2019 - Racconti
Trasgressioni
Sì, si sarebbe concessa una delle sue trasgressioni, che stava diventando abbastanza frequente. Andare a fare la spesa senza la lista!
Un’altra delle sue trasgressioni era andare a letto senza prima essersi struccata, meno frequente questa perché sapeva essere nociva per la pelle.
Fatto sta, eccola aggirarsi tutta giuliva tra gli scaffali del supermercato col suo cestone. Lo avrebbe riempito, di questo era sicura, per poi caricarsi i borsoni sulle spalle fino alla fermata del bus.
Mentre faceva la spesa, la sua mente si liberava del resto: non pensava a niente che non fossero broccoli, cavolini di Bruxelles, pomodorini sardi, pere, fragole, banane, pane fresco o imbustato, carne di vitello (povero lui) o di lonza e affettati (poveri maiali), e poi formaggi, yogurt, uova, pasta fresca e varie ed eventuali a piacimento...
Sì, era ormai appurato che fare shopping aveva effetti benefici, non foss’altro che per i negozianti, e per lei anche la spesa settimanale diventava momento di leggerezza. Certo, non come la spesa cantata da Mina in “Ma chi è quello lì” ma comunque era momento di stacco.
Quel giorno non si era nemmeno truccata ed era andata al discount non molto lontano.
Aveva fatto una bella passeggiata all’andata, complice la tiepida giornata di primavera, e se l’era presa con calma. Non doveva rendere conto a nessuno di come impiegava il suo tempo libero e non doveva far tutto di corsa, almeno nei fine settimana.
Era intenta a controllare la data di scadenza di una mozzarella di bufala quando sentì il suo nome per aria: “Natalia?!” “Natalia?!”. Si voltò e lì davanti a lei ecco un volto che le era subito apparso familiare anche se, in quel momento, così all’improvviso, non ricordava il nome di chi la chiamava.
E con la mente tornò indietro di vent’anni e passa. Vent’anni, non sembrava vero!
Se ricordava un viso ma non un nome era anche giustificata, lei che, di solito dopo tre secondi, dimenticava il nome pure di chi le stringeva la mano presentandosi per la prima volta (a meno che non conoscesse il nome prima delle presentazioni stesse...).
Certo, sapeva che in quella città non avrebbe potuto incontrare chi portava un nome che, proprio no, non aveva dimenticato. E infatti non si trattava di lui.
Si trattava invece di un uomo che vent’anni prima aveva conosciuto all’estero, durante il suo soggiorno post-universitario, e che, come lei, alloggiava nel college più gettonato che c’era.
Studiavano materie diverse ma si ritrovavano spesso in mensa, insieme agli altri postgraduates.
Scambiavano parole di circostanza, di come era andata la giornata, e parlavano in italiano, lì in quel paese straniero, circondati da studenti English speaking.
Non che fossero diventati grandi amici, camerati piuttosto, accomunati dalle stesse origini e, dopo la partenza, non si erano più tenuti in contatto.
Ma ecco che quell’incontro, inaspettato per entrambi, li riportava indietro nel tempo.
Si salutarono e scambiarono bacini e bacetti: “Ma come?!” “Anche tu qui?!” “Come mai?!” “Sei più tornato in Gran Bretagna?” e via così per dieci minuti.
Neanche lui si era fatto una famiglia. Si era trasferito dal suo paesello in quella città perché, come lei del resto, aveva trovato lavoro lì.
E non era stato facile. Come per lei.
Si trovarono d’accordo nel considerare che mentre erano studenti avevano un ruolo nella società meno complicato: avevano lezioni da seguire, esami da preparare, saggi da scrivere e i prof erano più o meno contenti dei risultati ma nessuno si aspettava niente di diverso da loro. La vita sociale era incanalata nel college: c’era un ambiente internazionale, si incontravano tutti i giorni persone interessanti provenienti da tutte le parti del mondo e venivano organizzate feste, gite, serate di gruppo in teatro o al cinema. Non avevano nemmeno il pensiero dell’alloggio, delle bollette da pagare, perfino delle pulizie, dato che le cleaning ladies passavano per le camere, tutti i giorni.
Già, già!
Invece, tornati nel loro paese, si erano trovati ad essere nessuno, a dover cercare casa e lavoro cominciando dal nulla. E poi avevano trovato casa, avevano trovato lavoro e quindi, irretiti dalla loro quotidianità e dalla loro noiosa routine, non avevano tempo per altro. E così andavano avanti, giorno dopo giorno, aspettando i venerdì sera.
Lei era rimasta in contatto con alcuni studenti stranieri e anche loro avevano avuto la stessa esperienza una volta tornati in Patria.
Anche se mal comune non fa mezzo gaudio...
Ma, tant'è, erano passati vent’anni. L’esperienza all’estero apparteneva al passato e, al contrario di molti, potevano considerarsi fortunati per averla vissuta.
“Ma sì, ora che ci siamo incontrati, non perdiamoci di vista!” “Vediamoci per un caffè, un cinema...” “Anche tu sei su Facebook?” “Ok, allora ti chiedo l’amicizia!” “Promesso?! Mi raccomando!”.
E bacini e bacetti e “Ciao!” “Ciao!”.
Lei tornò alla sua mozzarella e lui al suo latte.
Sapevano che non si sarebbero più cercati, in quella grande città. Niente scombussolamenti nelle loro vite ordinarie. Certo sarebbero diventati amici su Facebook e, al massimo, si sarebbero scambiati like e faccine varie, ma nulla di più.
Ecco i benefici della spesa senza la lista! Se l’avesse fatta, le mozzarelle di bufala non le avrebbe nemmeno guardate, visto che nel frigo ne aveva una confezione multipla... Ma, viva le trasgressioni! E... Goodbye Farewell, mondo lontano lontano di vent’anni addietro!
Pavia, 23 marzo 2019
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Festa di compleanno
Aveva raggiunto i settanta. Un bel traguardo, non poteva lamentarsi. Alla sua età alcuni erano già volati in cielo.
Avrebbe festeggiato con suo fratello, con sue sorelle, coi suoi cognati e coi suoi nipoti, come ogni anno da vent’anni a quella parte.
Era in pensione e, toccando ferro, la sua salute era ancora buona, a parte qualche piccolo acciacco dovuto all’età appunto.
“Toccando ferro” perché spesso capitava, l’aveva constatato, che con il ritiro dal lavoro arrivavano insospettabili problemi o al cuore o allo stomaco o ai polmoni o alla testa… Insomma doveva ritenersi davvero fortunato.
Aveva avuto una vita piena fino a quel momento, non che avesse mai fatto chissà che, e, per quanto possibile, non ci avrebbe rinunciato.
Coi suoi familiari, che sarebbero arrivati di lì a breve, avrebbe sfogliato i suoi vecchi album di foto. Ai suoi tempi si usavano le macchine fotografiche ora considerate antiche e superate e si usava sviluppare tutte le foto del rullino e selezionare le migliori da conservare negli album appunto. Erano tuttavia ancora i “suoi” tempi, erano i tempi dei suoi settanta, e anche lui si era adattato e aveva la sua macchina fotografica digitale con cui si dilettava a cogliere momenti di bellezza. Nei volti dei suoi nipoti, nel suo giardino, in campagna o nelle città d’arte che amava visitare e che ancora visitava.
Certo, si era adattato ai tempi e, come un tempo facevano solo i giapponesi che fotografavano tutto e di tutto, suscitando l’ilarità degli occidentali, ora anche lui, come gli altri, giovani o anziani che fossero, coglieva mille attimi e mille scorci che gli sembravano meritevoli di uno scatto. “Clic”, “clic” e ancora “clic”.
Gli piaceva anche farsi fotografare da nipotini e nipotine perché, al momento dello scatto, aveva davanti i loro visi che, da sempre, da quando erano stati in grado di maneggiare una macchina fotografica, riuscivano a strappargli un sorriso aperto e sincero che gli illuminava tutto il viso.
Certo, c’erano i segni del tempo, le rughe, le macchie, i denti sistemati dal dentista, ma la luce negli occhi era quella dei suoi vent’anni! O, almeno, lui si vedeva così.
Il tempo portava malanni e cambiamenti nel corpo ma lui, proprio no, non si sentiva vecchio dentro. Banale, il corpo invecchia e lo spirito si trova suo malgrado ingabbiato dentro una casa che è sempre stata la sua ma che a volte stenta a riconoscere e lo illude a tradimento.
Bene! Sarebbero arrivati a breve! Era tutto pronto. Aveva preparato lui. Grazie al cielo, non aveva bisogno di badanti. Andava solo una ragazza a fare le pulizie tre volte alla settimana. Per il resto riusciva a cavarsela.
I salatini, i pasticcini, le bibite, il vino da dessert che piaceva a suo fratello e ai suoi cognati: tutto ben disposto sul tavolo. La torta no. Come da tradizione, la torta l’avrebbero portata i nipoti, fatta e decorata da loro. Era accaduto così, per caso, tanti anni prima. Aveva deciso di cimentarsi lui in cucina e aveva preparato una torta di mele, secondo una nuova ricetta senza burro. Per farla breve, dapprima l’aveva tolta dal forno quando era ancora cruda dentro e, dopo, quando era bruciata dentro e fuori… Fatto sta che avevano rimediato sue sorelle preparando la torta secondo la ricetta della loro madre. I nipotini, che all’epoca erano alle elementari, si erano divertiti a decorarla.
Da allora era rimasta l’usanza familiare di lasciare l’incombenza della torta dapprima alle sue sorelle e poi ai loro bambini nel frattempo cresciuti.
Presto avrebbero portato anche i loro fidanzatini.
Ecco, il campanello! Arrivavano!
Ecco Lidia, la maggiore, poi Maria, Andrea, Nicola e l’ultima arrivata, la piccola Marina, in braccio a sua cognata Lucia mentre suo fratello Valerio portava il seggiolino. E poi le altre sorelle coi loro rispettivi mariti, Elisabetta con Stefano, Alessandra con Piero e infine Susanna con Giovanni.
Non c’erano altri invitati. Non aveva mai festeggiato i compleanni con gli amici in gioventù e non avrebbe cominciato ora.
Iniziarono con i saluti e baci e abbracci. La più coccolata era ora Marina che li deliziava coi suoi versi e i suoi sorrisi. Lucia era ancora giovane ma l’arrivo di Marina era stato comunque inaspettato. Una gioia per tutti!
Ed eccola, ecco la torta! Speciale, per i suoi settanta. Non c’erano però settanta candeline: sarebbe sembrata un porcospino altrimenti!
Ce ne erano sette che valevano ognuna per dieci. Le accesero, fecero buio, prepararono le macchine fotografiche e cominciarono a intonare “Tanti auguri a te!”.
Lui, dentro di sé, ringraziò Chi-Non-Festeggia-Compleanni per tutti gli anni passati e per quelli a venire che gli sarebbero giunti, come a tutti, in dono!
E poi, per qualche secondo, si alienò.
Un pensiero fugace ma non troppo gli attraversò la mente: eccola!
Era lei, era lei quarant’anni prima, lei che non c’era più e che tanto tanto tanto, giorno dopo giorno, ora come non mai, le mancava al punto che tutto il corpo gli doleva…
E “Taaanti auguri a teeeee!!!” Applausi! Applausi! Riaccesero le luci e “clic” “clic” “clic”, sorrisi e sorrisi e “cheese” per un’altra foto.
Pavia, 17 marzo 2019
Di fiori, giardini e... pollai
“Ciò nonostante bisogna coltivare il nostro giardino”, così asserisce Candido di Voltaire.
Aveva a suo tempo pressoché divorato il piccolo grande capolavoro dell’autore francese, apprezzandone l’arguzia e la leggerezza al tempo stesso.
E così aveva deciso di fare proprio il messaggio finale dell’opera.
Sì, da allora in avanti, non avrebbe cercato grandi risposte alle grandi domande esistenziali. Avrebbe coltivato i suoi talenti e le sue inclinazioni, migliorando nel suo piccolo il proprio mondo, senza pretese e senza illusioni. Avrebbe contrastato non “il male” ma i piccoli mali di un’esistenza ordinaria, cercando di godere delle piccole gioie quotidiane.
Il suo amico Nicola aveva il pollice verde non in senso metaforico e riusciva a coltivare perfino le orchidee nella sua mini terrazza, visto che non aveva un giardino vero e proprio. Era un esperto di botanica e amava soprattutto i fiori esotici, non troppo i gerani e le margherite, a dire il vero. Però gli piacevano anche le viole e le fresie che sapevano di primavera e gli ricordavano il giardino dei suoi nonni.
Quello sì che era un giardino! Fiori ad ogni stagione, coltivati con pazienza e dedizione.
Lui sì che coltivava il suo giardino, era quello il suo talento.
Anche lei si sarebbe cimentata, decise, con terra, vasi, bulbi e concimi.
E questo sarebbe stato uno dei suoi traguardi da giardiniera a breve termine.
Quanto ai traguardi al di fuor di metafora, si disse: “Mi sa che sono come un’agave. Un solo fiore prima di spegnermi. Una sola fioritura, meglio. Tanti fiori. Su uno stelo lungo lungo stagliato contro il cielo che magari un vento impetuoso e improvviso potrebbe piegare, come di fatto è accaduto nel giardino dei miei”.
Non sapeva bene cosa sarebbe stato il suo fiore, la sua sola fioritura, però le piaceva il paragone.
L’agave si spegne dopo la sua fioritura ma lascia i suoi figli ai suoi piedi in modo da non spegnersi del tutto, in modo da lasciare qualcosa dopo di sé.
E così, le piaceva pensare, anche lei non avrebbe lasciato la terra infeconda.
Cosa avrebbe lasciato chi lo sa ma qualcosa di sicuro.
Del resto lei non era come il suo amico e si sarebbe cimentata coi fiori e le piante del tutto consapevole di non avere possibilità.
E infatti ecco cosa ebbe modo di raccontare a Nicola.
“Prima dell'estate scorsa era arrivato sul mio balcone un fiore, un fiore piovuto da uno dei balconi dei piani superiori. Non saprei dire che fiore fosse, ne avevo già visti ma non sono un'esperta e nemmeno una conoscitrice superficiale, lo sai.
Beh, fatto sta che decisi di prendermene cura, finché fosse durato. E così, prima di partire per le vacanze, avevo lasciato il fiore in un bicchiere d'acqua vicino alla finestra del bagno, perché, anche in mia assenza, avesse almeno un po' di luce e nutrimento.
Quando ero tornata a settembre, avevo visto che il fiore era ancora in perfette condizioni e avevo pensato “Caspita! Che fiore resistente!!!” e così avevo continuato a prendermene cura... Un fiore piovuto dal cielo!
Due giorni dopo, l’avevo ripreso tra le mani e, stupendomi ancora per la sua longevità e resistenza, mi ero accorta -Alleluya!- che era... di plastica! Sì, insomma, falso!!!
È ancora lì, col gambo verde, il fiore rosso col lungo pistillo giallo (questo lo so dalle elementari)!
E non mi sono smentita! Decisamente, non-ho-il-pol-li-ce-ver-de!
Detto questo, mi auguro che invece che come un’agave nella sua unica molteplice fioritura, io non sia invece come un fiore... di plastica!”.
Avevano riso allora di cuore della sua imbranataggine naïf.
Ed ecco che ci ricascava! Anche coltivare il proprio giardino diventava una grande domanda, una domanda che restava senza grandi risposte.
Sì, certo, coltivare il proprio giardino, ma se non era capace di distinguere un fiore falso da uno vero, quali sarebbero stati i suoi talenti?
In cosa avrebbe mai potuto eccellere?!
E soprattutto, sarebbe sfiorita ancor prima di sbocciare?!
Una volta le era stato detto che galline e aquile sono uccelli entrambi, ma le galline becchettano stando a terra mentre le aquile si librano in alto in cielo. E lei doveva aspirare a volare, a librarsi in alto. A lei però sembrava proprio di non essere aquila, forse sarebbe rimasta gallina e amen! Forse il suo giardino altro non poteva essere che un pollaio mono posto, senza fiori e senza piante, in cui zampettare pacifica sognando di librarsi in alto come le aquile.
Ecco!
Con buona pace delle grandi risposte alle grandi domande filosofiche!
Pavia, 2 marzo 2019
“Ciò nonostante bisogna coltivare il nostro giardino”, così asserisce Candido di Voltaire.
Aveva a suo tempo pressoché divorato il piccolo grande capolavoro dell’autore francese, apprezzandone l’arguzia e la leggerezza al tempo stesso.
E così aveva deciso di fare proprio il messaggio finale dell’opera.
Sì, da allora in avanti, non avrebbe cercato grandi risposte alle grandi domande esistenziali. Avrebbe coltivato i suoi talenti e le sue inclinazioni, migliorando nel suo piccolo il proprio mondo, senza pretese e senza illusioni. Avrebbe contrastato non “il male” ma i piccoli mali di un’esistenza ordinaria, cercando di godere delle piccole gioie quotidiane.
Il suo amico Nicola aveva il pollice verde non in senso metaforico e riusciva a coltivare perfino le orchidee nella sua mini terrazza, visto che non aveva un giardino vero e proprio. Era un esperto di botanica e amava soprattutto i fiori esotici, non troppo i gerani e le margherite, a dire il vero. Però gli piacevano anche le viole e le fresie che sapevano di primavera e gli ricordavano il giardino dei suoi nonni.
Quello sì che era un giardino! Fiori ad ogni stagione, coltivati con pazienza e dedizione.
Lui sì che coltivava il suo giardino, era quello il suo talento.
Anche lei si sarebbe cimentata, decise, con terra, vasi, bulbi e concimi.
E questo sarebbe stato uno dei suoi traguardi da giardiniera a breve termine.
Quanto ai traguardi al di fuor di metafora, si disse: “Mi sa che sono come un’agave. Un solo fiore prima di spegnermi. Una sola fioritura, meglio. Tanti fiori. Su uno stelo lungo lungo stagliato contro il cielo che magari un vento impetuoso e improvviso potrebbe piegare, come di fatto è accaduto nel giardino dei miei”.
Non sapeva bene cosa sarebbe stato il suo fiore, la sua sola fioritura, però le piaceva il paragone.
L’agave si spegne dopo la sua fioritura ma lascia i suoi figli ai suoi piedi in modo da non spegnersi del tutto, in modo da lasciare qualcosa dopo di sé.
E così, le piaceva pensare, anche lei non avrebbe lasciato la terra infeconda.
Cosa avrebbe lasciato chi lo sa ma qualcosa di sicuro.
Del resto lei non era come il suo amico e si sarebbe cimentata coi fiori e le piante del tutto consapevole di non avere possibilità.
E infatti ecco cosa ebbe modo di raccontare a Nicola.
“Prima dell'estate scorsa era arrivato sul mio balcone un fiore, un fiore piovuto da uno dei balconi dei piani superiori. Non saprei dire che fiore fosse, ne avevo già visti ma non sono un'esperta e nemmeno una conoscitrice superficiale, lo sai.
Beh, fatto sta che decisi di prendermene cura, finché fosse durato. E così, prima di partire per le vacanze, avevo lasciato il fiore in un bicchiere d'acqua vicino alla finestra del bagno, perché, anche in mia assenza, avesse almeno un po' di luce e nutrimento.
Quando ero tornata a settembre, avevo visto che il fiore era ancora in perfette condizioni e avevo pensato “Caspita! Che fiore resistente!!!” e così avevo continuato a prendermene cura... Un fiore piovuto dal cielo!
Due giorni dopo, l’avevo ripreso tra le mani e, stupendomi ancora per la sua longevità e resistenza, mi ero accorta -Alleluya!- che era... di plastica! Sì, insomma, falso!!!
È ancora lì, col gambo verde, il fiore rosso col lungo pistillo giallo (questo lo so dalle elementari)!
E non mi sono smentita! Decisamente, non-ho-il-pol-li-ce-ver-de!
Detto questo, mi auguro che invece che come un’agave nella sua unica molteplice fioritura, io non sia invece come un fiore... di plastica!”.
Avevano riso allora di cuore della sua imbranataggine naïf.
Ed ecco che ci ricascava! Anche coltivare il proprio giardino diventava una grande domanda, una domanda che restava senza grandi risposte.
Sì, certo, coltivare il proprio giardino, ma se non era capace di distinguere un fiore falso da uno vero, quali sarebbero stati i suoi talenti?
In cosa avrebbe mai potuto eccellere?!
E soprattutto, sarebbe sfiorita ancor prima di sbocciare?!
Una volta le era stato detto che galline e aquile sono uccelli entrambi, ma le galline becchettano stando a terra mentre le aquile si librano in alto in cielo. E lei doveva aspirare a volare, a librarsi in alto. A lei però sembrava proprio di non essere aquila, forse sarebbe rimasta gallina e amen! Forse il suo giardino altro non poteva essere che un pollaio mono posto, senza fiori e senza piante, in cui zampettare pacifica sognando di librarsi in alto come le aquile.
Ecco!
Con buona pace delle grandi risposte alle grandi domande filosofiche!
Pavia, 2 marzo 2019
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Ad occhi aperti
Non è da tanto tempo che sono al mondo.
Non conosco mia madre e tantomeno mio padre.
Devono essere volati tra gli angeli, così mi piace pensare.
Non so chi sia chi mi nutre ma non sono sola.
Vedo tanti alberi e mi piace salirci per gioco.
Gioco anche con le mie sorelle e ci divertiamo un mondo.
Siamo precoci.
Ieri sono arrivati altri cuccioli a trovarci. Abbiamo giocato a nascondino e a chi sale più in alto tra gli alberi.
Ce ne sono così tanti e creano refrigerio dal sole cocente.
È bello il sole: è vita e gioia!
Adoro anche i fiori, così colorati e delicati, nati e cresciuti per essere ammirati.
Come le farfalle.
Sono talmente libere mentre volano di fiore in fiore. Anche gli uccelli mi piacciono, pure loro così liberi.
Ci portano notizie di mondi lontani.
Chissà se anche io conoscerò altri mondi. Non che non mi piaccia il mio. Mi piace tanto, ve lo assicuro. Mi piace ciò che vedo e mi piace ciò che sento, un’infinità di versi!
Mi piace però anche quando tutto tace, quando non c’è più la luce del sole.
Mi manca mia madre e mi spiace non averla conosciuta. Penso sia normale per un cucciolo.
Non posso fare a meno di pensarci, anche se tutti credono che i cuccioli non abbiano pensieri, specie quelli come me.
Ma io non posso fare a meno di pensare e pensare. Non posso proprio. E così le mie sorelle.
…
…
Io non ho un nome e nemmeno le mie sorelle. Vivo in gabbia e non ho mai visto né alberi, né fiori, né farfalle e nemmeno il sole.
Non ho mai sentito il canto degli uccelli. Non conosco chi mi ha messo al mondo.
Sono una scimmietta clonata, frutto di esperimenti umani. Ho occhi enormi e sguardo smarrito e sono stata programmata per essere insonne. Per questo non posso fare a meno di sognare... ad occhi aperti un mondo che non ho mai conosciuto e mai conoscerò.
Pavia, 25 gennaio 2019
Boh!
“Boh!”. Il mio professore di italiano diceva sempre che “boh” lo fa qualcosa quando cade a terra e pertanto non si deve rispondere “boh!”.
Eppure, come ho scoperto anni dopo, “boh” ha per giunta dignità letteraria. È infatti il titolo di un’opera di Moravia, opera in cui sono le donne a parlare, le donne come viste dall’autore naturalmente.
Ora è la mia bambina che compirà due anni tra qualche mese a rispondere “Boh!” quando non trova qualcuno o quando non riesce a spiegarsi qualcosa.
Mio marito viaggia spesso per lavoro ma siamo una famigliola molto unita: mio marito, le nostre due bambine, Natalia e Marina, ed io.
Nessuno avrebbe scommesso una lira (ora un eurocent) quando ci siamo sposati ma, dopo quasi dieci anni, siamo ancora insieme. Certo, non mancano i periodi difficili ma abbiamo lo spirito e la forza per superarli.
Le nostre bambine sono una gioia. Per seguirle, ho smesso di lavorare per alcuni anni. Sono una libera professionista e il lavoro di mamma casalinga a tempo pieno non viene retribuito ma, grazie anche allo stipendio di mio marito, potevo permettermelo.
Tra qualche mese Marina andrà alla scuola materna ed io riprenderò la mia attività.
Natalia frequenta la terza elementare. È una bambina super vivace e affronta tutto con entusiasmo ed allegria.
Ci siamo trasferiti in questo paese della provincia perché la qualità della vita, a nostro parere, è migliore che in città e anche perché, per dirla tutta, ci siamo potuti permettere di acquistare una villetta che in città non avremmo potuto.
La nostra villetta ha un bel giardino attorno. Io, benché non abbia il pollice verde, riesco a far sopravvivere qualche fiore, gerani e margherite per lo più, e le bambine hanno un ampio prato per i loro giochi.
Abbiamo anche una camera per gli ospiti e sono venuti a farci visita più volte sia i miei genitori che i genitori di mio marito.
Le bambine adorano i nonni e i nonni si rilassano con le nipotine come non avevano potuto coi loro stessi figli.
Ora tocca a noi genitori fare la parte dei severi e dire anche qualche no.
Di questi tempi non è scontato: sembra si debba permettere tutto ai figli senza negare niente ma mio marito ed io la pensiamo diversamente. Se si concede tutto ai figli, questi non apprezzeranno più nulla e considereranno ogni cosa come dovuta.
I nostri genitori, benché proveniamo da diversi background, ci hanno educato così e, non starebbe a me dirlo, siamo venuti su bene.
Dicevo che nessuno avrebbe scommesso una lira sul nostro matrimonio. Ci avevano messo in guardia i nostri genitori, non sarebbe stato facile. E, infatti, facile non è stato. Anche i cosiddetti amici, perfino il prete del mio paesino, erano scettici ma, per fortuna, ci hanno sostenuto le nostre famiglie.
E noi eravamo arciconvinti della nostra scelta.
Avevamo già allora qualche pensiero sui possibili problemi o ostacoli che avrebbero potuto incontrare i nostri figli, a scuola, con gli amici, nella società in genere. Ma, grazie al cielo, non è stato così.
Siamo nel terzo millennio ma certi tabù sussistono ancora, tenaci e radicati.
Mio marito ed io ci siamo incontrati in ufficio. Lui era un cliente allora e avevamo seguito una pratica complessa per la sua società. Un giorno eravamo usciti contemporaneamente e mi aveva invitato per un aperitivo. Io non avevo finto di avere un’agenda fitta di impegni mondani e avevo accettato subito.
E così è andata. Ci eravamo piaciuti, ci piaceva la nostra reciproca compagnia ed allora avevamo cominciato a frequentarci: andavamo insieme al cinema, a teatro, perfino per negozi oppure restavamo in casa a non far niente.
Quando decidemmo di sposarci, sei mesi dopo il nostro primo incontro, sapevamo che avremmo dovuto prima di tutto comunicarlo ai nostri genitori che forse non sarebbero stati pronti. E invece no, non solo furono comprensivi anche se un po’ sorpresi all’inizio, ma ci incoraggiarono e dissero che sarebbero stati al nostro fianco.
E tutto andò liscio! Forti del loro appoggio, saremmo stati invincibili!
Eravamo entrambi lontani dalla nostra terra d’origine e forse anche per questo, ci sentivamo e ci sentiamo in sintonia. Del resto è una lontananza fisica, che ancora persiste del resto, ma non mentale. Cerchiamo di mantenere vive le nostre radici, a partire dalle tradizioni culinarie, e di trasmetterle alle nostre bambine.
Natalia a scuola si trova bene. Almeno le maestre non mi hanno segnalato problemi di sorta e lei è serena quando torna a casa.
Speriamo che anche Marina si inserisca bene alla scuola materna. Forse all’inizio soffrirà un po’ a stare lontana per ore dalla sua mamma e forse anch’io soffrirò ma questo succede a tutti i bambini (e a tutte le mamme).
L’altro giorno giocava con la sua bambola Lilly che tanto aveva voluto perché diceva che era proprio come lei.
Aveva iniziato da poco coi suoi “perché” oltre che coi suoi “boh”.
“E perché babbo non c’è?”, “E perché Natalia è più grande di me?”, “E perché quella signora ha i baffi?” ed eccolo, inaspettato ma forse del tutto giustificato, sincero, spontaneo, l’ultimo perché nato dal semplice confronto fra sé stessa, sua sorella, il padre, perfino la sua bambola Lilly e... me: “Mamma, e perché tu hai la pelle bianca?!”.
Pavia, 20 gennaio 2019
“Boh!”. Il mio professore di italiano diceva sempre che “boh” lo fa qualcosa quando cade a terra e pertanto non si deve rispondere “boh!”.
Eppure, come ho scoperto anni dopo, “boh” ha per giunta dignità letteraria. È infatti il titolo di un’opera di Moravia, opera in cui sono le donne a parlare, le donne come viste dall’autore naturalmente.
Ora è la mia bambina che compirà due anni tra qualche mese a rispondere “Boh!” quando non trova qualcuno o quando non riesce a spiegarsi qualcosa.
Mio marito viaggia spesso per lavoro ma siamo una famigliola molto unita: mio marito, le nostre due bambine, Natalia e Marina, ed io.
Nessuno avrebbe scommesso una lira (ora un eurocent) quando ci siamo sposati ma, dopo quasi dieci anni, siamo ancora insieme. Certo, non mancano i periodi difficili ma abbiamo lo spirito e la forza per superarli.
Le nostre bambine sono una gioia. Per seguirle, ho smesso di lavorare per alcuni anni. Sono una libera professionista e il lavoro di mamma casalinga a tempo pieno non viene retribuito ma, grazie anche allo stipendio di mio marito, potevo permettermelo.
Tra qualche mese Marina andrà alla scuola materna ed io riprenderò la mia attività.
Natalia frequenta la terza elementare. È una bambina super vivace e affronta tutto con entusiasmo ed allegria.
Ci siamo trasferiti in questo paese della provincia perché la qualità della vita, a nostro parere, è migliore che in città e anche perché, per dirla tutta, ci siamo potuti permettere di acquistare una villetta che in città non avremmo potuto.
La nostra villetta ha un bel giardino attorno. Io, benché non abbia il pollice verde, riesco a far sopravvivere qualche fiore, gerani e margherite per lo più, e le bambine hanno un ampio prato per i loro giochi.
Abbiamo anche una camera per gli ospiti e sono venuti a farci visita più volte sia i miei genitori che i genitori di mio marito.
Le bambine adorano i nonni e i nonni si rilassano con le nipotine come non avevano potuto coi loro stessi figli.
Ora tocca a noi genitori fare la parte dei severi e dire anche qualche no.
Di questi tempi non è scontato: sembra si debba permettere tutto ai figli senza negare niente ma mio marito ed io la pensiamo diversamente. Se si concede tutto ai figli, questi non apprezzeranno più nulla e considereranno ogni cosa come dovuta.
I nostri genitori, benché proveniamo da diversi background, ci hanno educato così e, non starebbe a me dirlo, siamo venuti su bene.
Dicevo che nessuno avrebbe scommesso una lira sul nostro matrimonio. Ci avevano messo in guardia i nostri genitori, non sarebbe stato facile. E, infatti, facile non è stato. Anche i cosiddetti amici, perfino il prete del mio paesino, erano scettici ma, per fortuna, ci hanno sostenuto le nostre famiglie.
E noi eravamo arciconvinti della nostra scelta.
Avevamo già allora qualche pensiero sui possibili problemi o ostacoli che avrebbero potuto incontrare i nostri figli, a scuola, con gli amici, nella società in genere. Ma, grazie al cielo, non è stato così.
Siamo nel terzo millennio ma certi tabù sussistono ancora, tenaci e radicati.
Mio marito ed io ci siamo incontrati in ufficio. Lui era un cliente allora e avevamo seguito una pratica complessa per la sua società. Un giorno eravamo usciti contemporaneamente e mi aveva invitato per un aperitivo. Io non avevo finto di avere un’agenda fitta di impegni mondani e avevo accettato subito.
E così è andata. Ci eravamo piaciuti, ci piaceva la nostra reciproca compagnia ed allora avevamo cominciato a frequentarci: andavamo insieme al cinema, a teatro, perfino per negozi oppure restavamo in casa a non far niente.
Quando decidemmo di sposarci, sei mesi dopo il nostro primo incontro, sapevamo che avremmo dovuto prima di tutto comunicarlo ai nostri genitori che forse non sarebbero stati pronti. E invece no, non solo furono comprensivi anche se un po’ sorpresi all’inizio, ma ci incoraggiarono e dissero che sarebbero stati al nostro fianco.
E tutto andò liscio! Forti del loro appoggio, saremmo stati invincibili!
Eravamo entrambi lontani dalla nostra terra d’origine e forse anche per questo, ci sentivamo e ci sentiamo in sintonia. Del resto è una lontananza fisica, che ancora persiste del resto, ma non mentale. Cerchiamo di mantenere vive le nostre radici, a partire dalle tradizioni culinarie, e di trasmetterle alle nostre bambine.
Natalia a scuola si trova bene. Almeno le maestre non mi hanno segnalato problemi di sorta e lei è serena quando torna a casa.
Speriamo che anche Marina si inserisca bene alla scuola materna. Forse all’inizio soffrirà un po’ a stare lontana per ore dalla sua mamma e forse anch’io soffrirò ma questo succede a tutti i bambini (e a tutte le mamme).
L’altro giorno giocava con la sua bambola Lilly che tanto aveva voluto perché diceva che era proprio come lei.
Aveva iniziato da poco coi suoi “perché” oltre che coi suoi “boh”.
“E perché babbo non c’è?”, “E perché Natalia è più grande di me?”, “E perché quella signora ha i baffi?” ed eccolo, inaspettato ma forse del tutto giustificato, sincero, spontaneo, l’ultimo perché nato dal semplice confronto fra sé stessa, sua sorella, il padre, perfino la sua bambola Lilly e... me: “Mamma, e perché tu hai la pelle bianca?!”.
Pavia, 20 gennaio 2019
Troppa grazia!
Le era tornata in mente perché aveva di recente letto on line la battuta che asseriva che, se si arrivava single ai quaranta, doveva essere assegnato un gatto d’ufficio.
I gatti spopolavano sui social: tutti gattofili!. Sembravano aver spodestato i cani e che fossero loro i migliori amici dell’uomo.
A lei non piaceva per niente l’idea di tenere animali in appartamento. Lo considerava anti-igienico e una tortura per loro, defraudati del loro habitat naturale. Non era la sola a pensarla così e infatti aveva letto con interesse e col sorriso “Abbaiare stanca” di Pennac, trovandosi in piena sintonia con l’autore. All’arrivo in quella città si era adattata a vivere in un monolocale dove c’era una poltrona interamente coperta di peli di gatto che solo con l’ausilio di un potente aspirapolvere aveva a fatica eliminato, e nemmeno completamente.
Proveniva da un piccolo paese dove non esistevano palazzi e quasi tutte le case avevano il giardino e cani e gatti potevano scorrazzare a piacimento all’aperto. I gatti potevano giocare con le foglie, dare la caccia ai topi e alle lucertole e amoreggiare con gli altri gatti del vicinato.
Non era nemmeno d’accordo con la pratica della sterilizzazione degli animali da compagnia ma, tant’è, Lucia – si era rammentata - aveva una grossa gatta di razza che aveva paura di uscire in giardino e che lei portava in giro col guinzaglio. Era ovviamente sterilizzata e passava tutta la giornata chiusa in casa. La nutriva con bocconcini speciali, le comprava cappottini su misura e, al lavoro, raccontava dei suoi miao e della sue prodezze.
L’aspettava la sera e si faceva coccolare da lei sul divano. Miao miao miao.
Aveva convinto anche la collega Giuliana a scegliersi una gatta nell’allevamento dove aveva acquistato la sua Trudi. La sua vita sarebbe cambiata, non immaginava quanto, così affermava. Lei no, non l’aveva persuasa.
Giuliana aveva raggiunto i quaranta ma non era single. Era sposata da due anni ma ancora non desiderava avere figli. Meglio una gatta d’appartamento!
Anche Lucia aveva superato i quaranta da un pezzo e non era single nemmeno lei. Anzi!
Ricordava di averla incontrata al supermercato un sabato mattina mentre era in fila alla cassa. Le si era avvicinata per salutarla e le aveva presentato suo marito.
Per lei fin troppo. Non era bella e nemmeno granché simpatica. Lavorava da parecchi anni come paralegale e godeva delle simpatie del capo ma non di quella delle colleghe e nemmeno della sua. Ciononostante, dovevano convivere in ufficio e mantenevano rapporti cordialmente superficiali.
Come detto, aveva superato gli anta da un pezzo, era magra, altezza media, viso scarno, capelli color topo alla spalla sottili e spenti. Suo marito le era sembrato un bell’uomo, alto e ben piazzato e, scegliendola come moglie e compagna, sembrava non aver avuto tanto buon gusto. E non solo...
Era ligia al dovere, puntuale e coscienziosa e parlava poco di sé con le sue colleghe. Ogni giorno andava a pranzo dai suoi genitori: era figlia unica e, benché anziani, il padre e la madre erano autosufficienti e autonomi. Non avrebbe fatto a tempo a tornare a casa sua, viveva nell’hinterland e avrebbe impiegato troppo tempo ad andare e tornare in bus, così andava dai genitori. “Passa mio papà a prendermi”, diceva quasi ogni giorno.
Lei la giudicava fortunata finché, un giorno – erano a un convegno professionale fuori città – aveva intravisto l’avvocato De Giorgi e, al rientro, l’aveva detto alla collega Lorena.
Lorena aveva commentato: “Il moroso di Lucia”. “Come, il moroso di Lucia... ?! Non è sposata?!” “Chiedilo a Rossella”. Al che Rossella, chiamata in causa, aveva replicato: “Chiedilo al Notaio”. Insomma sembrava proprio che lei fosse l’unica a non conoscere quel segreto di Pulcinella...
E, guarda caso, da quel giorno, aveva visto più volte la collega Lucia in pausa pranzo salire non nella macchina del padre ma in quella dell’avvocato De Giorgi che l’aspettava in Piazza del Municipio. Così, spudoratamente, alla luce del sole. E, con faccia tosta e incurante di quanto potesse apparire sfacciata, continuava a salutare le colleghe dicendo che andava a pranzo dai suoi.
Lei non si considerava una bigotta moralista ma non le sembrava una grande conquista, quella di poter cornificare liberamente e impunemente il proprio marito.
Non sapeva come considerare la collega ma non le sembrava una bella persona, una che ha un marito e un amante contemporaneamente. Non erano fatti suoi ma le sembrava doppia, ipocrita e sleale.
E l’avvocato De Giorgi... Cosa ci trovavano l’uno nell’altra quei due?! Non sapeva, e nemmeno le importava saperlo, se l’avvocato fosse anche lui sposato e cornificatore.
Ebbene, Lucia non aveva avuto figli, no. Forse non desiderati o semplicemente non arrivati per volere del destino.
Ma doveva ritenersi più che appagata quanto alla sfera degli affetti e dei sentimenti: aveva un marito per le serate e i week-end, un amante per le pause pranzo e chissà quali altri momenti. E, soprattutto, aveva un gatto, un miao miao peloso da coccolare e spupazzare. Trendy, molto trendy! Cosa poteva chiedere di più?!
L’aveva rivista due volte da quando aveva lasciato l’ufficio.
Sempre magra e coi capelli radi e sempre stufa e arcistufa del lavoro. Non poteva certo chiederle dell’amante e nemmeno del marito. Non erano mai state in confidenza. Però aveva ancora la sua adorata Trudi che la rendeva felice e soddisfatta di sè.
Come si dice: troppa grazia!
Pavia, 13 gennaio 2019
Seguite il link! Miao!
www.youtube.com/watch?v=qRG6h6H0_ho
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I gatti spopolavano sui social: tutti gattofili!. Sembravano aver spodestato i cani e che fossero loro i migliori amici dell’uomo.
A lei non piaceva per niente l’idea di tenere animali in appartamento. Lo considerava anti-igienico e una tortura per loro, defraudati del loro habitat naturale. Non era la sola a pensarla così e infatti aveva letto con interesse e col sorriso “Abbaiare stanca” di Pennac, trovandosi in piena sintonia con l’autore. All’arrivo in quella città si era adattata a vivere in un monolocale dove c’era una poltrona interamente coperta di peli di gatto che solo con l’ausilio di un potente aspirapolvere aveva a fatica eliminato, e nemmeno completamente.
Proveniva da un piccolo paese dove non esistevano palazzi e quasi tutte le case avevano il giardino e cani e gatti potevano scorrazzare a piacimento all’aperto. I gatti potevano giocare con le foglie, dare la caccia ai topi e alle lucertole e amoreggiare con gli altri gatti del vicinato.
Non era nemmeno d’accordo con la pratica della sterilizzazione degli animali da compagnia ma, tant’è, Lucia – si era rammentata - aveva una grossa gatta di razza che aveva paura di uscire in giardino e che lei portava in giro col guinzaglio. Era ovviamente sterilizzata e passava tutta la giornata chiusa in casa. La nutriva con bocconcini speciali, le comprava cappottini su misura e, al lavoro, raccontava dei suoi miao e della sue prodezze.
L’aspettava la sera e si faceva coccolare da lei sul divano. Miao miao miao.
Aveva convinto anche la collega Giuliana a scegliersi una gatta nell’allevamento dove aveva acquistato la sua Trudi. La sua vita sarebbe cambiata, non immaginava quanto, così affermava. Lei no, non l’aveva persuasa.
Giuliana aveva raggiunto i quaranta ma non era single. Era sposata da due anni ma ancora non desiderava avere figli. Meglio una gatta d’appartamento!
Anche Lucia aveva superato i quaranta da un pezzo e non era single nemmeno lei. Anzi!
Ricordava di averla incontrata al supermercato un sabato mattina mentre era in fila alla cassa. Le si era avvicinata per salutarla e le aveva presentato suo marito.
Per lei fin troppo. Non era bella e nemmeno granché simpatica. Lavorava da parecchi anni come paralegale e godeva delle simpatie del capo ma non di quella delle colleghe e nemmeno della sua. Ciononostante, dovevano convivere in ufficio e mantenevano rapporti cordialmente superficiali.
Come detto, aveva superato gli anta da un pezzo, era magra, altezza media, viso scarno, capelli color topo alla spalla sottili e spenti. Suo marito le era sembrato un bell’uomo, alto e ben piazzato e, scegliendola come moglie e compagna, sembrava non aver avuto tanto buon gusto. E non solo...
Era ligia al dovere, puntuale e coscienziosa e parlava poco di sé con le sue colleghe. Ogni giorno andava a pranzo dai suoi genitori: era figlia unica e, benché anziani, il padre e la madre erano autosufficienti e autonomi. Non avrebbe fatto a tempo a tornare a casa sua, viveva nell’hinterland e avrebbe impiegato troppo tempo ad andare e tornare in bus, così andava dai genitori. “Passa mio papà a prendermi”, diceva quasi ogni giorno.
Lei la giudicava fortunata finché, un giorno – erano a un convegno professionale fuori città – aveva intravisto l’avvocato De Giorgi e, al rientro, l’aveva detto alla collega Lorena.
Lorena aveva commentato: “Il moroso di Lucia”. “Come, il moroso di Lucia... ?! Non è sposata?!” “Chiedilo a Rossella”. Al che Rossella, chiamata in causa, aveva replicato: “Chiedilo al Notaio”. Insomma sembrava proprio che lei fosse l’unica a non conoscere quel segreto di Pulcinella...
E, guarda caso, da quel giorno, aveva visto più volte la collega Lucia in pausa pranzo salire non nella macchina del padre ma in quella dell’avvocato De Giorgi che l’aspettava in Piazza del Municipio. Così, spudoratamente, alla luce del sole. E, con faccia tosta e incurante di quanto potesse apparire sfacciata, continuava a salutare le colleghe dicendo che andava a pranzo dai suoi.
Lei non si considerava una bigotta moralista ma non le sembrava una grande conquista, quella di poter cornificare liberamente e impunemente il proprio marito.
Non sapeva come considerare la collega ma non le sembrava una bella persona, una che ha un marito e un amante contemporaneamente. Non erano fatti suoi ma le sembrava doppia, ipocrita e sleale.
E l’avvocato De Giorgi... Cosa ci trovavano l’uno nell’altra quei due?! Non sapeva, e nemmeno le importava saperlo, se l’avvocato fosse anche lui sposato e cornificatore.
Ebbene, Lucia non aveva avuto figli, no. Forse non desiderati o semplicemente non arrivati per volere del destino.
Ma doveva ritenersi più che appagata quanto alla sfera degli affetti e dei sentimenti: aveva un marito per le serate e i week-end, un amante per le pause pranzo e chissà quali altri momenti. E, soprattutto, aveva un gatto, un miao miao peloso da coccolare e spupazzare. Trendy, molto trendy! Cosa poteva chiedere di più?!
L’aveva rivista due volte da quando aveva lasciato l’ufficio.
Sempre magra e coi capelli radi e sempre stufa e arcistufa del lavoro. Non poteva certo chiederle dell’amante e nemmeno del marito. Non erano mai state in confidenza. Però aveva ancora la sua adorata Trudi che la rendeva felice e soddisfatta di sè.
Come si dice: troppa grazia!
Pavia, 13 gennaio 2019
Seguite il link! Miao!
www.youtube.com/watch?v=qRG6h6H0_ho
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