LETTERA APERTA
Ciao carissimo babbo mio,
da quando ci hai lasciato, quasi due mesi fa, non riesco più nemmeno a pregare. A dire il vero, ora che non sei più in questa terra, credo che tu non abbia bisogno di preghiera alcuna. Sei stato un uomo buono, molto buono, e di sicuro nulla hai da scontare nell'aldilà. Perciò voglio pensare che tu sia nella luce, in una dimensione diversa, e in pace.
Io tanto in pace non sono. Non ti ritrovo in casa, non ti ritrovo in giardino e, contrariamente a mamma che ti vede in ogni posto, io non ti rivedo, non ti rivedo in nessun posto.
Sento non la tua presenza ma la tua assenza.
Vado in cimitero dove sono tumulate le tue spoglie mortali e so che sono lì, nel loculo, dove hanno maldestramente sistemato la tua bara di legno scuro con la coroncina di rose offerta dai tuoi nipoti. Vado in cimitero, dicevo, e mi piace pensare che siamo più vicini anche se so che tu non sei più nemmeno lì.
Certo, Foscolo diceva che grazie ai cimiteri, ai sepolcri, alle tombe, si instaura tra i vivi e i morti una “corrispondenza d’amorosi sensi” che sarebbe addirittura “celeste”, divina, nel creare l’illusione, attraverso il ricordo, di una qualche forma di immortalità. Ma appunto, d’illusione si tratta. E i cimiteri servono ai vivi, non ai morti, purtroppo.
Tu non sei più! non sei in questa vita! non sei con noi!
E, se anche mi strappassi i capelli, se anche sbattessi la testa al muro, tu non torneresti, tu non potresti essere richiamato a vivere in questo mondo.
E se anche cercassi di raggiungerti, se anche cercassi di lasciare questa vita, non so proprio se ci ritroveremmo nuovamente insieme.
E so che tu, tu che tanto hai amato la Vita, tu che me l’hai data in dono non una ma tante volte, non vorresti questo.
E tant’è, di fronte all’Ineluttabile, nulla si può!
È proprio vero che solo alla morte non c’è rimedio.
Perciò, per forza, si va avanti.
Si va avanti perché non si può fare diversamente.
E porto con me il ricordo di te, i ricordi di te.
E non voglio dimenticare quanto hai sofferto.
Da bambino, quando al catechismo la suora aveva affermato che i bambini devono fare da buoni altrimenti vanno all’inferno dove c’è Lucifero, tu avevi replicato ad alta voce con gioiosa baldanza infantile: “Ma deu ollu andai a s’Inferru, aicci pigu ‘u trebuzzu e infinzu Luciferu!” (“Ma io voglio andare all’Inferno, così prendo un forcone e infilzo Lucifero!”).
Fu quella la prima volta che mamma sentì la tua voce…
Ebbene, io penso che tu abbia vissuto l’inferno in questa vita, vita che tanto hai amato, godendo, fino a che da ultimo non ti sono state tolte, anche delle piccole-grandi gioie di questo mondo.
Il tuo inferno è cominciato quando, dopo qualche tempo che sei andato in pensione, hai cominciato a stare male, senza sapere bene perché.
E, ahimè, ero stata io a sospettare per prima, non quando avevi perso l’olfatto ma solo anni dopo, purtroppo.
Mari al mare mi aveva fatto notare che non muovevi un braccio mentre facevi le tue lunghe passeggiate sul bagnasciuga.
Era un sospetto che si fortificò col passare del tempo vedendo che ti muovevi un po’ curvo, lentamente, con un tremore al braccio.
Io conoscevo quei sintomi, ahimè.
Anni fa, ricordi di sicuro, per contrastare una improvvisa crisi di irrigidimento dei muscoli avevo assunto una forte dose di valium. Mi fece passare quella crisi neuromotoria ma mi lasciò con dei sintomi che io, guarda caso, ritrovavo in un libro che stavo leggendo all’epoca, “Risvegli” di Oliver Sacks.
“Risvegli” racconta di una epidemia di encefalite letargica che il dottor Sacks, fra il millenovecentosessantanove e il millenovecentosettantadue, curò somministrando la L-dopa a più di duecento malati al Mount Carmel Hospital di New York riuscendo appunto a risvegliare questi malati dal buio di anni e anni.
Questo farmaco viene somministrato, con modalità e dosaggi diversi, anche nel caso di un altro male, male di cui si descrivono i sintomi nel libro che io appunto leggevo tanto tempo fa.
Microscrittura, movimenti rigidi, andatura curva e rallentata, difficoltà a compiere gesti quotidiani come lavarsi i denti, tremori.
Leggevo e non potevo non restare stupita nel constatare che quei sintomi li stavo vivendo. Ero abbastanza malmessa da non aver voglia di ridere pensando a “Tre uomini in barca” in cui il protagonista si ritrovava a sperimentare sintomi di tanti mali e si crucciava perché non poteva aggiungere al suo elenco il “ginocchio della lavandaia”, proprio no, quello non poteva essere e non era uno dei suoi mali.
I miei mali regredirono fino a scomparire del tutto con la somministrazione di piccole pastiglie di biperidene, “Akineton” il nome commerciale del farmaco, che, come si può leggere nel cosiddetto bugiardino, serve per contrastare le sindromi extrapiramidali causate da alcuni potenti tranquillanti.
E le sindromi extrapiramidali consistono di acciacchi vari che corrispondono a quelli, sì, a quelli del morbo di Parkinson. Così è!
Quando vidi questi sintomi in te, lo dissi. Dissi che erano i sintomi del Parkinson e che avevi bisogno di una visita neurologica e di essere curato.
Però passò del tempo prima che si riuscisse a far accettare l’idea.
Poi, dopo due visite neurologiche, vennero confermati i miei sospetti, purtroppo.
Emi ti disse che avevi la malattia del Papa, Papa Wojtyla.
Del resto io ero illusa che, come era accaduto a me, con la somministrazione di farmaci ad hoc i sintomi sarebbero scomparsi.
Così non fu! Così non è!
Come sai, mi iscrissi alla newsletter della fondazione di Michael JFox e della Fondazione Grigioni oltre che all’associazione milanese AIP, cui ci siamo rivolti in diverse occasioni. Lessi anche diversi libri di malati, uomini e donne, che affrontavano la malattia.
Volevo essere informata, capire, capacitarmi. Anche se le informazioni non sono mai abbastanza, anche se si può comprendere ma non accettare, anche se non si riesce a farsene una ragione.
Uno di questi libri, “Di Parkinson non si muore” di Ermes Carassiti, affronta il male con indubbia ironia, elencando capitolo dopo capitolo, tutti i disagi e i disturbi causati dal Morbo di Parkinson e concludendo ogni capitolo con un “Ma di Parkinson non si muore!”, “Di Parkinson non si muore!” per arrivare alla conclusione del libro con un liberatorio: “Di Parkinson non si muore! Che culo!”.
Come ha detto recentemente Michael J Fox, “Di Parkinson non si muore. Si muore con il Parkinson”.
È un male terribile. Tutti avevamo nei nostri ricordi l’esperienza di zio Michelino di Collinas, il fratello di nonno Narciso.
L’ultima volta che lo vidi giaceva rattrappito sul suo letto con le sponde. Era vigile e cosciente ma riusciva a malapena a sorridere o ad accennare una smorfia che voleva essere un sorriso. Non riusciva neanche a parlare. Ci guardava, gli occhi vispi, e tu gli avevi preso il pugno che lui stringeva… Povero zio!
Un’anima, uno spirito imprigionati in un corpo fortezza.
I suoi muscoli, irrigiditi e bloccati, si erano distesi nuovamente solo con la morte.
Così come lo ricordavo io, o mie sorelle, così lo ricordava mamma e soprattutto tu e penso che avessi quelle immagini costantemente sotto gli occhi mentre ti ritrovavi a vivere i sintomi di quel male terribile che temevi ti venisse diagnosticato.
Erano stati mesi di angoscia per te, eri cupo, “sentivi” il tuo corpo, sentivi il tuo male.
Era stata tragedia.
Le buone cure, i medici disponibili per i malati di Parkinson, in Sardegna, sono solo nei libri.
Solo un medico, per un breve periodo, era stato l’eccezione tra i neurologi sardi che ti hanno avuto in cura, anche se poi, a distanza di anni, avendo ripreso a visitare i malati in ospedale, si è rivelato in nulla diverso da tutti gli altri e anche peggio, visto che, quando ti abbiamo portato a Cagliari per quella che è stata l’ultima visita di controllo, in ambulanza (a pagamento) perché allettato da tempo, dopo un faticoso viaggio di circa cinquanta kilometri, non ti ha degnato nemmeno di uno sguardo e ha parlato, per quel poco che ha detto, come se tu non ci fossi.
E non lo sopporto! Non sopporto che tu tanto abbia dovuto patire non solo per volere del Creatore, ma anche per l’imperizia, la leggerezza, l’inettitudine e la mancanza di buona volontà di medici e paramedici, di chi più di tutti dovrebbe avere a cuore lo stare bene delle persone.
Al Creatore posso chiedere, come Giobbe, “Perché???”, “Perché lasci che i tuoi figli soffrano?”, “Perché la sofferenza del giusto?” e chiedermi se Dio sia un Dio crudele… Me lo sono chiesta, me lo chiedo, ma invano.
In quanto a medici e paramedici, non dimenticherò, non voglio dimenticare.
Anche il cardiologo che veniva a domicilio, a pagamento, si era dimostrato leggero e menefreghista. E l’ultima volta, mentre ti stava “visitando”, pensava ad ordinare i pesci per la grigliata con gli amici…
Così come non voglio dimenticare la mala burocrazia dell’Adi e dei vari uffici amministrativi cui abbiamo avuto necessità di rivolgerci negli anni della tua sofferenza.
Non dimenticherò quello che è stato per te e per noi tutti un annus horribilis, il 2019, quando dapprima, a Marzo, sei stato ricoverato dopo essere collassato a terra. Dopo una settimana circa ti avevano dimesso con una diagnosi di polmonite asintomatica, allettato e molto provato. Da allora non ti sei potuto rimettere in piedi se non con il deambulatore e l’aiuto del fisioterapista. Ai primi di Maggio venivi ricoverato d’urgenza e operato all’intestino per l’asportazione di un tumore maligno che i medici del primo ospedale non avevano nemmeno rilevato, tanto accurati erano stati i loro controlli… A metà Agosto, sempre quell’anno, venivi ricoverato nuovamente per una emorragia sub aracnoidea, la peggiore delle emorragie cerebrali, così ci era stato detto… Al momento della diagnosi, lucido, avevi esclamato: “Ma itta appu fattu deu?!” e mamma ti aveva risposto; “Nudda, nudda, aisi fattu!!!” (“Ma cosa ho fatto io?!” “Niente, non hai fatto niente!”).
E tu, tu hai affrontato e superato tutto, forte nello spirito e nel fisico, così duramente colpito!
Sono stati anni di vera passione e sofferenza che non voglio dimenticare, così come non voglio dimenticare l’assenza di parenti/amici/conoscenti, in tutti questi anni
A te, che tanto hai amato la Vita, negli ultimi giorni, quando è precipitato tutto, è stata tolta anche la facoltà di comunicare con noi e di deglutire e nutrirti, ultimi piaceri che ti erano rimasti… E non ti sei mai lamentato, nonostante le terribili piaghe da decubito che ti erano venute in ospedale, nonostante l’immobilità, nonostante l’aggravarsi del Parkinson e le cure pesanti che alla fine erano diventate veleno per il tuo corpo, nonostante i problemi respiratori, e vari altri, costantemente accudito da mamma in prima linea, con tanti spaventi e interventi del 118, a casa, senza nuovi ricoveri dopo le bruttissime esperienza del 2019…
Sono contenta di aver lasciato Milano circa due anni fa ed essere stata vicino a te e vicino a mamma ma, ora, non ho nemmeno il sollievo di essere stata presente nei tuoi ultimi momenti di lucidità, quando hai chiesto di me che ero andata a riposare dopo la nottata: “Dove è Daniela?”, “È andata a riposare. Non ha dormito stanotte…” e tu: “Poverina!”.
Pensieri e parole di cura e tenerezza infinite!!!
Caro babbo, io ora, dentro di me, vivo un incubo di impotenza, rassegnazione e tristezza. Non più rabbia, ma tanta, tanta tristezza.
In realtà sono tanto arrabbiata anche se la rabbia è sopita…
Avevo assistito a un funerale qualche mese fa e durante la predica il prete, che era anche un frate, aveva detto che ai funerali diceva sempre le stesse cose e in particolare ricordava le parole che sua madre malata e prossima alla morte aveva detto a loro figli che chiedevano: “Come faremo?” “E noi come faremo?” e lei aveva risposto: “Come fanno tutti!”.
Ed è così!
Si va avanti. Di fronte all’Ineluttabile, mi ripeto e continuo a ripetermi, non si può fare più niente. Si va avanti. Col dolore dentro, nella testa o, come si dice, nel cuore…
Ti lascio, caro babbo, per ora.
“Avrei un milione di cose da dirti”…
Ciao,
Daniela
Sardara, 20 Maggio 2023
P.S.
Per dirla con le parole di Hermann Hesse, “in ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore”.
“Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo si incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di ogni attenzione”, dice ancora Hermann Hesse.