali espressi in linguaggio verbale umanamente comprensibile. Speriamo che il tentativo riesca. S’intende che, trattandosi di una prova “tecnica”, è ovvio che il contenuto del messaggio è di per sé ininfluente.
Mi sono giunte le sue parole, il suo messaggio più che le parole. Il contenuto, il significato che qui, in questo mondo, giunge svincolato dalle parole, siano esse proferite verbalmente o scritte o anche solo pensate.
Riferisce Borges (l’ho conosciuto qui ed è stato lui a suggerirmi di effettuare questo tentativo) lo stupore di Sant’Agostino nel vedere Sant’Ambrogio che leggeva tacitamente, risalendo dalle parole scritte direttamente ai loro significati senza pronunciarle a voce alta come allora si usava fare. E’ a quell’ episodio che Borges fa risalire la nascita dell’“arte di leggere silenziosamente”.
Dove vivo io non occorre il linguaggio verbale per comunicare, così come accade sulla Terra. Ma non occorrono nemmeno i contenuti mentali elaborati dal cervello così come accade tra chi ritiene di poter comunicare per telepatia. Vi è oggi chi, nel vostro mondo, crede che senza il cervello, senza neuroni e sinapsi, non possano esserci menti, contenuti mentali, come intenzioni, desideri, volontà, sentimenti, sensazioni e tutto quell’universo di sogni, illusioni, emozioni, nevrosi, follie che vengono ora poste in rapporto al cervello come la digestione è posta in rapporto allo stomaco. Né più né meno. Pure questioni chimico-biologiche. Meravigliose, oscure questioni chimico-biologiche. C’è chi, tra voi, è arrivato a pensare che quello che fanno i cervelli possano farlo anche i calcolatori elettronici, e non solo. Per esempio, che un termostato possa avere “credenze”, tre per essere precisi: qui fa troppo caldo, qui fa troppo freddo, qui va proprio bene. Potrei dire che si tratta di ipotesi, per qualcuno certezze, inquietanti. Potrei, ma qui non avrebbe alcun senso. Non proviamo niente di simile all’inquietudine o alla preoccupazione o al tormento. Viviamo in una dimensione di completo “appagamento”, di “pienezza” in cui niente manca, nessuno è manchevole. Dimensione che solo approssimativamente può essere paragonata ai labili istanti di felicità che sono concessi agli umani.
Il suo messaggio non è stato lanciato in uno di questi labili istanti. Tutt’altro. Si trattava di interminabili momenti di tristezza. E’ comprensibile del resto. La morte, tanto più se in circostanze tragiche, è, per quanto paradossale possa apparire, un evento della vita che gli umani ancora stentano ad accettare. Forse perché non la comprendono. Ma anche questa umana incomprensibilità
è comprensibile. Lo è ora. Lo è qui. Anch’io ho avuto la mia esistenza terrestre e, come tante esistenze terrestri, è terminata prematuramente, come comunemente si usa dire.
Trascrivo per voi il suo messaggio:
“E’ morto (ometto il mio nome terrestre), per un colpo di pistola accidentalmente sparatogli da (ometto anche quest’altro nome terrestre) il suo migliore amico. Le asettiche, e anche contrastanti e poco veritiere, notizie di vari TG e quotidiani ... e le chiacchiere ... e le telefonate bla bla bla ... e le lacrime e i singhiozzi. Le parole, i pettegolezzi, i ricordi ... ... Bastano le parole a parlare dello strazio di un’anima, della fine della vita di un ragazzo che muore dissanguato nella casa dell’amico che se lo vede davanti, con gli occhi che dicono ... cosa? Cosa dicono gli occhi di un ragazzo che muore per un colpo di pistola sparatogli dall’amico che preme il grilletto per gioco? Gioco imprudente e mortale. E cosa resta nel cuore di un ragazzo che uccide chi era entrato nel suo cuore? E che voci restano in una casa che la Morte aveva già inesorabilmente visitato? E che resta nel cuore dei familiari di chi ha sparato? E cosa nel cuore dei familiari di chi è stato ucciso? ... Le parole non bastano. Le parole non dicono niente, soprattutto se sono le parole asettiche, imprecise, fallaci e in fondo anche bugiarde dei TG vari e del giornale. E quante altre volte le parole dei TG e dei giornali sono state asettiche, imprecise, fallaci, bugiarde? Quante volte ci hanno detto false verità, cioè menzogne?
Per chi suona la campana?
Ricopio nuovamente le parole di Meryl Streep il cui primo fidanzato, mi pare, era morto di cancro: ‘La vita è un privilegio del quale a volte ci si vergogna, e solamente se rimani a costruire qualcosa e a dare amore puoi fartelo perdonare da chi ti lascia’.
Non la tua, ma la morte degli altri devi avere come metro per valutare le tue disgrazie ... e allora per lo meno ti accorgi che le tue angosce umane-troppo-umane non devono prendere il sopravvento e che gli attimi della tua esistenza vanno vissuti e non lasciati passare e che l’uomo è ben più di una faccia o una facciata ... e che per amare non devi aspettare la morte. Parole ... Non ho altro. Ciao!”
Questo era il suo messaggio. Non era diretto a me, lo so. Era diretto a se stessa. E anche lei lo sapeva. Non avevo potuto far niente per alleviare la sua sensazione d’angoscia. Né trasmetterle parole, né contenuti mentali. Non perché ci sia assolutamente impossibile comunicare da qui col mondo terrestre, con la dimensione degli umani. Solo perché gli umani possono normalmente percepire solo parole, dette o scritte. O altri segni comunque sensorialmente captabili. Hanno cioè bisogno di un substrato materiale perché i messaggi possano essere percepiti dai loro sensi e poi trasmessi a quell’ammasso di neuroni che è il cervello. Alcuni umani ritengono di poter trasmettere i contenuti mentali senza parole, telepaticamente appunto, ma questo non accade di sovente. In ogni caso, come vi ho già detto, in questa dimensione la comunicazione non avviene in nessuno dei di questi due modi. E perciò, anche volendo, non avrei potuto trasmettere un messaggio da lei percepibile e comprensibile.
Ma il suo è arrivato fin qui. Non vi appaia strano. Qui giungono tutti i contenuti mentali dell’universo. Qui sono arrivati i desideri e gli stupori dell’uomo geneticamente più giovane sulla Terra, il primo, e qui arriveranno le paure di quello geneticamente più vecchio, l’ultimo. Qui c’è la Bibbia come Topolino, l’Odissea come Ventimila leghe sotto i mari, Cenerentola come Justine, il triangolo isoscele come il tramonto sul mare in data x nel luogo y contemplato da un bambino Z e da suo padre, sua madre e suo fratello, qui ci sono le follie concepite da Hitler come il Chiaro di luna di Beethoven, la Gioconda come i disegni dei bambini dell’asilo, Beatrice come il Gatto con gli stivali, il Discobolo come i monumenti ai caduti ... Qui ci sono anche le parole asettiche, imprecise, fallaci e in fondo anche bugiarde dei TG e dei giornali come le parole di Meryl Streep ... C’è il gusto del cioccolato fondente assaporato dalla figlia dell’operaia che vive in Via Porpora, 3 a Milano come gli orgasmi dei coniugi Rossi che vivono al N° 4 di via Verdi a Milano, ci son le nausee della Sig.ra Bianchi, coniugata Vadilonga, che tra otto mesi darà alla luce due gemelli, come ci son i solletichi e le smorfie che le cuginette Villa si scambiano a vicenda. Desideri, sogni, gioie, speranze, incubi, ansie, amori, grattacapi ... Insomma anche tutte le banalità, le quotidianità, le insensatezze che sono stati, che sono e che saranno i contatti neuronali, banali, quotidiani, insensati della totalità degli umani sono qui. E tutti questi contenuti mentali son qui non solo nella loro formulazione originaria ma anche nella forma di pensieri pensati da infinità di cervelli che l’hanno fatto. E non è detto che siano solo cervelli umani ...
Naturalmente, ciascuno di noi, di noi ex-individui umani, è partecipe di tutto questo. Lo so, solo l’idea può dar la vertigine ad un ammasso di neuroni umani normalmente funzionante. Ma forse, in questo modo, potrete avere una, sebbene imprecisa, idea di come sia la nostra dimensione. Qualcuno pensa che l’eternità, perché noi viviamo nell’eternità, sia una dimensione atemporale. Ma non è esatto dire che nell’eternità non ci sia il tempo. Ci sono tutte le dimensioni temporali concepibili: per gli umani, tutti gli ieri, gli oggi, i domani. Anche questo potrebbe dare la vertigine a un cervello di media portata, anche a uno di portata superiore alla media, anche a uno che sfrutti le sue potenzialità al cento per cento. Il che, non posso anticiparvi niente, forse un giorno lontano potrebbe anche accadere.
Sono qui, è chiaro, anche tutti i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue angosce ... tutte le sue parole che hanno dato voce ai processi “simil-digestivi” propri del suo cervello.
Ho sempre saputo che avrebbe davvero cercato di vivere tutti gli istanti della sua vita. Della sua vita mortale. Ora non ho più bisogno di cercare di placare le sue angosce perché qui non sarà tormentata da angosce, per quanti pensieri angoscianti possano esserci, non sarà incupita da delusioni per quante esperienze deludenti possano esserci, non sarà amareggiata da insuccessi e sconfitte per quanti pensieri amari possano esserci. Ora è gia partecipe dell’immensità di cui tutti siamo partecipi qui. E ora potrà anche sapere cosa dicono gli occhi di un ragazzo che muore per un colpo di pistola sparatogli dall’amico che preme il grilletto per gioco. Saprà cosa resta nel cuore di un ragazzo che uccide chi era entrato nel suo cuore. Che voci restano in una casa che la Morte aveva già inesorabilmente visitato. Che resta nel cuore dei familiari di chi ha sparato. E cosa nel cuore dei familiari di chi è stato ucciso. E scoprirà se le parole bastano a parlare dello strazio di un’anima, della fine della vita di un ragazzo ...
Naturalmente, quasi mi dimenticavo, qui non ci sono solo contenuti mentali. Non ci sono soltanto infinità di esperienze, sensazioni, sentimenti, impressioni, credenze, ragionamenti, follie e quant’altro avviene grazie alle cellule grigie funzionanti di chiunque, sulla Terra, ne sia dotato.
C’è molto di più. C’è l’Inimmaginabile. L’Ineffabile, l’Umanamente Inafferrabile, l’Incommensurabile. E allora, capirete, le parole non bastano. Resta solo la pagina bianca. Il silenzio. E forse neanche quello basta.
BANALITA’ QUOTIDIANE
In una casa come tante, una famiglia come tante, voci come tante.
“Ugo, tua figlia non vuole mangiare. Dille qualcosa.” “Qualcosa!” “Non fare il cretino. Lo sai che non può continuare così.” “E invece posso. Primo: faccio quello che voglio. Secondo: mangio in modo equilibrato e sano. Terzo: non parlare come se io non ci fossi!” “La senti?! Lei mangia in modo equilibrato e sano ... Due pomodori sconditi e mezza mozzarella!” “Ve l’ho già detto mille volte. A colazione mangio il triplo di quanto mangiate voi. E la colazione è il pasto più importante della giornata: sarebbe buona norma fare una colazione da re, un pranzo da principi e una cena da mendicanti” “Ma lasciatela in pace … Più le date importanza più lei continua. Uno psicologo direbbe che lo fai proprio per questo e, magari, perché hai paura della vita o del sesso” “Ma pensa per te! Tu che, dopo ogni pasto, ti ingozzi di nutella … Di te che direbbe uno psicologo? Che hai carenze affettive o che ti manca il sesso o chissà che altro” “Si sa che quelli hanno un’etichetta per tutto e per tutti” “Ragazzi, adesso piantatela e pensate a non rovinarvi la salute che è la cosa più importante.” “Tibi e Trudi hanno mangiato? E il nostro Sansone?” “Ah ... Io adesso non posso. Devo uscire. A proposito, hai stirato la mia camicia?” “Strano! Lui non può mai quando gli si chiede qualcosa. Però può uscire quando vuole e tornare tardi mentre io, alla sua età, ero in libertà vigilata!” “Uhm ... adesso ricomincia.” “E’ diverso.” “Certo! La solita storia: lui è un maschio ed io una femmina. E i maschi non restano incinti.” “Amen! Tutti i salmi finiscono in gloria! La tua camicia è stata stirata dalla tua cameriera personale e, come al solito, sarò io a dar da mangiare ai gatti e al cane. Però non sono la vostra serva.” “Gloria, nessuno di noi pensa il contrario.” “No, sicuro. Però mi trattate peggio di una donna delle pulizie.” “Mamma, dai, adesso non esagerare. Lo sai che ti vogliamo bene.” “Grazie! Lo dimostrate in un modo ... Comunque, andate pure a pensare ai cavoli vostri.”
“Ti ricordi di quando ho partorito Anna? Ora capisco appieno le parole dell’infermiera ... Aveva detto che il peggio sarebbe arrivato quando avrebbe compiuto diciotto anni. Ne ha venti e mi sembra che sia ieri che tenevo quel fagotto tenero e fragile tra le braccia ... E sento che si allontana da me sempre più. E anche Andrea.” “Non possono stare sempre nel nido. Sai che in Gran Bretagna ci considerano dei mammoni?! Per non parlare degli altri Paesi del Nord Europa... E, quando ce li troveremo ancora qui, disoccupati a trent’anni, vorrò sentire se ti lamenterai ancora!” “Sono figli miei e saranno sempre e comunque i miei piccoli.” “I figli non sono una nostra proprietà. Noi doniamo loro la vita ma poi dobbiamo lasciargliela vivere. E, in fondo, non sono tanto diversi da come eravamo noi alla loro età. E devi smetterla di essere così apprensiva.” “Tutte le madri lo sono. Con quello che si sente in giro ... Impossibile non esserlo!” “E vabbè ma ora che siamo soli, perché, cara la mia signora, non pensiamo a noi e ci godiamo la nostra intimità?! Ricordi la nostra canzone?” “Scusi, lei mi ama o no?” “Non lo so, però ci sto!” “Perché no?!” “Perché no?!” “Perché nooo?!”
“Caro diario, rapporto di fine serata. E’ una splendida notte stellata però sono rientrata presto perché Mario mi ha mezzo bidonato. E così ho sentito i vecchi. Come cantava quella cantante che piace al mio vecchio, Alice? ‘Anche le mamme fanno l’amore ma in silenzio per non farsi sentire’ Stanotte non tanto in silenzio ...Tutto naturale certo, ma un po' imbarazzante. Come la volta che Andrea aveva chiesto a mamma cos’erano quei segni sul collo ... Cari i miei vecchietti arzilli. Lo so che io faccio la acida con loro. Lo so che loro mi vogliono bene, però non ci capiamo, ecco! E anche questo, chissà, forse, è naturale. Padri e figli. E madri e figlie. Ho letto in un libro che una donna capisce davvero sua madre solo quando diventa madre a sua volta. Sarà così ... E in un altro che gli esseri umani possono essere divisi tra chi ha ancora i genitori e chi li ha persi: Claudia sa cosa vuol dire ma adesso non voglio pensare a cosa possa essere perdere i propri genitori. Il piccolo di casa non è ancora tornato: ovvio, in questo caso non è “il piccolo”, lui! Ed ora la comunicazione importante: HO DECISO! Con Mario rompo: ne posso trovare a decine meglio di lui! Un SMS! E’ di Mario: ‘: - ( TVTB: PERDONO!!! M.’ E come faccio a non perdonarlo?! ‘Anche io TVTB! : - ) A.’ ...”
“Ugo?” “Uhm?” “Questa casa è come un albergo. Mi sa che è tornato qualcuno. Vado a controllare.” “Gloria, stai qui.” “Doveva essere Anna ... Ci avrà sentiti?” “E se anche fosse?! Credo che pure loro abbiano ormai scoperto di non essere nati sotto i cavoli e che le cicogne non fanno più consegne a domicilio. Non gliel’avevi spiegato a suo tempo?!” “Il solito! Ma ...” “Niente ma. Stai a letto.” “Oooh ... Che fai?”
“Mi sa che vado a svegliare i ragazzi.” “Lasciali dormire: è domenica. E sai bene che Andrea non si alzerà prima dell’ora di pranzo.” “Devono trasmettere un programma interessante. Sulla famiglia. E volevo che anche loro lo vedessero.” “Meglio il sonno che sentire i soliti esperti della TV che ci propinano le loro ricette preconfezionate per vivere sani, belli e felici. I ragazzi sentono e vedono già abbastanza cavolate.” “Ma dai, a volte non sono così male.” “No, non così male. Solo peggio.”
‘La famiglia è un caldo nido accogliente o più spesso un covo di vipere? Uomini e donne sono davvero consapevoli della responsabilità che comporta l’avere un figlio? E perché per adottare un bambino gli aspiranti genitori vengono sottoposti all’esame di più esperti, mentre i futuri genitori di un figlio da loro concepito non solo non vengono sottoposti ad esame alcuno ma anzi sono lasciati dallo Stato e dalle Istituzioni in balia della loro inesperienza? A queste ed altre domande risponderanno i nostri invitati a cominciare dal professor Lino Bianchi, docente di psicopedagogia all’Università di ...’
“Ehi! Ma li senti? Che altre baggianate dovranno sfornare?” “Spengo?” “Mi sa che è meglio.”
“Buongiorno signorina! Sei tornata presto ieri. Come mai?” “Cavoli miei.” “Vedo che anche oggi ci siamo svegliati cordiali e di buon umore.” “Ah! Ah! Dov’è finito il mio yogurt magro? Se l’è sbafato Andrea, come al solito.” “Prima di accusare, controlla! Non vedi che è lì davanti a te?!” “Mi aiuti a preparare il pranzo?” “Certo, con molto piacere. Io sono la figlia prediletta!” “Figlia prediletta, comincia a pelare patate.” “Tanto io non ne mangio.” “Noi sì. Hai dimenticato che oggi vengono nonno Angelo e nonna Lidia a trovarci?!” “Allora sarò costretta a mangiare anche le patate altrimenti cominciano a rompere pure loro. Ma tanto recupererò domani.” “Mi sembra giusto e saggio. Diversamente Valentino e Armani non ti farebbero sfilare coi loro abiti.” “Ah! Ah! Ah! Spiritosi tutti e due, i miei vecchi, oggi! Comunque meno male che stavolta i fortunelli di turno per lavare i piatti sono gli uomini di casa.” “Meno male.”
“E il piccolo?” “Non è ancora sceso ma arriverà tra poco.” “Parli del diavolo ...” “Ciao a tutti!” “Ciao Andrea! Come sei cresciuto! Vieni qui e lascia che ti dia un bacio.” “Dai nonna, non sono più un bambino.” “Eh già: i figli crescono e le mamme imbiancano ... Figurarsi le nonne! Hai già la fidanzata?” “Ne ho tante, nonna.” “Ha preso tutto da me!” “Ma va là vecchio gallo.” “Zitta vecchia gallina! Non rovinare la mia fama di tombeur de femmes.” “Ah, questi uomini! Poi dicono che sono le donne ad essere vanitose ...” “Nonna, guarda che in natura sono quasi sempre i maschi ad essere più variopinti, proprio per farsi notare dalle femmine. Vedi i pavoni ...” “E non fare il saputello. Stai in bagno ore prima di uscire e tu e i tuoi amici ronzate attorno alle ragazzine come mosconi attorno a un fiore.” “Bene! Alla sua età deve essere così!” “Certo. Doppia morale: se lo facessi io direste che sono una puttanella!” “Uh! Doppia morale ... ma se neanche sai cosa vuol dire ... e poi siete sempre voi donne a scegliere, come le femmine delle altre specie.” “Finchè si può, certo, facciamo del nostro meglio!” “Il pranzo è servito! Lavatevi le mani e accomodatevi!” “Sai nonna che domenica prossima andremo tutti a pescare? Verrete anche voi?” “No, noi no. L’umidità ci fa male alle ossa. Però vi aiuteremo volentieri a far fuori il vostro bottino.” “Schh! Solleva un po' il volume!” ‘Ancora una tragedia familiare! In una casa come tante, una famiglia come tante, un ragazzo ha fatto una strage. Ha ucciso i genitori, la sorella, i nonni invitati a pranzo e poi si è suicidato. Le ragioni dell’accaduto sono finora a noi sconosciute e nessuno avrebbe potuto prevederlo. Forse solo con la follia si può spiegare tutto...’
“Beh, perché guardate me? Non ho nessuna intenzione di fare stragi e poi di suicidarmi. Faremo solo una strage di pesci, vero babbo?!” “Senz’altro: ci metteremo d’impegno! Abbassa il volume adesso. I giornalisti sembrano sciacalli in queste circostanze.” “Io lo dico sempre che la nostra è una famiglia noiosa. Non succede mai niente. Tibi e Trudi miagolano, Sansone abbaia. Io non mi drogo. Anna non è una ragazza madre e nemmeno una vera anoressica. Tu non hai perso il lavoro. Mamma non è un’alcolizzata ... Non avete nemmeno l’amante, che io sappia ... E per di più i nonni sono ancora vispi, lucidi e autosufficienti. Insomma, che palle!”
“Stooop! Le riprese son terminate per oggi!” “Detto tra noi, non credo che questa fiction avrà successo in TV. Il pubblico brama intrighi, perfidie, sangue e sesso.” “Ma questo non è Beautiful! E’ Banalità quotidiane.” “Io non lo guarderò di certo.” “Neanch’io!”
In una casa come tante, una famiglia come tante, voci come tante.
“Ugo, tua figlia non vuole mangiare. Dille qualcosa.” “Qualcosa!” “Non fare il cretino. Lo sai che non può continuare così.” “E invece posso. Primo: faccio quello che voglio. Secondo: mangio in modo equilibrato e sano. Terzo: non parlare come se io non ci fossi!” “La senti?! Lei mangia in modo equilibrato e sano ... Due pomodori sconditi e mezza mozzarella!” “Ve l’ho già detto mille volte. A colazione mangio il triplo di quanto mangiate voi. E la colazione è il pasto più importante della giornata: sarebbe buona norma fare una colazione da re, un pranzo da principi e una cena da mendicanti” “Ma lasciatela in pace … Più le date importanza più lei continua. Uno psicologo direbbe che lo fai proprio per questo e, magari, perché hai paura della vita o del sesso” “Ma pensa per te! Tu che, dopo ogni pasto, ti ingozzi di nutella … Di te che direbbe uno psicologo? Che hai carenze affettive o che ti manca il sesso o chissà che altro” “Si sa che quelli hanno un’etichetta per tutto e per tutti” “Ragazzi, adesso piantatela e pensate a non rovinarvi la salute che è la cosa più importante.” “Tibi e Trudi hanno mangiato? E il nostro Sansone?” “Ah ... Io adesso non posso. Devo uscire. A proposito, hai stirato la mia camicia?” “Strano! Lui non può mai quando gli si chiede qualcosa. Però può uscire quando vuole e tornare tardi mentre io, alla sua età, ero in libertà vigilata!” “Uhm ... adesso ricomincia.” “E’ diverso.” “Certo! La solita storia: lui è un maschio ed io una femmina. E i maschi non restano incinti.” “Amen! Tutti i salmi finiscono in gloria! La tua camicia è stata stirata dalla tua cameriera personale e, come al solito, sarò io a dar da mangiare ai gatti e al cane. Però non sono la vostra serva.” “Gloria, nessuno di noi pensa il contrario.” “No, sicuro. Però mi trattate peggio di una donna delle pulizie.” “Mamma, dai, adesso non esagerare. Lo sai che ti vogliamo bene.” “Grazie! Lo dimostrate in un modo ... Comunque, andate pure a pensare ai cavoli vostri.”
“Ti ricordi di quando ho partorito Anna? Ora capisco appieno le parole dell’infermiera ... Aveva detto che il peggio sarebbe arrivato quando avrebbe compiuto diciotto anni. Ne ha venti e mi sembra che sia ieri che tenevo quel fagotto tenero e fragile tra le braccia ... E sento che si allontana da me sempre più. E anche Andrea.” “Non possono stare sempre nel nido. Sai che in Gran Bretagna ci considerano dei mammoni?! Per non parlare degli altri Paesi del Nord Europa... E, quando ce li troveremo ancora qui, disoccupati a trent’anni, vorrò sentire se ti lamenterai ancora!” “Sono figli miei e saranno sempre e comunque i miei piccoli.” “I figli non sono una nostra proprietà. Noi doniamo loro la vita ma poi dobbiamo lasciargliela vivere. E, in fondo, non sono tanto diversi da come eravamo noi alla loro età. E devi smetterla di essere così apprensiva.” “Tutte le madri lo sono. Con quello che si sente in giro ... Impossibile non esserlo!” “E vabbè ma ora che siamo soli, perché, cara la mia signora, non pensiamo a noi e ci godiamo la nostra intimità?! Ricordi la nostra canzone?” “Scusi, lei mi ama o no?” “Non lo so, però ci sto!” “Perché no?!” “Perché no?!” “Perché nooo?!”
“Caro diario, rapporto di fine serata. E’ una splendida notte stellata però sono rientrata presto perché Mario mi ha mezzo bidonato. E così ho sentito i vecchi. Come cantava quella cantante che piace al mio vecchio, Alice? ‘Anche le mamme fanno l’amore ma in silenzio per non farsi sentire’ Stanotte non tanto in silenzio ...Tutto naturale certo, ma un po' imbarazzante. Come la volta che Andrea aveva chiesto a mamma cos’erano quei segni sul collo ... Cari i miei vecchietti arzilli. Lo so che io faccio la acida con loro. Lo so che loro mi vogliono bene, però non ci capiamo, ecco! E anche questo, chissà, forse, è naturale. Padri e figli. E madri e figlie. Ho letto in un libro che una donna capisce davvero sua madre solo quando diventa madre a sua volta. Sarà così ... E in un altro che gli esseri umani possono essere divisi tra chi ha ancora i genitori e chi li ha persi: Claudia sa cosa vuol dire ma adesso non voglio pensare a cosa possa essere perdere i propri genitori. Il piccolo di casa non è ancora tornato: ovvio, in questo caso non è “il piccolo”, lui! Ed ora la comunicazione importante: HO DECISO! Con Mario rompo: ne posso trovare a decine meglio di lui! Un SMS! E’ di Mario: ‘: - ( TVTB: PERDONO!!! M.’ E come faccio a non perdonarlo?! ‘Anche io TVTB! : - ) A.’ ...”
“Ugo?” “Uhm?” “Questa casa è come un albergo. Mi sa che è tornato qualcuno. Vado a controllare.” “Gloria, stai qui.” “Doveva essere Anna ... Ci avrà sentiti?” “E se anche fosse?! Credo che pure loro abbiano ormai scoperto di non essere nati sotto i cavoli e che le cicogne non fanno più consegne a domicilio. Non gliel’avevi spiegato a suo tempo?!” “Il solito! Ma ...” “Niente ma. Stai a letto.” “Oooh ... Che fai?”
“Mi sa che vado a svegliare i ragazzi.” “Lasciali dormire: è domenica. E sai bene che Andrea non si alzerà prima dell’ora di pranzo.” “Devono trasmettere un programma interessante. Sulla famiglia. E volevo che anche loro lo vedessero.” “Meglio il sonno che sentire i soliti esperti della TV che ci propinano le loro ricette preconfezionate per vivere sani, belli e felici. I ragazzi sentono e vedono già abbastanza cavolate.” “Ma dai, a volte non sono così male.” “No, non così male. Solo peggio.”
‘La famiglia è un caldo nido accogliente o più spesso un covo di vipere? Uomini e donne sono davvero consapevoli della responsabilità che comporta l’avere un figlio? E perché per adottare un bambino gli aspiranti genitori vengono sottoposti all’esame di più esperti, mentre i futuri genitori di un figlio da loro concepito non solo non vengono sottoposti ad esame alcuno ma anzi sono lasciati dallo Stato e dalle Istituzioni in balia della loro inesperienza? A queste ed altre domande risponderanno i nostri invitati a cominciare dal professor Lino Bianchi, docente di psicopedagogia all’Università di ...’
“Ehi! Ma li senti? Che altre baggianate dovranno sfornare?” “Spengo?” “Mi sa che è meglio.”
“Buongiorno signorina! Sei tornata presto ieri. Come mai?” “Cavoli miei.” “Vedo che anche oggi ci siamo svegliati cordiali e di buon umore.” “Ah! Ah! Dov’è finito il mio yogurt magro? Se l’è sbafato Andrea, come al solito.” “Prima di accusare, controlla! Non vedi che è lì davanti a te?!” “Mi aiuti a preparare il pranzo?” “Certo, con molto piacere. Io sono la figlia prediletta!” “Figlia prediletta, comincia a pelare patate.” “Tanto io non ne mangio.” “Noi sì. Hai dimenticato che oggi vengono nonno Angelo e nonna Lidia a trovarci?!” “Allora sarò costretta a mangiare anche le patate altrimenti cominciano a rompere pure loro. Ma tanto recupererò domani.” “Mi sembra giusto e saggio. Diversamente Valentino e Armani non ti farebbero sfilare coi loro abiti.” “Ah! Ah! Ah! Spiritosi tutti e due, i miei vecchi, oggi! Comunque meno male che stavolta i fortunelli di turno per lavare i piatti sono gli uomini di casa.” “Meno male.”
“E il piccolo?” “Non è ancora sceso ma arriverà tra poco.” “Parli del diavolo ...” “Ciao a tutti!” “Ciao Andrea! Come sei cresciuto! Vieni qui e lascia che ti dia un bacio.” “Dai nonna, non sono più un bambino.” “Eh già: i figli crescono e le mamme imbiancano ... Figurarsi le nonne! Hai già la fidanzata?” “Ne ho tante, nonna.” “Ha preso tutto da me!” “Ma va là vecchio gallo.” “Zitta vecchia gallina! Non rovinare la mia fama di tombeur de femmes.” “Ah, questi uomini! Poi dicono che sono le donne ad essere vanitose ...” “Nonna, guarda che in natura sono quasi sempre i maschi ad essere più variopinti, proprio per farsi notare dalle femmine. Vedi i pavoni ...” “E non fare il saputello. Stai in bagno ore prima di uscire e tu e i tuoi amici ronzate attorno alle ragazzine come mosconi attorno a un fiore.” “Bene! Alla sua età deve essere così!” “Certo. Doppia morale: se lo facessi io direste che sono una puttanella!” “Uh! Doppia morale ... ma se neanche sai cosa vuol dire ... e poi siete sempre voi donne a scegliere, come le femmine delle altre specie.” “Finchè si può, certo, facciamo del nostro meglio!” “Il pranzo è servito! Lavatevi le mani e accomodatevi!” “Sai nonna che domenica prossima andremo tutti a pescare? Verrete anche voi?” “No, noi no. L’umidità ci fa male alle ossa. Però vi aiuteremo volentieri a far fuori il vostro bottino.” “Schh! Solleva un po' il volume!” ‘Ancora una tragedia familiare! In una casa come tante, una famiglia come tante, un ragazzo ha fatto una strage. Ha ucciso i genitori, la sorella, i nonni invitati a pranzo e poi si è suicidato. Le ragioni dell’accaduto sono finora a noi sconosciute e nessuno avrebbe potuto prevederlo. Forse solo con la follia si può spiegare tutto...’
“Beh, perché guardate me? Non ho nessuna intenzione di fare stragi e poi di suicidarmi. Faremo solo una strage di pesci, vero babbo?!” “Senz’altro: ci metteremo d’impegno! Abbassa il volume adesso. I giornalisti sembrano sciacalli in queste circostanze.” “Io lo dico sempre che la nostra è una famiglia noiosa. Non succede mai niente. Tibi e Trudi miagolano, Sansone abbaia. Io non mi drogo. Anna non è una ragazza madre e nemmeno una vera anoressica. Tu non hai perso il lavoro. Mamma non è un’alcolizzata ... Non avete nemmeno l’amante, che io sappia ... E per di più i nonni sono ancora vispi, lucidi e autosufficienti. Insomma, che palle!”
“Stooop! Le riprese son terminate per oggi!” “Detto tra noi, non credo che questa fiction avrà successo in TV. Il pubblico brama intrighi, perfidie, sangue e sesso.” “Ma questo non è Beautiful! E’ Banalità quotidiane.” “Io non lo guarderò di certo.” “Neanch’io!”
UNA GITA TRA I RICORDI
Quello che ho fatto? Ci sono andata. Quello che non ho fatto? Non ci son rimasta. Quello che vorrei fare? Tornarci.
Chieko ha attraversato mezzo mondo per venire a trovarmi. E’ tornata indietro nel tempo di sette ore con un solo volo da Oriente a Occidente, Osaka-Milano. Invece, questione di continuità territoriale (che non c’è), per raggiungere la mia isola ha dovuto far tappa a Roma. Mi è venuto un colpo al cuore quando ci siamo abbracciate all’aeroporto. C’eravamo lasciate tre anni fa, dicendoci goodbye in una città straniera per entrambe dove lei però sarebbe tornata dopo le vacanze estive.
Marcin si era svegliato presto per aiutarmi con le valigie che pesavano molto più dei venti chili consentiti. Pioveva e all’aeroporto, per qualche istante, incapace di muovermi con tutti quei bagagli da trascinare, ero rimasta immobile sotto la pioggia. Era una giornata grigia e non occorreva una particolare sensibilità meteoropatica perché mi sentissi in sintonia col clima. Avevo letto in un periodico femminile che una delle dieci cose migliori del sesso è il primo viaggio all’estero da sole. E’ comprensibile quindi che al termine di quell’esperienza “meglio del sesso” non mi sentissi al settimo cielo. Anche se stavo tornando alla mia terra, la mia famiglia, la mia casa, i miei amici.
Avevo lasciato il mio paese verso le cinque del mattino di quindici mesi prima, fatto tappa a Roma, poi a Londra per alcune ore e infine raggiunto Edinburgh in serata. In ogni aeroporto avevo telefonato a casa per rassicurare mia madre e, della serie “siamo donne”, avevo dovuto far visita ai bagni per controllo ed eventuale cambio assorbente. A Roma, una scolaresca in gita aveva scandito il conto alla rovescia suscitando il divertimento di una coppia English-speaking ed io, rassicurata da quei sorrisi, mi ero detta “andrà tutto bene”. Lasciata Londra alle spalle, volando verso Edimburgo, per due volte, stupita, avevo ammirato il tramonto. Arrivata a destinazione, nella città già immersa nell’oscurità, quando dal taxi, in una casa dalle grandi finestre e con le luci accese, i miei occhi avevano captato un bel ragazzo a torso nudo, ancora più convinta mi ero ripetuta “Sì, andrà tutto bene!”. All’aeroporto di Londra avevo incontrato Alessandro che mi aveva raggiunto per tenermi compagnia. Meno di una settimana dopo era venuto a Edimburgo per qualche giorno. Arrivato col pullman di primo mattino, aveva trovato una città deserta che gli era sembrata un paesone. Anche per una signora di Bristol, con cui una sera d’estate avevo cenato a Pollock, non era una “città”. Qualcuno, per incoraggiarmi prima della partenza, mi aveva detto che sarebbe stata un’esperienza alienante. Sapevo anche che non mi sarei certo trovata davanti immagini da cartolina. Infatti: era molto meglio! E, nonostante gli iniziali balbettamenti in inglese, forse perché la città poteva apparire come un paese, niente di alienante. Avvisavo tutti all’inizio “My English is very bad” finché un giorno l’idraulico, scozzese, mi aveva risposto sorridendo “Anche il mio!”. Una mattina, Alessandro ed io avevamo deciso di pranzare con la colazione locale. Non avevo ancora letto né visto Trainspotting ma comunque non avevo mangiato né i fagiolini con la salsa né il black pudding. Mentre Alessandro poi si era allontanato una coppia aveva attaccato bottone chiedendo da dove venissimo. “Dall’Italia” “Da quale parte?” “Dalla Sardegna” “Ah... Non dall’Italia dunque”. Come avrei scoperto qualche tempo dopo da Tesco, alcuni prodotti made in Italy mostravano l’“Italia”: lo Stivale e la Sicilia. Nessuna traccia del Piede-Isola. Ero stata quindi felice di scovare (e acquistare) il nuragus prodotto in provincia di Cagliari. A Pollock Halls avevo una stanza tutta per me ma inizialmente sentivo la mancanza di una, certo poco woolfiana, stanza da bagno tutta per me. Ho cambiato stanza tre volte ma per fortuna tutte le volte, anche se da prospettive diverse, era una camera con vista sul parco (e sul parcheggio). In Grecia avevo ammirato la collina col profilo di Agamennone; ora, da una delle finestre della mia camera, posso contemplare l’uno di fronte all’altro i due profili di Napoleone ed Eleonora d’Arborea. Dalle finestre di Pollock vedevo vicinissimo il dorso di un leone sdraiato. Una delle poche cose rimaste immutate della Edimburgo anni ‘30 di Muriel Spark. Avrei scoperto che si chiama Arthur’s Seat. Marcin mi aveva detto che se uno si voleva sfogare poteva raggiungere la cima e urlare al vento lassù. Chieko aveva scalato la collina più volte. A Pollock avevano organizzato anche un’escursione notturna. Sapevo che dalla vetta il panorama, complice il vento, toglieva il fiato ma non sono mai stata una grande arrampicatrice. Nemmeno Ayako, ma un sera, una delle ultime settimane del nostro soggiorno, c’eravamo decise alla, fino alla fine rimandata, grande impresa, passando dal lato meno ripido ovviamente. Ebbene, devo confessare di non aver raggiunto la cima neanche quella volta. Forse perché temevo la vertigine. Il panorama del resto era stupendo anche ai piedi di Arthur’s Seat. Passeggiando lungo i Salisbury Craigs potevo distinguere il Palazzo di Holyroodhouse che, a dire la verità, non ho mai visitato, e seguire i profili degli edifici lungo il Royal Mile, individuare la cattedrale di St. Giles, fino al Castello (visibile quasi da ogni punto della città), intravedere anche il ponte decorato d’azzurro, Calton Hill, il Firth of Forth. Una sera un ragazzo mi aveva fermato. Era seduto, la bici a terra. Tirando fuori tabacco, cartina, accendino e una a me sconosciuta pasta scura, aveva detto “Where’s the police? No police!”. Il vento era forte e mi aveva pregato di fargli da scudo. E così quella volta, risvegliatasi la nostalgia per la patria lontana, avevo intitolato la lettera a mia sorella “Canna al vento”. Quando ero stata a Londra, qualche mese prima, avevo riassaporato il mirto che Alessandro aveva regalato a due suoi amici irlandesi. Ci avevano cucinato “lasagna” ed io, dopo aver accuratamente evitato per mesi la carne di manzo nonostante l’assicurazione pollockiana che si trattava di Scottish beef, per non apparire maleducata, avevo cenato mangiando lasagna con intermittenti, non molto rassicuranti, pensieri rivolti alle mucche pazze. Avevo visto Trainspotting (il film) ma non avevo ancora letto il libro perciò non sapevo del glorioso viaggio Edimburgo-Londra in pullman di Mark Renton and company. Alessandro mi aveva assicurato che l’unico disturbo sarebbe stato un po’ di mal di schiena il giorno dopo. Fortunatamente, il giorno dopo la mia schiena non aveva risentito di nove ore di contorsioni sul sedile. In compenso in quelle nove ore avevo vomitato l’anima nel mini-bagno. Londra mi aveva sorpreso. Immaginavo una città grigia, nebbiosa, piena di altissimi palazzi, tremendamente caotica. Niente di tutto questo: però Edimburgo già mi mancava. Mentre al British Museum visitavo una delle sale di arte romana, eravamo stati invitati ad uscire senza panico. Alessandro, quella mattina impegnato col suo volontariato, mi aveva poi detto che la preoccupazione per gli incendi è molto British. Uno dei primi giorni a Pollock, non bastandomi il termosifone, avevo acceso la stufetta elettrica. Immediatamente si era sprigionato un inconfondibile odore di polvere bruciata e, pochi istanti dopo, ero stata assordata dalla sirena acuta dell’allarme. Spaventata, avevo spento subito. Solo più in là avrei scoperto che si trattava delle esercitazioni settimanali e che ero innocente e senza colpa.
Il sabato della settimana che precedeva la mia partenza definitiva non ero andata ad Aberdeen con Chieko e David a trovare Iftikhar. Avevo già promesso a Marcin e Kien Kok che sarei andata con loro a Glasgow ad un party a casa di Eric. Avevamo trascorso lì quella breve e chiara notte di Giugno. Eric mi aveva anche detto che ero charming mentre dormivo. E ora chi me lo dice? Chi mi dice Morning dear come a Pollock? La mia camera D10 stava al piano terra: gli scoiattoli potevano così venire a mangiare sul davanzale. Scoiattoli grigi e marron, cicciotti e simpaticoni, non piccoli e rossicci come quelli che poi ho visto a Vienna. Non avevo però detto ai miei che una notte quella camera era stata visitata anche dai ladri e che, di conseguenza, la polizia mi aveva insignito dell’invidiabile etichetta di “vittima di reato”. Ora non vedo più gli scoiattoli sul davanzale. In compenso, i pipistrelli, che sono specie protetta, planano dalle grondaie della mia casa. Questo significa che qui l’aria non è inquinata il che, naturalmente, mi rasserena.
Si dice che non esistono posti felici ma solo posti in cui siamo stati felici. Ebbene a me piaceva vivere a Edimburgo e vivere, lo sappiamo tutti, non è essere ininterrottamente felici. Beh, a me piaceva vivere lì e probabilmente il viaggio più bello della mia vita sarà quello che mi riporterà in quella città che, a detta di Ian, è la più bella del mondo e di cui non avrei potuto non innamorarmi, città dove ho trascorso quindici mesi di amicizie internazionali, Chelidh, cene pollockiane in ore da merenda, seminari e lezioni in ore da pennichella, acquisti in Princes Street o nei charity shops, passeggiate in Holyrood Park, messe a St. Columba o funzioni diverse per la città, lezioni di ballo in una chiesa sconsacrata, feste latino-americane, nostalgie, lontananze, partenze, saluti, lettere scritte e ricevute, incontri mancati, cieli immersi in un costante pallore da sette del mattino, doppi rubinetti ai lavandini, lavamano al posto del bidet, dessert ipercalorici, assaggi di haggis e whisky, escursioni nelle Highlands o nei Borders, biblioteche a scaffale aperto, video in Common Room due volte a settimana, irrisolti dubbi amletici del tipo “Visti gli anelli che porta, sarà fidanzato o altrimenti sentimentalmente impegnato?”, inopportuni attacchi di panico da bad English, piccole gioie segrete come sentire (e capire) “I look like a balloon” in un camerino di prova, esplosioni di felicità saltellando alle Cheilidh, pinte e mezze pinte, sidro e birra, sorry, please, thanks, yes e no, come on, see you later, hy e bye ... e sì certo, immancabili, anche le solite palle, edimburghesi però!
Foto Graeme Ross
Quello che ho fatto? Ci sono andata. Quello che non ho fatto? Non ci son rimasta. Quello che vorrei fare? Tornarci.
Chieko ha attraversato mezzo mondo per venire a trovarmi. E’ tornata indietro nel tempo di sette ore con un solo volo da Oriente a Occidente, Osaka-Milano. Invece, questione di continuità territoriale (che non c’è), per raggiungere la mia isola ha dovuto far tappa a Roma. Mi è venuto un colpo al cuore quando ci siamo abbracciate all’aeroporto. C’eravamo lasciate tre anni fa, dicendoci goodbye in una città straniera per entrambe dove lei però sarebbe tornata dopo le vacanze estive.
Marcin si era svegliato presto per aiutarmi con le valigie che pesavano molto più dei venti chili consentiti. Pioveva e all’aeroporto, per qualche istante, incapace di muovermi con tutti quei bagagli da trascinare, ero rimasta immobile sotto la pioggia. Era una giornata grigia e non occorreva una particolare sensibilità meteoropatica perché mi sentissi in sintonia col clima. Avevo letto in un periodico femminile che una delle dieci cose migliori del sesso è il primo viaggio all’estero da sole. E’ comprensibile quindi che al termine di quell’esperienza “meglio del sesso” non mi sentissi al settimo cielo. Anche se stavo tornando alla mia terra, la mia famiglia, la mia casa, i miei amici.
Avevo lasciato il mio paese verso le cinque del mattino di quindici mesi prima, fatto tappa a Roma, poi a Londra per alcune ore e infine raggiunto Edinburgh in serata. In ogni aeroporto avevo telefonato a casa per rassicurare mia madre e, della serie “siamo donne”, avevo dovuto far visita ai bagni per controllo ed eventuale cambio assorbente. A Roma, una scolaresca in gita aveva scandito il conto alla rovescia suscitando il divertimento di una coppia English-speaking ed io, rassicurata da quei sorrisi, mi ero detta “andrà tutto bene”. Lasciata Londra alle spalle, volando verso Edimburgo, per due volte, stupita, avevo ammirato il tramonto. Arrivata a destinazione, nella città già immersa nell’oscurità, quando dal taxi, in una casa dalle grandi finestre e con le luci accese, i miei occhi avevano captato un bel ragazzo a torso nudo, ancora più convinta mi ero ripetuta “Sì, andrà tutto bene!”. All’aeroporto di Londra avevo incontrato Alessandro che mi aveva raggiunto per tenermi compagnia. Meno di una settimana dopo era venuto a Edimburgo per qualche giorno. Arrivato col pullman di primo mattino, aveva trovato una città deserta che gli era sembrata un paesone. Anche per una signora di Bristol, con cui una sera d’estate avevo cenato a Pollock, non era una “città”. Qualcuno, per incoraggiarmi prima della partenza, mi aveva detto che sarebbe stata un’esperienza alienante. Sapevo anche che non mi sarei certo trovata davanti immagini da cartolina. Infatti: era molto meglio! E, nonostante gli iniziali balbettamenti in inglese, forse perché la città poteva apparire come un paese, niente di alienante. Avvisavo tutti all’inizio “My English is very bad” finché un giorno l’idraulico, scozzese, mi aveva risposto sorridendo “Anche il mio!”. Una mattina, Alessandro ed io avevamo deciso di pranzare con la colazione locale. Non avevo ancora letto né visto Trainspotting ma comunque non avevo mangiato né i fagiolini con la salsa né il black pudding. Mentre Alessandro poi si era allontanato una coppia aveva attaccato bottone chiedendo da dove venissimo. “Dall’Italia” “Da quale parte?” “Dalla Sardegna” “Ah... Non dall’Italia dunque”. Come avrei scoperto qualche tempo dopo da Tesco, alcuni prodotti made in Italy mostravano l’“Italia”: lo Stivale e la Sicilia. Nessuna traccia del Piede-Isola. Ero stata quindi felice di scovare (e acquistare) il nuragus prodotto in provincia di Cagliari. A Pollock Halls avevo una stanza tutta per me ma inizialmente sentivo la mancanza di una, certo poco woolfiana, stanza da bagno tutta per me. Ho cambiato stanza tre volte ma per fortuna tutte le volte, anche se da prospettive diverse, era una camera con vista sul parco (e sul parcheggio). In Grecia avevo ammirato la collina col profilo di Agamennone; ora, da una delle finestre della mia camera, posso contemplare l’uno di fronte all’altro i due profili di Napoleone ed Eleonora d’Arborea. Dalle finestre di Pollock vedevo vicinissimo il dorso di un leone sdraiato. Una delle poche cose rimaste immutate della Edimburgo anni ‘30 di Muriel Spark. Avrei scoperto che si chiama Arthur’s Seat. Marcin mi aveva detto che se uno si voleva sfogare poteva raggiungere la cima e urlare al vento lassù. Chieko aveva scalato la collina più volte. A Pollock avevano organizzato anche un’escursione notturna. Sapevo che dalla vetta il panorama, complice il vento, toglieva il fiato ma non sono mai stata una grande arrampicatrice. Nemmeno Ayako, ma un sera, una delle ultime settimane del nostro soggiorno, c’eravamo decise alla, fino alla fine rimandata, grande impresa, passando dal lato meno ripido ovviamente. Ebbene, devo confessare di non aver raggiunto la cima neanche quella volta. Forse perché temevo la vertigine. Il panorama del resto era stupendo anche ai piedi di Arthur’s Seat. Passeggiando lungo i Salisbury Craigs potevo distinguere il Palazzo di Holyroodhouse che, a dire la verità, non ho mai visitato, e seguire i profili degli edifici lungo il Royal Mile, individuare la cattedrale di St. Giles, fino al Castello (visibile quasi da ogni punto della città), intravedere anche il ponte decorato d’azzurro, Calton Hill, il Firth of Forth. Una sera un ragazzo mi aveva fermato. Era seduto, la bici a terra. Tirando fuori tabacco, cartina, accendino e una a me sconosciuta pasta scura, aveva detto “Where’s the police? No police!”. Il vento era forte e mi aveva pregato di fargli da scudo. E così quella volta, risvegliatasi la nostalgia per la patria lontana, avevo intitolato la lettera a mia sorella “Canna al vento”. Quando ero stata a Londra, qualche mese prima, avevo riassaporato il mirto che Alessandro aveva regalato a due suoi amici irlandesi. Ci avevano cucinato “lasagna” ed io, dopo aver accuratamente evitato per mesi la carne di manzo nonostante l’assicurazione pollockiana che si trattava di Scottish beef, per non apparire maleducata, avevo cenato mangiando lasagna con intermittenti, non molto rassicuranti, pensieri rivolti alle mucche pazze. Avevo visto Trainspotting (il film) ma non avevo ancora letto il libro perciò non sapevo del glorioso viaggio Edimburgo-Londra in pullman di Mark Renton and company. Alessandro mi aveva assicurato che l’unico disturbo sarebbe stato un po’ di mal di schiena il giorno dopo. Fortunatamente, il giorno dopo la mia schiena non aveva risentito di nove ore di contorsioni sul sedile. In compenso in quelle nove ore avevo vomitato l’anima nel mini-bagno. Londra mi aveva sorpreso. Immaginavo una città grigia, nebbiosa, piena di altissimi palazzi, tremendamente caotica. Niente di tutto questo: però Edimburgo già mi mancava. Mentre al British Museum visitavo una delle sale di arte romana, eravamo stati invitati ad uscire senza panico. Alessandro, quella mattina impegnato col suo volontariato, mi aveva poi detto che la preoccupazione per gli incendi è molto British. Uno dei primi giorni a Pollock, non bastandomi il termosifone, avevo acceso la stufetta elettrica. Immediatamente si era sprigionato un inconfondibile odore di polvere bruciata e, pochi istanti dopo, ero stata assordata dalla sirena acuta dell’allarme. Spaventata, avevo spento subito. Solo più in là avrei scoperto che si trattava delle esercitazioni settimanali e che ero innocente e senza colpa.
Il sabato della settimana che precedeva la mia partenza definitiva non ero andata ad Aberdeen con Chieko e David a trovare Iftikhar. Avevo già promesso a Marcin e Kien Kok che sarei andata con loro a Glasgow ad un party a casa di Eric. Avevamo trascorso lì quella breve e chiara notte di Giugno. Eric mi aveva anche detto che ero charming mentre dormivo. E ora chi me lo dice? Chi mi dice Morning dear come a Pollock? La mia camera D10 stava al piano terra: gli scoiattoli potevano così venire a mangiare sul davanzale. Scoiattoli grigi e marron, cicciotti e simpaticoni, non piccoli e rossicci come quelli che poi ho visto a Vienna. Non avevo però detto ai miei che una notte quella camera era stata visitata anche dai ladri e che, di conseguenza, la polizia mi aveva insignito dell’invidiabile etichetta di “vittima di reato”. Ora non vedo più gli scoiattoli sul davanzale. In compenso, i pipistrelli, che sono specie protetta, planano dalle grondaie della mia casa. Questo significa che qui l’aria non è inquinata il che, naturalmente, mi rasserena.
Si dice che non esistono posti felici ma solo posti in cui siamo stati felici. Ebbene a me piaceva vivere a Edimburgo e vivere, lo sappiamo tutti, non è essere ininterrottamente felici. Beh, a me piaceva vivere lì e probabilmente il viaggio più bello della mia vita sarà quello che mi riporterà in quella città che, a detta di Ian, è la più bella del mondo e di cui non avrei potuto non innamorarmi, città dove ho trascorso quindici mesi di amicizie internazionali, Chelidh, cene pollockiane in ore da merenda, seminari e lezioni in ore da pennichella, acquisti in Princes Street o nei charity shops, passeggiate in Holyrood Park, messe a St. Columba o funzioni diverse per la città, lezioni di ballo in una chiesa sconsacrata, feste latino-americane, nostalgie, lontananze, partenze, saluti, lettere scritte e ricevute, incontri mancati, cieli immersi in un costante pallore da sette del mattino, doppi rubinetti ai lavandini, lavamano al posto del bidet, dessert ipercalorici, assaggi di haggis e whisky, escursioni nelle Highlands o nei Borders, biblioteche a scaffale aperto, video in Common Room due volte a settimana, irrisolti dubbi amletici del tipo “Visti gli anelli che porta, sarà fidanzato o altrimenti sentimentalmente impegnato?”, inopportuni attacchi di panico da bad English, piccole gioie segrete come sentire (e capire) “I look like a balloon” in un camerino di prova, esplosioni di felicità saltellando alle Cheilidh, pinte e mezze pinte, sidro e birra, sorry, please, thanks, yes e no, come on, see you later, hy e bye ... e sì certo, immancabili, anche le solite palle, edimburghesi però!
Foto Graeme Ross
UN INCONTRO INASPETTATO
“Cosa c’è tra i pampini verdi?” lesse Michelino ad alta voce.
“Mamma cosa sono i pampini?”, si interruppe.
“Sono le foglie dell’uva”, spiegò la mamma.
“E perché avevi scritto una poesia sull’uva e il vino?”, volle sapere Michelino.
“Perché nonno Michele aveva la vigna e poi la maestra ogni anno ad ottobre ci faceva studiare la poesia sull’uva e il vino e così ne avevo scritta una anch’io … Ora non è più così!” sospirò la mamma.
“E perché?” chiese Michelino. “Mah … Chi lo sa!” replicò la mamma con un altro sospiro.
Michelino rimase pensieroso, poi chiese alla mamma di raccontargli la storia di Cixireddu, e prima ancora che fosse finita, aveva già chiuso gli occhi.
Cixireddu, piccolo e astuto, faceva il guardiano di vigne ed era severissimo: nemmeno un grappolo, nemmeno mezzo grappolo, nemmeno un acino, nemmeno un seme doveva mancare dalla vigna.
Un giorno, mentre riposava all’ombra della sua vite preferita, sentì una vocina sottile sottile senza però riuscire a distinguere le parole. Cixireddu si alzò e cominciò a camminare lungo il filare finché si trovò davanti una bella bambina che, vedendolo, smise di canticchiare e lo squadrò dall’alto verso il basso.
E Cixireddu non sentì la solita domanda: “Mi dai un grappolo d’uva?” … No, la bambina lo salutò invece: “ Ciao! Chi sei?” “Sono Cixireddu . E tu chi sei?” “Sono Pollicina. … Cisc …” e Pollicina si fermò non riuscendo a pronunciare bene il nome di Cixireddu che, sorridendo, scandì: “Ci–xi–red-du”. Ma, nonostante gli sforzi, Pollicina trovava difficoltà e perciò Cixireddu le disse: “Chiamami Ceciolino. E’ Lo stesso”.
“E cosa vuol dire?” domandò Pollicina?.
“Piccolo cece … Perché sono grande quanto un cece”, spiegò Ceciolino.
“Io, invece, sono grande quanto un pollice e per questo mi chiamano Pollicina. Io sono stata creata da Andersen. E tu invece? Dimmi, chi ti ha creato?” volle sapere la bambina.
“Io sono frutto della tradizione popolare sarda. Non avevo mai sentito parlare di te. Cosa fai da queste parti?” chiese Ceciolino.
“Sono in viaggio per tornare dalla mia mamma. Un brutto rospo mi aveva rapita dal mio mezzo guscio di noce dove dormivo e mi aveva posato sopra una foglia di ninfea. Poi, con l’aiuto dei pesciolini, sono riuscita a liberarmi. Durante l’inverno sono stata al buio nella tana di un vecchio topo di campagna ma desideravo tanto la luce del sole … e ora, dopo varie peripezie, eccomi qua. E tu cosa fai?” “Faccio il guardiano di vigne!”disse Ceciolino con un certo orgoglio che non riusciva a nascondere quando si trattava del suo incarico. “E cosa c’è da controllare nelle vigne?” chiese con candore Pollicina. “C’è l’uva!!! Non lo sai” si sorprese Ceciolino. “E a cosa serve l’uva?” replicò Pollicina. Ceciolino, ancora più sorpreso, rispose: “C’è l’uva che si mangia e c’è l’uva da cui si ricava il vino”. “Il vino?! … Quel succo che se ne bevi tanto fa perdere la testa? … Non sapevo che fosse fatto d’uva!” mormorò Pollicina. Ceciolino non smetteva di stupirsi ma, pazientemente, chiese: “E di cosa pensavi fosse fatto?” “Beh, a dire la verità, io non ho mai assaggiato il vino e nemmeno l’uva, ma, ogni tanto, vedo in televisione quei signori esperti che assaggiano il vino … E, beh, vedi, quei signori sentono il sapore di frutti esotici, bacche di bosco, liquirizia, fiori, resine, a volte perfino qualche ortaggio …ma di uva no, mai! Quindi come potevo immaginare che il vino derivasse dall’uva?!”, spiegò Pollicina. “Beh, in effetti, non hai tutti i torti”, replicò comprensivo Ceciolino, “Ma, ti assicuro”, aggiunse, “che il vino, quello vero, è fatto solo d’uva”.
“E come si fa?”, volle sapere Pollicina.
“Prima si taglia l’uva e, quando si taglia tutta assieme si chiama ‘vendemmia’”, cominciò Ceciolino. “E poi?”, interruppe Pollicina. “Poi la si pigia per farne uscire il succo. Prima lo si faceva coi piedi, ora con le macchine pigiatrici. Poi si lascia fermentare il succo, che si chiama mosto, nei tini”, continuò Ceciolino. “E cosa vuol dire ‘fermentare’?” chiese Pollicina.
“Vuol dire che gli zuccheri che sono nell’uva si trasformano in alcool”, spiegò Ceciolino.
“E come?”, chiese ancora Pollicina.
“Ci sono degli animaletti piccoli piccoli, molto più piccoli di noi, che lavorano e lavorano. Si chiamano lieviti saccaromiceti”, disse Ceciolino, dandosi un po’, ma solo un po’, di arie.
“Caspita! Che bello! … Allora, se nell’uva ci sono gli zuccheri, vuol dire che è dolce …” mormorò Pollicina, quasi parlando tra sé. “Sì certo che è dolce. Ci sono tanti tipi d’uva ma l’uva matura è sempre dolce”, enfatizzò Ceciolino.
Pollicina rimase per qualche istante pensierosa, poi azzardò piena di speranza: “Me ne faresti assaggiare?”. E Ceciolino, suo malgrado si adombrò.
Il suo dovere gli imponeva di essere rigidissimo: nemmeno un grappolo, nemmeno mezzo grappolo, nemmeno un acino, nemmeno un seme doveva mancare dalla vigna … ma quella bambina dalla pelle bianca e rosa, vezzosa e innocente come non ne aveva mai incontrate, non lo lasciava indifferente. Anzi, se doveva essere sincero, ne era davvero incantato.
E così le disse: “Davvero non potrei. Ma, per la prima ed ultima volta in vita mia, farò un’eccezione. Ti farò assaggiare un acino d’uva. Sceglierai tu quale. Ed io, dal canto mio, mi assumerò le mie responsabilità. Ne pagherò le conseguenze, siano quelle che siano, quando lo dirò al padrone”. Pollicina, benché leggermente amareggiata dalle parole di Ceciolino, si fece prendere subito dall’entusiasmo all’idea di assaggiare quel frutto che a lei appariva tanto esotico.
Ceciolino la condusse lungo i filari della vigna e Pollicina non finiva di estasiarsi ammirando rapita i grappoli rosso rubino del girò, quelli scuri che tendevano sia al blu notte che al nero del cannonau e della mora e soprattutto quelli dorati del semidano, del nuragus, del vermentino e del moscato.
“Che bei grappoli! Mi piacciono tutti. Quelli rossi mi fanno pensare al sole, al fuoco, alla luce, al calore, quelli scuri alla notte e ai suoi misteri e quelli dorati alle stelle. E le stelle, che rischiarano la notte brillando nell’oscurità, significano speranza e mi fanno pensare alla mia mamma lontana. E, pensando alla mia mamma, assaggerò uno di questi acini piccini” disse indicando un grappolo di moscato dai piccoli acini fitti fitti. Ceciolino si complimentò per la scelta. “E’ dolcissima e matura al punto giusto”. Quindi fece per arrampicarsi su un tralcio quando, sentendo un ronzio purtroppo assai familiare, si fermò urlando: “Pollicina via di là! Scappa! Allontanati! Arrivano le vespe! Ed io, io devo salvare l’uva!!!”.
Sì! Doveva salvare l’uva: l’aveva protetta dai parassiti, dalle malattie, dai ladri e ora, ora che era matura al punto giusto, doveva proteggerla da quegli invasori che ben conoscevano quanto inebriante fosse quel succo dolce e gustoso. E così si preparò ad azionare tutti gli stratagemmi che aveva escogitato per proteggere il suo tesoro. Ma, mentre allungava la mano, vide Pollicina a terra.
Doveva essere inciampata nella corsa e ora un viscido biscione strisciava verso di lei sicuramente animato da cattive intenzioni. Ceciolino non indugiò e, per salvare Pollicina, si precipitò sul serpente tramortendolo con un sasso. Pollicina, salva, lo abbracciò con calore e Ceciolino, per qualche istante, si sentì in estasi. Ma subito si accorse con orrore che le vespe avevano quasi raggiunto i grappoli d’uva e lui era ormai troppo lontano per poter azionare le reti protettive in tempo. Per la prima volta Ceciolino non sapeva che fare e per la prima volta si sentiva perso. L’angoscia era terribile. Il sole picchiava, il ronzio si faceva sempre più insistente, Pollicina cominciò a piangere e Ceciolino a sudare.
Finché, all’improvviso, la terra tremò e Pollicina e Ceciolino anche.
Le reti vennero misteriosamente azionate e le reti calarono sulle viti giusto in tempo per proteggerle dalle vespe che, furenti, tentarono allora con insistenza, ma invano, di passare attraverso i piccoli fori finché due grosse mani non scacciarono anche le più ostinate.
Pollicina e Ceciolino non si capacitavano: c’era un gigante buono davanti a loro e ora quel gigante buono si chinava guardandoli sorridente.
Ceciolino si fece avanti: “Grazie! Hai salvato l’uva! Ti sarò sempre riconoscente!!!”
“Chi sei?”, s’intromise Pollicina.
“Sono Michelino, il bambino che vi sta sognando”.
E intanto il vento portò il suono delle campane del paese che non era molto distante.
Michelino si alzò dicendo: “Si è fatto tardi. E’ quasi ora di svegliarmi”.
“No aspetta. Devo far assaggiare il moscato a Pollicina”, esclamò Ceciolino.
“E’ davvero tardi. La mamma tra poco comincerà a chiamarmi. Uhhh”, mormorò Michelino rotolandosi nel letto mentre la sveglia continuava a trillare.
“Ceciolinoooooo!!!”
“Pollicinaaaaaa!!!”
“Cixireduuuuuu!!!”, i due bambini si chiamavano l’un l’altra mentre cominciavano a svanire e ad affievolirsi.
“Michelino, svegliati. E’ tardi!”, sussurrò la mamma.
Solo un bacio sospeso nell’aria volò tra Pollicina e Ceciolino: un bacio piccolo e dolce come un acino di moscato maturato al sole.
“Cosa c’è tra i pampini verdi?” lesse Michelino ad alta voce.
“Mamma cosa sono i pampini?”, si interruppe.
“Sono le foglie dell’uva”, spiegò la mamma.
“E perché avevi scritto una poesia sull’uva e il vino?”, volle sapere Michelino.
“Perché nonno Michele aveva la vigna e poi la maestra ogni anno ad ottobre ci faceva studiare la poesia sull’uva e il vino e così ne avevo scritta una anch’io … Ora non è più così!” sospirò la mamma.
“E perché?” chiese Michelino. “Mah … Chi lo sa!” replicò la mamma con un altro sospiro.
Michelino rimase pensieroso, poi chiese alla mamma di raccontargli la storia di Cixireddu, e prima ancora che fosse finita, aveva già chiuso gli occhi.
Cixireddu, piccolo e astuto, faceva il guardiano di vigne ed era severissimo: nemmeno un grappolo, nemmeno mezzo grappolo, nemmeno un acino, nemmeno un seme doveva mancare dalla vigna.
Un giorno, mentre riposava all’ombra della sua vite preferita, sentì una vocina sottile sottile senza però riuscire a distinguere le parole. Cixireddu si alzò e cominciò a camminare lungo il filare finché si trovò davanti una bella bambina che, vedendolo, smise di canticchiare e lo squadrò dall’alto verso il basso.
E Cixireddu non sentì la solita domanda: “Mi dai un grappolo d’uva?” … No, la bambina lo salutò invece: “ Ciao! Chi sei?” “Sono Cixireddu . E tu chi sei?” “Sono Pollicina. … Cisc …” e Pollicina si fermò non riuscendo a pronunciare bene il nome di Cixireddu che, sorridendo, scandì: “Ci–xi–red-du”. Ma, nonostante gli sforzi, Pollicina trovava difficoltà e perciò Cixireddu le disse: “Chiamami Ceciolino. E’ Lo stesso”.
“E cosa vuol dire?” domandò Pollicina?.
“Piccolo cece … Perché sono grande quanto un cece”, spiegò Ceciolino.
“Io, invece, sono grande quanto un pollice e per questo mi chiamano Pollicina. Io sono stata creata da Andersen. E tu invece? Dimmi, chi ti ha creato?” volle sapere la bambina.
“Io sono frutto della tradizione popolare sarda. Non avevo mai sentito parlare di te. Cosa fai da queste parti?” chiese Ceciolino.
“Sono in viaggio per tornare dalla mia mamma. Un brutto rospo mi aveva rapita dal mio mezzo guscio di noce dove dormivo e mi aveva posato sopra una foglia di ninfea. Poi, con l’aiuto dei pesciolini, sono riuscita a liberarmi. Durante l’inverno sono stata al buio nella tana di un vecchio topo di campagna ma desideravo tanto la luce del sole … e ora, dopo varie peripezie, eccomi qua. E tu cosa fai?” “Faccio il guardiano di vigne!”disse Ceciolino con un certo orgoglio che non riusciva a nascondere quando si trattava del suo incarico. “E cosa c’è da controllare nelle vigne?” chiese con candore Pollicina. “C’è l’uva!!! Non lo sai” si sorprese Ceciolino. “E a cosa serve l’uva?” replicò Pollicina. Ceciolino, ancora più sorpreso, rispose: “C’è l’uva che si mangia e c’è l’uva da cui si ricava il vino”. “Il vino?! … Quel succo che se ne bevi tanto fa perdere la testa? … Non sapevo che fosse fatto d’uva!” mormorò Pollicina. Ceciolino non smetteva di stupirsi ma, pazientemente, chiese: “E di cosa pensavi fosse fatto?” “Beh, a dire la verità, io non ho mai assaggiato il vino e nemmeno l’uva, ma, ogni tanto, vedo in televisione quei signori esperti che assaggiano il vino … E, beh, vedi, quei signori sentono il sapore di frutti esotici, bacche di bosco, liquirizia, fiori, resine, a volte perfino qualche ortaggio …ma di uva no, mai! Quindi come potevo immaginare che il vino derivasse dall’uva?!”, spiegò Pollicina. “Beh, in effetti, non hai tutti i torti”, replicò comprensivo Ceciolino, “Ma, ti assicuro”, aggiunse, “che il vino, quello vero, è fatto solo d’uva”.
“E come si fa?”, volle sapere Pollicina.
“Prima si taglia l’uva e, quando si taglia tutta assieme si chiama ‘vendemmia’”, cominciò Ceciolino. “E poi?”, interruppe Pollicina. “Poi la si pigia per farne uscire il succo. Prima lo si faceva coi piedi, ora con le macchine pigiatrici. Poi si lascia fermentare il succo, che si chiama mosto, nei tini”, continuò Ceciolino. “E cosa vuol dire ‘fermentare’?” chiese Pollicina.
“Vuol dire che gli zuccheri che sono nell’uva si trasformano in alcool”, spiegò Ceciolino.
“E come?”, chiese ancora Pollicina.
“Ci sono degli animaletti piccoli piccoli, molto più piccoli di noi, che lavorano e lavorano. Si chiamano lieviti saccaromiceti”, disse Ceciolino, dandosi un po’, ma solo un po’, di arie.
“Caspita! Che bello! … Allora, se nell’uva ci sono gli zuccheri, vuol dire che è dolce …” mormorò Pollicina, quasi parlando tra sé. “Sì certo che è dolce. Ci sono tanti tipi d’uva ma l’uva matura è sempre dolce”, enfatizzò Ceciolino.
Pollicina rimase per qualche istante pensierosa, poi azzardò piena di speranza: “Me ne faresti assaggiare?”. E Ceciolino, suo malgrado si adombrò.
Il suo dovere gli imponeva di essere rigidissimo: nemmeno un grappolo, nemmeno mezzo grappolo, nemmeno un acino, nemmeno un seme doveva mancare dalla vigna … ma quella bambina dalla pelle bianca e rosa, vezzosa e innocente come non ne aveva mai incontrate, non lo lasciava indifferente. Anzi, se doveva essere sincero, ne era davvero incantato.
E così le disse: “Davvero non potrei. Ma, per la prima ed ultima volta in vita mia, farò un’eccezione. Ti farò assaggiare un acino d’uva. Sceglierai tu quale. Ed io, dal canto mio, mi assumerò le mie responsabilità. Ne pagherò le conseguenze, siano quelle che siano, quando lo dirò al padrone”. Pollicina, benché leggermente amareggiata dalle parole di Ceciolino, si fece prendere subito dall’entusiasmo all’idea di assaggiare quel frutto che a lei appariva tanto esotico.
Ceciolino la condusse lungo i filari della vigna e Pollicina non finiva di estasiarsi ammirando rapita i grappoli rosso rubino del girò, quelli scuri che tendevano sia al blu notte che al nero del cannonau e della mora e soprattutto quelli dorati del semidano, del nuragus, del vermentino e del moscato.
“Che bei grappoli! Mi piacciono tutti. Quelli rossi mi fanno pensare al sole, al fuoco, alla luce, al calore, quelli scuri alla notte e ai suoi misteri e quelli dorati alle stelle. E le stelle, che rischiarano la notte brillando nell’oscurità, significano speranza e mi fanno pensare alla mia mamma lontana. E, pensando alla mia mamma, assaggerò uno di questi acini piccini” disse indicando un grappolo di moscato dai piccoli acini fitti fitti. Ceciolino si complimentò per la scelta. “E’ dolcissima e matura al punto giusto”. Quindi fece per arrampicarsi su un tralcio quando, sentendo un ronzio purtroppo assai familiare, si fermò urlando: “Pollicina via di là! Scappa! Allontanati! Arrivano le vespe! Ed io, io devo salvare l’uva!!!”.
Sì! Doveva salvare l’uva: l’aveva protetta dai parassiti, dalle malattie, dai ladri e ora, ora che era matura al punto giusto, doveva proteggerla da quegli invasori che ben conoscevano quanto inebriante fosse quel succo dolce e gustoso. E così si preparò ad azionare tutti gli stratagemmi che aveva escogitato per proteggere il suo tesoro. Ma, mentre allungava la mano, vide Pollicina a terra.
Doveva essere inciampata nella corsa e ora un viscido biscione strisciava verso di lei sicuramente animato da cattive intenzioni. Ceciolino non indugiò e, per salvare Pollicina, si precipitò sul serpente tramortendolo con un sasso. Pollicina, salva, lo abbracciò con calore e Ceciolino, per qualche istante, si sentì in estasi. Ma subito si accorse con orrore che le vespe avevano quasi raggiunto i grappoli d’uva e lui era ormai troppo lontano per poter azionare le reti protettive in tempo. Per la prima volta Ceciolino non sapeva che fare e per la prima volta si sentiva perso. L’angoscia era terribile. Il sole picchiava, il ronzio si faceva sempre più insistente, Pollicina cominciò a piangere e Ceciolino a sudare.
Finché, all’improvviso, la terra tremò e Pollicina e Ceciolino anche.
Le reti vennero misteriosamente azionate e le reti calarono sulle viti giusto in tempo per proteggerle dalle vespe che, furenti, tentarono allora con insistenza, ma invano, di passare attraverso i piccoli fori finché due grosse mani non scacciarono anche le più ostinate.
Pollicina e Ceciolino non si capacitavano: c’era un gigante buono davanti a loro e ora quel gigante buono si chinava guardandoli sorridente.
Ceciolino si fece avanti: “Grazie! Hai salvato l’uva! Ti sarò sempre riconoscente!!!”
“Chi sei?”, s’intromise Pollicina.
“Sono Michelino, il bambino che vi sta sognando”.
E intanto il vento portò il suono delle campane del paese che non era molto distante.
Michelino si alzò dicendo: “Si è fatto tardi. E’ quasi ora di svegliarmi”.
“No aspetta. Devo far assaggiare il moscato a Pollicina”, esclamò Ceciolino.
“E’ davvero tardi. La mamma tra poco comincerà a chiamarmi. Uhhh”, mormorò Michelino rotolandosi nel letto mentre la sveglia continuava a trillare.
“Ceciolinoooooo!!!”
“Pollicinaaaaaa!!!”
“Cixireduuuuuu!!!”, i due bambini si chiamavano l’un l’altra mentre cominciavano a svanire e ad affievolirsi.
“Michelino, svegliati. E’ tardi!”, sussurrò la mamma.
Solo un bacio sospeso nell’aria volò tra Pollicina e Ceciolino: un bacio piccolo e dolce come un acino di moscato maturato al sole.
NOTA
Se siete arrivati fin qui con la lettura, vi ringrazio.
Si tratta di racconti scritti secoli fa in diverse occasioni e che non ho modificato, lasciandoli nella loro versione originaria.
Forse, avrete pensato, avrei fatto meglio a tenerli nel cassetto - lo penso anch’io ogni tanto – ma mi ero divertita a scriverli e spero che, anche se non tutti propriamente “divertenti”, li abbiate trovati quantomeno dilettevoli.
L’ultimo racconto era dedicato alle mie nipotine dell’epoca, Sara e Giulia. Ora sono arrivati anche Cristina, Anna, Michele, Letizia, Rosa, Marta e Valentina.
Estendo la dedica anche a loro con affetto!
Se siete arrivati fin qui con la lettura, vi ringrazio.
Si tratta di racconti scritti secoli fa in diverse occasioni e che non ho modificato, lasciandoli nella loro versione originaria.
Forse, avrete pensato, avrei fatto meglio a tenerli nel cassetto - lo penso anch’io ogni tanto – ma mi ero divertita a scriverli e spero che, anche se non tutti propriamente “divertenti”, li abbiate trovati quantomeno dilettevoli.
L’ultimo racconto era dedicato alle mie nipotine dell’epoca, Sara e Giulia. Ora sono arrivati anche Cristina, Anna, Michele, Letizia, Rosa, Marta e Valentina.
Estendo la dedica anche a loro con affetto!